XIII Per annum: Il Dio della vita

di:
Il libro della Sapienza

Composto con tutta probabilità verso il 30 a.C. ad Alessandria d’Egitto, direttamente in greco (e per questo non entrato nel canone biblico ebraico), il libro della Sapienza si situa alle soglie del NT ed è l’ultimo libro dell’AT in ordine cronologico di composizione. Esso è indirizzato alla numerosa comunità dei giudei che vivevano nella seconda città dell’impero romano. Molti di essi avevano abiurato l’antica fede dei padri, eliminato chirurgicamente il segno della circoncisione e fatto partito unico con la componente completamente ellenistica della città. Pensieri di cinismo, di edonismo, rinuncia alla fede nel Dio dei padri rivelato nella Torah, sconfessione della fede in una vita al di là di quella puramente umana.

Questi sono gli “empi” combattuti dall’autore di Sapienza, che invece ripropone con forza il patrimonio di fede e di sapienza propria del popolo ebraico, convinto che esso non ha nulla da invidiare a quello del mondo greco-romano. Egli è convinto che la sapienza di Dio, proprietà di YHWH, sia stata partecipata al mondo delle creature, pervada il cosmo nella sua sapiente strutturazione e si sia manifestata ampiamente nel corso della storia.

Nella sua opera, l’autore fa l’elogio/encomio della Sapienza, ne ricorda la sua ricerca e invocazione da parte di Salomone – pensato quale autore del libro – (Sap 6,22–9,18) e ne descrive la sua opera nel corso della storia, a partire da Adamo fino a Mosè (10,1–19,9). Due ampie digressioni (11,15–15,19) si soffermano a meditare sulla magnanimità di Dio onnipotente verso l’Egitto e Canaan (11,15–12,27) e stigmatizzano la religione idolatrica dei pagani, in specie la zoolatria degli egiziani (13,1–15,19). Negli ultimi capitoli (16,1–19,9) si descrivono sette antitesi sull’opposto trattamento riservato da YHWH agli israeliti – considerato un popolo di giusti – e a quello degli egiziani, visto quale simbolo dell’indurimento degli empi (11,6-14; 16,1–19,9).

La prima parte del libro (Sap 1,1–6,21) è invece dedicata alla riflessione sul rapporto fra la sapienza e il destino umano. L’autore invita i re a ricercare Dio, la giustizia e a fuggire il peccato (A: 1,1-15), descrive i malvagi e i giusti posti faccia a faccia in questo mondo (B: 1,16–2,24), con la stigmatizzazione del discorso materialista fatto dagli empi. Si fa quindi un confronto tra la sorte dei giusti e quella degli empi (C.: 3,1-12), sottolineando il vantaggio della sterilità rispetto a quello di una posterità empia (3,13–4,6) e riflettendo sulla spinosa domanda che nasce dalla morte prematura del giusto (4,7-19). La prima parte del libro termina con la descrizione della comparizione faccia a faccia degli empi e dei giusti nel giudizio escatologico e del destino glorioso dei giusti contrapposto alla punizione degli empi (B’: 4,20–5,14; 5,15-23). La conclusione della composizione chiastica di Sap 1–6 ritorna sull’invito fatto ai re di cercare la sapienza (A’: 6,1-21).

Dio non ha creato la morte

Nel commentare questi testi così impegnativi utilizzeremo ampie citazioni di alcuni autori riconosciuti unanimemente fra i migliori interpreti a livello mondiale del libro della Sapienza.

Dopo l’introduzione al discorso degli empi (Sap 1,16–2,1a) – fatto “sragionando” (2,1a) –, se ne rammenta il contenuto materialista, cinico e malvagio (2,1b-20): la vita è breve e triste (2,1b-5); godiamoci la vita (2,6-9); eliminiamo i deboli e il giusto (2,10-16); vediamo chi ha ragione, se lui o noi (2,17-20). Alla fine si riporta un’annotazione conclusiva al discorso degli empi (2,21-24).

I re devono cercare la giustizia (v. 1) e lo Spirito e la Sapienza scacciano l’ingiustizia (v. 5). La Sapienza è uno spirito che ama l’uomo ed è una follia cercare la morte con gli errori della propria vita (vv. 6.12).

Dio non ha “creato/gr. ektisen” la morte! L’autore commenta Gen 1,1ss attraverso il riferimento a Gen 2–3. Gen 1,1 afferma che “Dio creò/ebr. bārā’/gr. epoiēsen il cielo e la terra”, la vita quindi, e non la morte. Dio non gode della “rovina (escatologica)/apōleian” dei viventi, ma che si convertano e vivano, aveva detto il profeta Ezechiele (cf. 18,32; 33,11).

Dio ha creato tutte le cose perché “siano e sussistano/einai” (cf. Gen 1,2 genethetō) e perché le cose generate del mondo sono sōtērioi. La traduzione CEI ha “sane”. Le cose generate, traduce e commenta M. Gilbert – gesuita docente per cinquant’anni al Pontificio Istituto Biblico di Roma, uno dei massimi esperti dei libri sapienziali – sono «le produzioni successive di cui ha parlato tutto il racconto di Gen 1. Queste realtà generate assicurano la conservazione: questo è il senso che la parola sōtērioi deve avere qui, come già in Platone e nel I sec. a.C., Gen 1 sottolinea più volte che le diverse creature dovevano perdurare: la vegetazione porta semente, gli uccelli e i pesci ricevono la benedizione della fecondità, proprio come l’uomo».

Di diverso avviso L. Mazzinghi, suo discepolo, che ne rilevato la cattedra al PIB, il quale traduce «portatrici di salvezza sono le generazioni del cosmo» e così commenta: «Sap 1,14 è una delle più importanti affermazioni di principio del nostro testo: la salvezza passa attraverso la creazione».

Nelle creature non c’è veleno di morte – completa in negativo il suo dire l’autore –, né il regno dei morti (lett. “dell’Ade”) – (è) sulla terra. La causa della morte non è Dio né le creature visibili, e neppure una potenza sovrumana, infernale, che domini sulla terra. «Non esiste dominio dell’abisso, dell’ade, sulla terra; l’abisso, o ade, non è né la morte fisica né il regno dei morti, ma piuttosto la personificazione della morte nel suo significato trascendente o, se si preferisce, la personificazione del male morale. L’autore insinua, non dicendolo, che il dominio dell’abisso, o ade, di questo male assoluto, si esercita soltanto dopo la morte (cf. 5,2ss); resta dunque aperta la via all’affermazione dell’immortalità» (J. Vílchez Líndez). «La distruzione dei viventi non è causata che dalla perversità dell’uomo, come dirà in seguito il racconto del diluvio in Gen 8,21» (Gilbert).

La menzione della “giustizia” (v. 15) irrompe inattesa, adatta ad esprimere l’inclusione col v. 1a, concludendo l’introduzione al libro (1,1-15).

Creato per l’incorruttibilità

Gli empi di Alessandria affermano che la vita è breve e triste, non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti (2,1b-d). Pensano: «Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un “fumo/kapnos” “il soffio delle nostre narici/hē pnoē en rhisin hēmōn”» (2,2a-c) […]. «La teoria degli empi è una parodia di Gen. 2,7, in cui lo jahwista afferma che Dio “insufflò” nelle narici dell’uomo un alito di vita. […] Gli empi omettono soprattutto di dire che il pnoē, il soffio, è insufflato da Dio stesso, non volendo sottolineare che l’inconsistenza del soffio della vita, un fumo di cui non vedono che l’aspetto materiale» (Gilbert).

«… il pensiero/ho logos è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito/to pneuma svanirà come aria sottile», sragionano gli empi (2,2d-3). Forti della loro filosofia materialista, nichilista ed edonista, gli empi progettano la persecuzione del “giusto”, cioè l’ebreo fedele alla Torah, per vedere cosa gli succederà alla fine, cioè se Dio gli verrà in aiuto, come lui afferma. Mettiamolo alla prova e condanniamolo ad una morte infame – complottano –, lui che ci è di rimprovero con la sua stessa presenza (2,4-20).

«“Si sono sbagliati/sono stati ingannati/eplanēthēsan” – è il giudizio tranciante dell’ebreo fedele, autore del libro della Sapienza – la loro malizia li ha accecati… non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per le anime irreprensibili (CEI: “per una vita irreprensibile”)» (2,21-22).

È il momento di ribadire con forza la fede ebraica: «Sì, Dio ha creato l’uomo “per l’incorruttibilità/ep’aphtharsiai”, lo ha fatto “immagine/eikōna” (nel senso di “copia, riproduzione” della propria “natura/idiotētos”» (così scegliendo la lectio difficilior ben attestata, al posto di “aidiotētos, eternità”, che sembra una lectio facilior indotta dal contesto).

Mazzinghi riprende letteralmente il testo del suo maestro, sviluppandolo e modificando traduzione e interpretazione di questo testo molto impegnativo e importante per la teologia cristiana sulla protologia.

Egli scrive: «Alla base del v. 23 sta il celebre testo di Gen 1,26-27. Il progetto di Dio, come fin dall’inizio (Sap 1,13-15) ha mostrato, non prevedeva la morte. Ciò che Sap 1,13-15 diceva allora in negativo, qui viene espresso in forma positiva. L’essere “immagine” della natura divina è qui inteso, però, in senso più ampio rispetto a Gen 1,26-27; l’essere “immagine” riguarda infatti la partecipazione alla “natura” di Dio, cioè all’incorruttibilità che è a lui propria; il testo di Gen 1,26-27 è così riletto alla luce di Gen 3,22b (l’uomo, prima del peccato, poteva mangiare l’albero della vita). In altre parole, Sap 2,23 spiega il tema dell’immagine in Gen 1 alla luce di Gen 2–3; il progetto di Dio sull’uomo rimane valido anche dopo il peccato che ha causato la morte. L’uomo è stato creato “nell’incorruttibilità”, che non appare come un dono preternaturale che verrebbe perduto con il peccato, ma con uno stato. L’uomo non “ha” l’immortalità, ma è immagine della natura di Dio, perciò esiste nell’immortalità. L’incorruttibilità è un dono creazionale ma, allo stesso tempo, una “ricompensa” per gli uomini puri; tra la creazione e la sorte finale degli uomini, infatti, c’è l’“invidia del diavolo”, cioè il peccato, che ha sì cambiato il rapporto dell’uomo con la morte, ma non ha annullato il progetto di Dio. Notiamo come il termine “aphtarsia/incorruttibilità”, ritorni in Sap 6,18.19; l’aggettivo aphtarton, invece, in Sap 12,1 e 18,4. Nella concezione epicurea l’aphtarsia è una potenza positiva, propria degli dèi, capace di tenere insieme gli atomi e preservarli così dalla corruzione; il termine è inoltre usato da Plutarco per definire l’essenza della divinità: Dio è “incorruttibile”, nel senso che è permanente, durevole, eterno. L’uso di questo vocabolo è uno degli elementi che suggeriscono che il nostro saggio, pensando alla sorte dei giusti, ha in mente la risurrezione dei corpi, che pure mai afferma esplicitamente» (L. Mazzinghi, Il Pentateuco sapienziale. Proverbi Giobbe Qohelet Siracide Sapienza. Caratteristiche letterarie e temi teologici, EDB, Bologna 2012, p. 230).

La vita e l’invidia del diavolo

La morte non faceva parte del progetto divino. È il diavolo a farla entrare in scena. L’autore si riferisce al racconto di Gen 3 e identifica il serpente col diavolo. E spiega l’azione del serpente con l’invidia.

«La morte fa la sua entrata nel mondo come un intruso, non voluta nel piano creatore (cf. Sap 1,13). Di quale morte si tratta? Gen 2,17, ripreso in Gen 3,3 sotto un’altra forma, precisa all’uomo che egli avrebbe conosciuto la morte se avesse mangiato del frutto proibito dell’albero della conoscenza. L’uomo ha disobbedito e la morte fisica fu ormai la sua punizione (Gen 3,19). Sap 2,24 parla come minimo della morte fisica, ma dal momento che questa è la conseguenza del peccato, morte spirituale, la morte spirituale che priva dell’amicizia di Dio e della sua compagnia, deve esser ugualmente compresa in Sap 2,24, e questo tanto più che i giusti, destinati a una vita in compagnia di Dio, conoscono anch’essi la sola morte fisica. Questo è l’insegnamento che Sapienza trae, al suo inizio, circa Gen 1–3: Dio ha creato per comunicare la vita» (M. Gilbert).

La vita persa inutilmente

Nel commentare Mc 3,20-35 (La “casa” di Gesù: X Domenica per annum B) si è fatto riferimento alla presenza ricorrente del “racconto intercalare” o “racconto a sandwich” nel Vangelo di Marco. Un racconto “esterno” è intercalato con un racconto “interno” ed entrambi ricevono luce reciproca dalla loro interpretazione unitaria, grazie al rimando incrociato di elementi in comune.

Mc 5,21-24.35-43 è il racconto “esterno” riguardante la rivivificazione della figlia di Giàiro operata da Gesù; Mc 5,25-34 è il racconto “interno” circa la guarigione miracolosa di una donna emorroissa compiuta da Gesù in cammino verso la casa di Giàiro, “nel frattempo”.

Commenteremo per primo il racconto “interno”.

Una donna è “dentro una perdita/enrhysei”, un’emorragia vaginale cronica che la affligge da dodici anni. Non soffre una malattia, è “dentro totalmente/en” la sua malattia, che la avvolge nel suo abbraccio mortale da un numero di anni che fa l’occhiolino al numero delle tribù di Israele e all’età della figlia di Giàiro (v. 41).

La donna perde continuamente il sangue/la vita, malattia che la pone in uno stato di impurità rituale permanente, con annesso ostracismo sociale e religioso. Una vita grama e senza senso.

L’evangelista nota con ironia drammatica il suo ricorso ai medici umani, che non hanno ottenuto alcun risultato, se non quello di prosciugare a fondo perduto (dapanēsasa) le risorse economiche della donna e aggravare la sua situazione. Il verbo è impiegato normalmente per indicare le offerte che si facevano liberamente al tempio. La donna le “spreca” in cure umane senza alcun miglioramento.

Vincendo ogni condanna di emarginazione sociale e religiosa che si sentiva incollata addosso dagli sguardi dei presenti, con il coraggio di chi non ha più niente da “perdere”, la donna si avvicina e tocca le vesti esterne di Gesù (“i suoi mantelli”, v. 28, simbolo antropologico che sta per la sua persona); “pensava/diceva(tra sé)/elegen” che, se solo le avesse toccate, “sarebbe stata salvata/guarita/sōthēsomai<sōizō” (da Dio, passivum divinum).

Al suo tocco, “immediatamente fu seccata la fonte/euthys exeranthē hē pēgē” del suo sangue e conobbe nel (suo) corpo (dativo di luogo) che “era guarita dal suo tormento/tortura/iatai apo tēs mastigos autou”. La donna avverte che la fonte maligna della vita persa in continuazione, inutilmente, “è stata seccata” da un intervento prodigioso che rimanda all’opera di Dio.

Figlia, la tua fede ti ha salvata

Gesù si accorge della “forza/dynamis” che è uscita da lui, indipendentemente dalla sua volontà. Marco ritrae Gesù come un corpo risanante in sé, spontaneamente. Chi tocca con fede (sarò salvata) la sede della vita, sarà salvato. Chi tocca la Vita vive, vive in pienezza di senso e di qualità. Proprio quello che mancava alla donna emorroissa.

Gesù però non vuole essere uno stregone, uno sciamano a cui si possa attingere in modo impersonale, sottraendogli furtivamente le energie vitali risananti. Egli vuole essere il salvatore personale e consapevole delle persone che si rivolgono a lui con fiducia. Vuole avere un rapporto di interlocuzione vis a vis con i sani e i malati che lo cercano con fede. Vuole guardare negli occhi le persone, non guarire a forfait le malattie.

Gesù cerca gli occhi con gli occhi. Il suo sguardo circolare abbraccia la folla con affetto, ma il suo cuore cerca il rapporto personale. La “donna/gynē”, impaurita e tremante di fronte al Guaritore, pienamente consapevole dell’accaduto, si avvicina a Gesù, cade a terra di fronte a lui e gli dice tutta la verità. “Figlia/Thygatēr” – la interpella Gesù –, “la tua fede (il tuo “dire” a te stessa con fiducia totale in me, v. 28) ti ha salvata in modo permanente/hē pistis sou sesōken se” (tempo verbale perfetto).

Il desiderio intimo della donna, confessato solo a se stessa nel totale abbandono fiducioso a Gesù, le vale la guarigione completa, la reintegrazione piena e permanente nel vivo della società civile e della comunità religiosa di Israele.

Gesù la congeda con un comando di vita, di pace e di salute “olistica”, completa. La pace messianica scende sulla donna guarita, accompagnata dal comando di “continuare a essere sana dal proprio tormento/tortura/isthi hygiēs apo tēs mastigos sou”, cf. v. 29).

Nel Vangelo di Luca (cf. Lc 13,10-17) è narrato un miracolo simile, operato da Gesù su una donna “che era permanentemente curva/ēn sygkyptousa” (v. 11), sofferente di cifosi. Gesù interpella la donna dapprima con il termine “donna/gynai” (Lc 13,12) e poi, di fronte al capo della sinagoga, difende il proprio operato compiuto “illegittimamente” – secondo la tradizione – in giorno di sabato chiamando la donna “figlia di Abramo/thygartera ’Abraam”, tenuta “legata/edēsen” da Satana per ben diciotto anni (Lc 13,16). La donna è simbolo del popolo di Israele, a cui appartiene per discendenza da Abramo.

Così è anche il caso della donna emorroissa di Mc 5,25-34. Essa è interpellata da Gesù come “figlia/Tygatēr” (v. 34), discendente di Abramo, impersonificazione vivente del popolo Israele “adulto”. Una donna presumibilmente anziana, che perde inutilmente la vita prima di incontrare e “toccare/hapsōmai/hēpsato” (vv. 27[bis].30) Gesù, il Messia amante della vita e amico dei malati e dei peccatori.

Il glorioso e antico popolo di Israele non può perdere inutilmente il proprio sangue/la propria vita. Nella sua maturità, deve incontrare Gesù e “toccarlo” per avere la Vita piena, la salvezza.

La mia figlioletta

La fanciulla, gravemente malata e poi morta mentre Gesù si recava da lei, ha “dodici” anni (cf. 5,42). Questo particolare collega il racconto esterno a quello interno (i “dodici” anni della malattia dell’emorroissa, cf. v. 25). La ragazza è la figlia amata di Giàiro (“colui che illumina”), uno dei capi della sinagoga.

Parlando della struttura di una tipica sinagoga di Roma, l’esegeta Romano Penna afferma che gli archontes «formavano il comitato esecutivo della gerousìa; eletti per un anno, potevano essere rieletti […], forse anche per tutta la vita; certamente esisteva l’istituto dell’“arconte designato” o mellarchōn, poiché questo titolo è attribuito anche a dei bambini; questi magistrati avevano in pratica il controllo della comunità». La figlia di uno dei capi di un istituto fondamentale della vita religiosa e sociale di Israele non può che rappresentare il popolo di Israele “giovane”.

Giàiro è un capo della sinagoga, controlla la comunità, ma è in grado di “illuminare” la sua vita e quella della sua famiglia, donando vita alla sua discendenza, anch’essa figlia di Abramo.

La fanciulla è molto cara al padre, che la tratta con grande affetto, non esente da una punta di possessività. Sulla sue labbra lei è “la mia figlioletta/To thygatrion mou” (v. 23). Sulle labbra dei parenti è “tua figlia/Hē thygatēr sou” (v. 35). Nel resoconto dell’evangelista, ella è “la bambina/to paidion” (vv. 40[bis]). Per Gesù, lei è dapprima “la bambina/to paidion” (v. 39) ma alla fine è interpellata come “ragazza/korasion” (vv. 41.42).

Gesù valorizza la ragazza per quello che è, indipendentemenete dalla figura paterna (“miai/tua figlia”), una giovanissima donna giunta alla maturità sessuale, pronta per contrarre matrimonio e dare la vita a nuovi figli di Israele. Per Gesù, lei non appartiene a nessuno, ha una propria autonomia e dignità personale, e apparterrà totalmente solo a chi la prenderà in sposa.

Fanciulla, risorgi!

Gesù accoglie la supplica insistente di Giàiro e le sue manifestazioni di onore nei suoi confronti. Giàiro “cade piptei” ai piedi di Gesù (v. 22), proprio come farà poco dopo l’emorroissa (prosepesen<prospiptō) nel racconto “interno” (v. 33).

Gesù si reca nella casa di Giàiro e, lungo il cammino, “origlia/parakousas” (v. 36) la notizia ferale della morte della figlia che i parenti portano a Giàiro, invitandolo a non disturbare oltre il Maestro. Gesù incoraggia con forza il padre distrutto dal dolore, col cuore oscillante fra paura e volontà di avere fede: “Smetti di temere, solo continua ad avere fede/Mē phobou, monon pisteue”. Due imperativi che arrivano al cuore in burrasca di Giàiro.

Gesù arriva alla casa di Giàiro con tre testimoni scelti su ciò che avverrà. Dal cortile della casa scaccia imperiosamente il coro delle prefiche e della gente che manifestava ritualmente ad alte grida – cosa tipica nel Medio Oriente – il dolore per la morte prematura di una ragazza. Per Gesù ella non è morta, ma “dorme/katheudei”, in attesa della risurrezione.

Infischiandosene delle grida di scherno, Gesù si prende cura del dolore dei genitori, il papà della bambina e la mamma, e con loro e i tre discepoli entra nella stanza della bambina. Con la sua potenza di vita afferra la mano della “bambina/paidiou” e, nell’aramaico riportato fedelmente dall’evangelista, le impone di risorgere: “Talitha qum”, che Marco traduce in greco con “To korasion, soi legō, egeire, cioè «Fanciulla, dico a te, risorgi». Marco annota: «E immediatamente “la fanciulla risorse/to korasionanestē<anistēmi” e passeggiava/periepatei. Aveva infatti dodici anni». Gesù ordinò di non divulgare il fatto e di dare da mangiare alla ragazza.

Non può perdere la vita la sposa chiamata a dare vita.
Non può morire il popolo di Israele che si apre alle nozze col suo messia.
Datele da mangiare della carne del suo Sposo.
La fonte insanamente prodiga di sangue è seccata.
La fonte del sangue della vita è riaccesa.
«Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata…
Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive che sgorgano dal Libano…
Vieni dal Libano, o sposa, vieni dal Libano, vieni!…
Il tuo palato è come vino squisito,
che scorre morbidamente verso di me.
E fluisce sulla labbra e sui denti» (Ct 4,12a.15.8a; 7,10).

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