XIII Per annum: Sottratti alla morte dal Dio della vita

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Nonostante le sofferenze che comporta, l’uomo ama disperatamente la vita. A Ulisse che nell’Ade cerca di consolarlo, Achille risponde: “Non abbellirmi la morte, o Odisseo! Preferirei, come bracciante, servire sulla terra un altro uomo, piuttosto che regnare sui defunti”. Diversa la concezione degli egizi per i quali la morte era “vita perpetua” in un regno meraviglioso, situato a occidente, illuminato dal dio Sole, dall’alba al tramonto, quando da noi fa buio.

Presso tutti i popoli antichi si impose presto la convinzione dell’esistenza di una vita nell’oltretomba e, fra i greci, dell’immortalità dell’anima. Inspiegabilmente, questo non accadde presso gli ebrei che, da quando, in Egitto, nacquero come popolo, lasciarono trascorrere più di mille anni, prima di cominciare a credere in una vita al di là della morte.

Proclamarono, sì, il Signore “Dio della vita” (Nm 27,16), ma sempre in prospettiva terrena. “In te è la sorgente della vita”, cantava il salmista, ma per vita intendeva “salute e benedizione” (Sir 34,17), una terra feconda, raccolti abbondanti, posterità numerosa e, infine, morire “vecchio e sazio di giorni” (Gn 35,29), come i covoni maturi che vengono ritirati dal campo (Gb 5,26). Nella Bibbia ebraica non compare nemmeno il termine “immortalità”.

La lentezza di Israele nel giungere all’affermazione esplicita di una vita eterna è preziosa e illuminante: ci fa comprendere che, prima di credere nella risurrezione e in un mondo futuro, è necessario dare valore e amare, con passione, la vita in questo mondo, come l’apprezza e l’ama Dio.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Dal Signore ho imparato ad amare la vita, ogni espressione di vita”

Prima Lettura (Sap 1,13-15; 2,23-24)

13 Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
14 Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza;
le creature del mondo sono sane,
in esse non c’è veleno di morte,
né gli inferi regnano sulla terra,
15 perché la giustizia è immortale.
2,23 Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità;
lo fece a immagine della propria natura.
24 Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo;
e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.

Pochi secoli prima di Cristo, Giobbe affermava: “L’uomo che giace più non s’alzerà, finché durano i cieli non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno” (Gb 14,12) e, dopo di lui, il saggio Qoèlet era ancora convinto che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli” (Qo 3,19). Fin verso la metà del II secolo a.C., tutti in Israele ritenevano che i morti vivessero un sonno permanente nella “terra delle tenebre, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre” (Gb 10,21-22).

Al tempo di Gesù la mentalità era profondamente mutata. I sadducei sostenevano che la morte segnava la fine di tutto, ma la maggioranza del popolo condivideva la dottrina dei farisei che credevano nella risurrezione dei morti. Circolava il detto: “Il giorno in cui l’uomo muore è migliore del giorno in cui è nato”, infatti, non si festeggia il giorno in cui si inizia un lungo e pericoloso cammino, ci si rallegra piuttosto quando si conclude felicemente un viaggio.

Questa immagine dei rabbini è suggestiva, ma non risponde alla domanda più inquietante: “Perché si deve morire?”. Veniamo dal nulla, apriamo gli occhi alla luce e ci innamoriamo della vita, poi questa finisce in un soffio (Gb 7,7), “passa come le tracce di una nube” (Sap 2,4); una forza inesorabile e spietata, ci afferra e ci trascina di nuovo nel nulla, nella polvere da cui siamo stati tratti. Dio ci ha forse creati a sua immagine e ha instaurato con noi un dialogo di amore per esporci a questa beffa crudele?

L’autore del libro della Sapienza, vissuto ad Alessandria d’Egitto al tempo di Gesù, rifiuta questa prospettiva e, categorico, afferma: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte” (vv. 13-14). La vita dell’uomo non è paragonabile alle onde del mare che si innalzano e scompaiono senza lasciare traccia del loro passaggio. Dio non può scherzare con l’uomo come il vento gioca con le acque.

Se non da Dio, da dove viene allora la morte?

“È entrata nel mondo per invidia del diavolo” – risponde la nostra lettura (v. 24).

Un’affermazione sconcertante! Dunque, se non avessero peccato, gli uomini non sarebbero mai morti? La scienza smentisce categoricamente questa affermazione. La morte biologica è sempre esistita: l’organismo umano, come quello di ogni altro essere vivente, col passare degli anni, si indebolisce, si logora, e conclude il suo ciclo.

Non è questa la morte che incuteva paura al pio israelita del tempo di Gesù. Il giusto sapeva di essere destinato alla vita; la sua morte, nel libro della Sapienza, è definita “partenza”, “liberazione”, “trasferimento” nel riposo di Dio, “esodo” dalla schiavitù alla libertà, per questo non era temuta. Il passaggio ad una vita migliore non poteva essere ritenuto un castigo.

Quale morte è stata dunque introdotta dal peccato?

Il versetto che precede il nostro brano ci aiuta a capire: “Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani” (Sap 1,12).

Ecco chi provoca la morte: il peccato. Chi alimenta l’odio, si vendica, è violento, chi conduce una vita immorale, anche se gode di ottima salute, ha distrutto la parte migliore di sé.

La lettura di oggi conclude: “Fanno l’esperienza della morte coloro che stanno dalla parte del diavolo” (v. 25). Non è della morte biologica che si sta parlando, questa è un evento, non un male assoluto. L’uomo muore realmente solo quando cessa di amare, quando si ripiega su se stesso e diviene egoista, quando si allontana da Dio e dalla sua sapienza che indica il “cammino della vita” (Pr 13,14), che è “sorgente della vita” (Pr 3,18).

Chi introduce in questa condizione di morte è il diavolo, è la forza maligna, presente in ogni uomo e che allontana dal Signore.

L’autore del libro della Sapienza mostra di aver assimilato bene il messaggio biblico. Nei libri santi d’Israele si riafferma continuamente che chi sceglie il peccato decreta la propria morte: “Vedi – dice Mosè al popolo – io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, perché tu viva. Ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza” (Dt 30,15-20).

Seconda Lettura (2 Cor 8,7.9.13-15)

Fratelli, 7 come vi segnalate in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella scienza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così distinguetevi anche in quest’opera generosa. 9 Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
13 Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. 14 Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto:
15 “Colui che raccolse molto non abbondò,  e colui che raccolse poco non ebbe di meno”.

Durante il regno di Claudio (41-54 d.C.) si registrarono varie carestie nelle province dell’impero romano. Anche la Palestina, regione già molto povera, non ne fu risparmiata e le comunità cristiane si vennero a trovare più volte in situazioni di emergenza.

A Gerusalemme, al termine di un animato dibattito con gli apostoli, Paolo si era solennemente impegnato ad aiutare gli indigenti del suo popolo, richiamando il dovere della solidarietà ai cristiani delle chiese da lui fondate in territorio pagano (Gal 2,10).

Fu a Corinto che, per la prima volta e su suggerimento dei cristiani di quella città, pensò di intraprendere una colletta.

Come spesso accade con le belle iniziative, ai buoni propositi iniziali, segue presto un raffreddamento degli entusiasmi, subentra l’apatia e il disinteresse e la realizzazione del progetto prima subisce ritardi, poi si blocca del tutto. Fu ciò che accadde a Corinto.

Scrivendo ai cristiani di quella comunità, Paolo richiama, anzitutto, l’impegno che si erano assunti e, per stimolarli, cita la generosità manifestata dai tessalonicesi e dai filippesi: “Essi hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a favore dei santi. Superando anzi le nostre stesse speranze” (2 Cor 8,3-5).

Suscitare un po’ di gelosia e di santa emulazione, in certe circostanze, può rivelarsi un ottimo espediente.

L’Apostolo non ritiene conveniente imporsi con drastici comandi, anche perché i suoi detrattori hanno messo in giro voci malevole sul suo conto. Si dice che, attraverso la colletta, intenda raggiungere un recondito obiettivo: acquistarsi le benemerenze del suo popolo. Per questo, preferisce fondare la sua esortazione alla generosità su due motivazioni teologiche.

La prima è l’esempio di Cristo: “Egli, da ricco che era, si è fatto povero per voi” (v. 9).

La colletta non è un semplice atto di generosità, è il segno che la comunità ha assimilato i pensieri e i sentimenti di Cristo, è la prova dell’autenticità della fede, perché è una manifestazione dell’amore gratuito, che costituisce la perfezione della vita cristiana.

La seconda ragione è la necessità di creare condizioni di uguaglianza (vv. 13-14).

La condivisione dei beni non è un aspetto marginale e facoltativo della proposta evangelica, è un’esigenza imprescindibile della vocazione cristiana.

Non si tratta di ridursi in miseria per aiutare gli altri, ma di mostrare che la fede nel Risorto ha fatto comprendere il valore relativo dei beni di questo mondo.

Paolo conclude con un richiamo biblico (v. 15). Nel deserto gli israeliti avevano ricevuto da Dio l’ordine di raccogliere solo la quantità di manna che avrebbero consumato in un giorno; non ne doveva avanzare. Qualcuno tentò di accaparrarsene più del necessario, ma al mattino la trovò imputridita e piena di vermi. Era la lezione che Dio intendeva dare al suo popolo: i beni necessari alla vita non possono essere accumulati, devono essere lasciati a disposizione di chi è nel bisogno, vanno condivisi.

Vangelo (Mc 5,21-43)

21 Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. 22 Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi 23 e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. 24 Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25 Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia 26 e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: 28 “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. 29 E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
30 Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. 31 I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. 32 Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33 E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34 Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
35 Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. 36 Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad aver fede!”. 37 E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38 Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. 39 Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. 40 Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. 41 Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. 42 Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43 Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.

Il brano propone due miracoli, inseriti l’uno nell’altro. Nei primi versetti entra in scena Giairo, uno dei capi della sinagoga, che si reca da Gesù per chiedergli di andare ad imporre le mani alla figlia che sta per morire (vv. 21-24). Poi è narrata la guarigione di una donna che, da dodici anni, ha perdite di sangue (vv. 25-34), infine riprende il racconto della malattia, della morte e della rianimazione della figlia di Giairo (vv. 35-43).

Cominciamo dalla guarigione della donna affetta da un’incurabile emorragia (vv. 25-34). La malattia è descritta in tutta la sua gravità: dura da dodici anni, non migliora, anzi, continua a peggiorare, nessun medico è riuscito a curarla, ha costretto la malata a dilapidare tutti i suoi risparmi, è fastidiosa e umiliante, colpisce la donna nella sua intimità, in quella parte del suo corpo che dovrebbe essere sorgente di vita ed è, soprattutto, causa di impurità religiosa. Il sangue è il simbolo di vita, ma quando esce dal corpo richiama la morte, provoca disgusto e spavento. La legge stabilisce che colei che ha perdite di sangue non venga ammessa alle feste e agli incontri della comunità e che sia evitata da tutti, come fosse una lebbrosa. Chi avesse contatti, anche casuali, con lei è obbligato a sottoporsi a complicate cerimonie prima di riprendere la vita normale (Lv 15,25-27).

Come tutte le persone malate, emarginate, disprezzate (Mc 6,56), questa donna immonda sente dentro di sé un impulso irresistibile ad avvicinarsi a Gesù, a “toccarlo”. “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello – pensa – sarò guarita”.

Due ostacoli impediscono questo incontro: il timore di violare le rigorose disposizioni della legge e la barriera costituita dalla folla immensa che si accalca attorno al Maestro. Da qui la decisione di agire di nascosto. Si avvicina alle spalle di Gesù, gli tocca il mantello e, come investita da un’improvvisa forza di vita, si sente guarita.

Fin qui il fatto. Ora esaminiamo i dettagli che ci permettono di cogliere “il segno” al di là del prodigio.

Siamo di fronte a una donna, senza nome, impura da dodici anni.

All’evangelista preme sottolineare il numero dodici, difatti lo riprende più avanti, quando parla dell’età della figlia di Giairo: “Aveva dodici anni” (v. 42). Dodici è il simbolo del popolo d’Israele che – come più volte ho rilevato – è un nome femminile.

L’impurità della donna e l’assenza di vita della bambina indicano, nel linguaggio simbolico dell’evangelista, la condizione drammatica della donna Israele le cui guide spirituali non solo sono incapaci di guarirne le infermità, ma provano ripugnanza, rifuggono dalle sue miserie e non favoriscono, anzi ostacolano, l’incontro con colui che può comunicare la salvezza.

La malattia è indubbiamente una forma di morte. Il salmista la considerava un passo verso il regno dell’oltretomba (Sl 30,3-4). Il contatto con una persona malata e impura comportava una diminuzione di vita. Tutti ne avevano paura.

Gesù assume un atteggiamento singolare: non evita in alcun modo chi è ritenuto immondo, si lascia avvicinare, toccare e non corre a fare le purificazioni rituali prescritte dal libro del Levitico. È cosciente di essere in possesso di una forza di vita che non può essere intaccata da nessuna forma di morte e vuole che questo sia noto a tutti, per questo chiama la donna e la colloca nel mezzo, non per umiliarla, ma perché tutti vedano, riflessa in quella di lei, la propria condizione.

La donna avanza “impaurita e tremante”, come se l’essere malata, il sentirsi impura, l’aver sentito il bisogno di ricorrere a Gesù fosse una colpa.

 Non c’è alcuna malattia, né fisica né morale, che giustifichi il rifiuto o che costituisca un impedimento per accostarsi a Dio. Di fronte al Signore tutti gli uomini sono impuri, ma sono resi puri dall’incontro con il suo inviato, con Cristo. Solo gli ipocriti possono ritenersi santi e innalzare barriere per non venire accomunati con i peccatori. Costoro non hanno bisogno di “toccare” Gesù, si illudono di essere già in perfetta salute.

L’atteggiamento di Cristo nei confronti della donna è un invito a non provare mai disagio, a non fuggire di fronte a chi è ritenuto impuro. Il cristiano non ha paura di perdere la sua dignità o la buona reputazione avvicinandosi o lasciandosi toccare da coloro che tutti cercano di evitare. L’unica cosa che gli deve interessare è trovare il modo di ridare vita a un fratello. Se per questo deve sfidare anche i pettegolezzi e le malignità della “gente per bene”, non se ne deve preoccupare più di tanto.

Da Gesù emana una forza di vita, ma non tutti coloro che lo toccano materialmente la ricevono. Nel brano di oggi si nota che attorno a lui c’è una grande folla (v. 31). Non si tratta di nemici, ma di discepoli, di persone che gli stanno molto vicine, che magari lo spingono e forse lo intralciano. Eppure egli afferma che una sola persona lo ha “toccato”. Solo la donna ammalata lo ha toccato “con fede”. “Figlia, la tua fede ti ha salvata”, le dice, tu sola, in mezzo a tanta gente, sei stata capace di accogliere il dono di Dio.

La folla rappresenta i cristiani di oggi che sono vicini al Maestro, hanno la possibilità di ascoltare la sua parola e di “toccarlo” nei sacramenti, soprattutto nell’eucaristia. Se la loro vita non viene trasformata, se le loro “malattie” non sono curate e i vizi, i peccati rimangono sempre gli stessi, se il carattere intrattabile non viene modificato e le parole offensive non diminuiscono, significa che sono rimasti “folla” che si accalca attorno a Cristo senza mai “toccarlo” realmente; hanno con lui un contatto superficiale ed esteriore, la sua parola è un suono che entra nelle orecchie, ma non giunge al cuore.

Passiamo al secondo episodio, quello della figlia di Giairo (vv. 21-24.35-43).

L’elemento che unisce questo miracolo al precedente è la fede che salva.

Qui non siamo di fronte ad una grave malattia, ma a una situazione disperata, alla morte. La forza di vita che Gesù comunica ai malati può fare ancora qualcosa in un caso estremo come questo? Umanamente pare non ci sia più nulla da attendersi, eppure al capo della sinagoga Gesù raccomanda: “Non temere, continua solo ad avere fede!”.

Eccolo il messaggio inaudito: il suo potere di conferire vita non si arresta neppure di fronte al maggiore nemico dell’uomo, la morte.

Risvegliando la bambina dal sonno della morte, egli mostra che la fede in lui può ottenere anche questa vittoria. Non vince la morte perché aggiunge qualche anno alla vita dell’uomo in questo mondo. Se la fede in lui ottenesse solo questo risultato, non si potrebbe parlare di una vittoria definitiva, alla fine la morte avrebbe ancora il sopravvento. Egli l’ha sconfitta perché l’ha trasformata in una nascita, perché l’ha fatta diventare un passaggio alla vita senza fine.

Poi vuole dirci che, per chi ha fede in lui, non esistono situazioni irrecuperabili. Di fronte a chi presenta solo qualche piccolo difetto, a chi commette qualche errore veniale, cede a qualche debolezza, non si ha difficoltà ad ammettere che la fede in Cristo può ottenere ottimi risultati; ma quando ci si imbatte in persone che hanno rovinato completamente la loro esistenza, che sono depravate e praticamente “morte”, quasi tutti si scoraggiano e danno retta a coloro che, come gli amici di Giairo, vanno ripetendo: “Lascia perdere, non vale la pena insistere, perché disturbare ancora il Maestro?”.

 A queste persone tentate di perdere la speranza che qualcosa possa ancora cambiare, Gesù ripete: “Non temere, continua solo ad avere fede”. Chi crede in lui vedrà, anche oggi, “risorgere” a nuova vita coloro che tutti considerano definitivamente “morti”.

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