XIV Per annum: Altri 72 annunciatori

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L’invito che il profeta Isaia rivolge alla gioia: «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate» dà il tono a questa solenne liturgia domenicale, nella quale la Chiesa, madre e maestra, ci invita fare memoria viva di Gesù risorto.

Pur senza dimenticare che il Risorto porta sulla sua carne i segni della passione che ha sofferto per noi, non c’è alcun dubbio che la domenica per noi cristiani dev’essere improntata e vissuta come un giorno di gioia e di festa.

Vediamo ora quali sono i motivi di questa gioia e quali sono le modalità nelle quali può e deve essere manifestata.

1. Ci domandiamo: per quale motivo il profeta Isaia lancia questo invito così insistente a condividere la gioia degli abitanti di Gerusalemme? Perché questa città è stata scelta dal Dio d’Israele come luogo da lui privilegiato per stabilirvi la sua dimora sulla terra. Tutto quello che nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, si legge su Gerusalemme e sulla sua bellezza incomparabile dev’essere inteso come segno dell’affetto di Dio verso di essa, affetto che non verrà mai meno. Ma la bellezza e le ricchezze sono date a Gerusalemme perché siano condivise con tutti i popoli: «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate».

«Sfavillate con essa di gioia voi tutti che per essa eravate in lutto»: la storia di questa città è sempre stata martoriata e ancora oggi è drammatica: è questo il motivo per il quale il profeta parla di lutto. Immagine molto forte, perché ad essa è sottesa l’idea che, senza Gerusalemme, capitale della pace, tutti i popoli si sentono, o dovrebbero sentirsi, orfani.

Il Signore è disposto a far scendere sulla città prediletta tutti i suoi doni, ma soprattutto il dono della pace: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti». Noi sappiamo che Dio è fedele a ciò che promette: lo crediamo fermamente, anche se oggi dobbiamo assistere al fatto che proprio Gerusalemme è al centro di conflitti che sembrano insuperabili. La nostra fede si tramuta in speranza, attendendo con pazienza che Dio, secondo i suoi disegni, porti a compimento ciò che ha promesso: «La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

Per dare maggiore plasticità alla sua promessa, il Signore ricorre ad alcune immagini molto familiari: essere portati in braccio e succhiare al petto di Gerusalemme come al seno di una madre provvida e generosa. Non solo, ma il profeta ricorre anche all’immagine delle carezze (cosa familiare e molto cara a papa Francesco), adottando così un linguaggio che è nostro e ci lascia intuire le infinite proporzioni dell’amore divino.

2. Questo salmo è chiaramente un inno a Dio, al quale sono invitati non solo i cittadini di Gerusalemme, ma tutti gli abitanti della terra. Dobbiamo pregarlo perciò in prospettiva universalistica.

«Acclamate Dio, voi tutti della terra»: tra gli invitati alla gioia ci siamo anche noi, che stiamo celebrando i sacri misteri. E con noi acclamano Dio tutti gli abitanti della terra: è un coro immenso che sale dalla terra al cielo.

«Venite e vedete le opere di Dio»: l’orante si augura quasi che un corteo immenso si snodi salendo verso Gerusalemme. Per questo prega: «Venite e vedete!» Il pregare autentico non ci chiude in noi stessi, ma ci apre a tutti e a tutto.

«Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio»: dopo l’invito a vedere, viene anche l’invito all’ascolto. L’esperienza religiosa passa fondamentalmente attraverso questi due sensi: la vista e l’ascolto. La nostra fede ha bisogno di incarnarsi nella nostra vita, nella nostra persona, persino nei nostri sensi.

«Sia benedetto Dio, che non ha respinto la mia preghiera»: l’orante riconosce che la sua preghiera è arrivata su su fino al trono di Dio e lo benedice, lo ringrazia di tutto cuore. Dire “grazie” a Dio corrisponde non solo ad un preciso dovere, ma anche, e ancor prima, ad un’espressione del nostro amore filiale verso di lui.

3. Con questa pagina dell’apostolo Paolo la Chiesa ci invita a riflettere sulle ultime battute della lettera ai Galati. Si tratta di un vero e proprio “congedo” nel quale si direbbe che l’apostolo sintetizza tutto l’insegnamento precedente.

Tale sintesi Paolo non l’affida più solo alle parole, ma la presenta nella sua stessa persona: «Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo». Nel risorto Signore, a Damasco, Paolo ha certamente riconosciuto il Crocifisso e lo ha accolto come tale. Tutta la sua vita, tutto il suo apostolato fino al coronamento del martirio è stata una severa e fedele imitazione del Crocifisso.

Quale sia la conseguenza di tutto questo Paolo lo afferma chiaramente: «per mezzo della quale (la croce) il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo». Lo stesso verbo viene utilizzato in due sensi diversi e complementari: Paolo intende dire che tutto “il mondo” (pratiche, tradizioni e mentalità) nel quale credeva, dopo l’incontro con Cristo, ha perduto ogni valore. Egli ormai è «nuova creatura», perché Cristo lo ha fatto nuovo mediante la fede.

Questa per Paolo non è una semplice costatazione, ma costituisce una norma, una regola di vita per sé e per gli altri: «E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio». Misericordia per ottenere il perdono dei peccati e pace come sintesi di tutti i beni desiderabili.

Come ultima battuta, intrisa di pathos e di condivisione, Paolo si presenta non per quello che è, ma per quello che ha ricevuto dal suo Signore: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo». Non è certamente un atto di superbia o un vanto personale, ma il riconoscimento che tutto quello che vale in lui è puro dono di Dio.

4. Anche questa memoria evangelica appartiene a quanto Luca ha potuto raccogliere mediante le sue ricerche accurate e appassionate. Dobbiamo rilevare subito che, dopo aver inviato in missione i Dodici apostoli (cf. Luca 9,1ss), Gesù ha pensato di dover mandare in missione anche settantadue discepoli. Ci deve pur essere un motivo e non è impossibile coglierlo: Gesù vuole affidare la predicazione del Vangelo non ad un sola categoria di persone, ma desidera che tutti quelli che si mettono alla sua sequela si facciano carico dell’unica missione che egli è venuto ad inaugurare.

Sembra doveroso chiedersi perché Luca, e solo Luca, ci abbia conservato questa memoria così preziosa. L’evangelista è stato compagno e collaboratore di Paolo in alcuni suoi viaggi missionari. Da questa esperienza diretta è nata in lui l’idea di sottolineare questa scelta di Gesù.

A quelli che invia Gesù non promette rose e fiori, ma presenta loro un vasto campo da coltivare («la messe è abbondante»), il dovere di non dimenticare la preghiera al Padre celeste, l’andare come agnelli tra i lupi e l’imprescindibile dovere della povertà evangelica.

L’ultima parte di questa pagina presenta il primo frutto della missione: «I settantadue tornarono pieni di gioia». Ma Gesù li ammonisce con queste parole: «Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Viene da ricordare il grande dono che Dio ha fatto alla Chiesa cattolica e, per mezzo di essa, a tutto il mondo. Alludo alla celebrazione del concilio Vaticano II che, oltre ad averci ricordato la vocazione universale alla santità, ha affermato chiaramente che la missione e il servizio al Vangelo non sono consegnati come privilegio esclusivo ad alcuni membri della Chiesa, ma come diritto e dovere di tutti, di ogni battezzato che voglia vivere in pienezza il dono del battesimo (cf. Lumen gentium 10 e Apostolicam actuositatem 3).

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