XIV Per annum: “Piccolo”, l’unico titolo

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Nelle assemblee liturgiche, nei pasti comuni, nei viaggi in carovana, durante le riunioni pubbliche, in ogni occasione, presso la società giudaica si poneva il problema di chi fosse il più grande, a chi spettasse l’onore maggiore.

In questa corsa ai primi posti erano stati coinvolti anche i beati del cielo – che venivano catalogati in sette classi, con a capo i martiri – e lo stesso Dio d’Israele, che non poteva essere da meno delle divinità orientali, greche ed egiziane alle quali era invariabilmente attribuito il titolo di “grande”. Per questo Salomone proclamava: “Grande è il nostro Dio, più di tutti gli dèi” (Es 18,11) e Mosè assicurava gli israeliti: “Il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi e Signore dei signori, è Dio grande, forte e terribile” (Dt 10,17).

Negli ultimi secoli prima di Cristo, le affermazioni sulla grandezza di Dio si erano moltiplicate a dismisura. Egli era “l’altissimo, il grandissimo” (Est 8,12q); “il Signore grande e glorioso, mirabile nella sua potenza e invincibile” (Gdt 16,13) e ci si attendeva, di conseguenza, anche una manifestazione della sua grandezza: “Attendiamo la manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore” – leggiamo nella notte di Natale (Tt 2,13).

Egli è apparso, in tutta la sua grandezza: un bambino debole, povero, indifeso, “avvolto in fasce” da una dolce e premurosa mamma quattordicenne. È stato solo l’inizio della sua manifestazione che ha avuto il culmine sulla croce.

Da quel giorno tutti i criteri di grandezza sono stati capovolti.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Solo i piccoli sono in grado di cogliere i misteri del regno di Dio”.

Prima Lettura (Zc 9,9-10)

9 Esulta grandemente figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
10 Farà sparire i carri da Efraim
e i cavalli da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annunzierà la pace alle genti,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal fiume ai confini della terra.

Questa profezia è stata pronunciata quando Israele non era nemmeno più una nazione indipendente. Non era in guerra con nessuno, ma era un popolo insignificante sullo scacchiere internazionale; era colonizzato, sfruttato e oppresso da potenze straniere. Il periodo storico è quello immediatamente successivo alle conquiste di Alessandro Magno.

In questo tempo difficile, la figlia di Sion, la figlia di Gerusalemme è invitata a rallegrarsi grandemente e a giubilare (v. 9). Sion era il nome della collina sulla quale era sorta la città di Davide; in seguito era divenuto sinonimo di Gerusalemme. Con l’espressione figlia di Sion o figlia di Gerusalemme si indicava il quartiere più povero della città, il suburbio che era sorto a nord (come una propaggine, una figlia della capitale) quando erano giunti i fuggiaschi provenienti da Samaria, distrutta dagli assiri nel 721 a.C..

 È a questi sfollati, a queste persone indigenti e disagiate che il profeta si rivolge per annunciare loro gioia e speranza: un re giusto e vittorioso sta per venire e inaugurerà un’era di pace e di prosperità.

La dinastia di Davide era scomparsa da secoli. Il re che “libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto, che avrà pietà del debole e del povero, salverà la vita dei suoi miseri e li riscatterà dalla violenza e dal sopruso” (Sal 72,12-14), non poteva essere un uomo, ma doveva essere Dio stesso.

Fin qui nessuna novità rispetto a quanto promesso da altri profeti. “Il Signore ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te”, aveva già predetto Sofonia (Sof 3,15). La sorpresa viene ora: il salvatore non giungerà a capo di un forte esercito, montando focosi destrieri, guidando carri da guerra, calpestando i nemici fatti prigionieri, ma entrerà in Gerusalemme “umile, cavalcando un asino, sopra un puledro figlio d’asina” (v. 9).

Dotare l’esercito di un’impetuosa cavalleria era sempre stato il sogno dei re d’Israele che, per procurarsela, erano giunti a vendere i figli del loro popolo come schiavi e mercenari degli egiziani (Dt 17,16). Dio invece vuole porre fine a queste manie di potere e di grandezza: “Distruggerò i tuoi cavalli in mezzo a te e manderò in rovina i tuoi carri” – aveva predetto per bocca di Michea (Mic 5,9).

Nella seconda parte della lettura (v. 10) viene descritto il regno pacifico inaugurato dal Signore: l’arco di guerra sarà spezzato e la pace sarà annunciata a tutte le genti. Il regno si estenderà dal Mediterraneo al golfo Persico e dal fiume Eufrate fino alle estremità della terra. Secondo la geografia del tempo questi erano i confini del mondo.

Con questa profezia Zaccaria rovescia il concetto di regalità: il sovrano non è colui che è servito, ma colui che mette gli altri al centro delle sue attenzioni. Non sono i deboli ad essergli sottomessi, è lui che si mette al loro servizio. La sua forza è quella che gli uomini considerano debolezza.

Gesù realizzerà alla lettera questa profezia quando entrerà in Gerusalemme cavalcando un asino. Con quel gesto mostrerà di essere lui il re pacifico annunciato da Zaccaria.

Seconda Lettura (Rm 8,9.11-13)

9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.

Gli uomini muoiono e anche Gesù, essendo un uomo, è morto, doveva morire. Egli però è risuscitato. Quale forza lo ha fatto risorgere?

Nella lettura di oggi Paolo dice che questo è accaduto perché egli aveva in sé in pienezza lo Spirito, la potenza di Dio (v. 11).

La vita dell’uomo ha un inizio ed ha una fine, ma la vita di Dio non ha avuto inizio e non avrà fine. Gesù è morto alla vita materiale, ma lo Spirito che era in lui lo ha risuscitato, lo ha fatto continuare a vivere della vita di Dio.

Da questa verità Paolo deduce che, avendo noi ricevuto in dono questo stesso Spirito, non possiamo più morire. Quando giungerà il momento in cui la nostra vita biologica si concluderà, lo Spirito che ha risuscitato Gesù risusciterà anche i nostri corpi mortali (v. 11).

Nella seconda parte della lettura (vv. 12-13), l’Apostolo indica quali sono le conseguenze morali che derivano dalla nuova condizione in cui è entrato chi ha ricevuto il battesimo: deve compiere opere che siano in sintonia con la vita di Dio, con gli impulsi dello Spirito; se continua a “vivere secondo la carne” fa scelte di morte.

Vangelo (Mt 11,25-30)

25 In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.

All’inizio della sua vita pubblica, lungo il lago di Galilea, Gesù ha suscitato parecchi entusiasmi e ha avuto un notevole successo; presto però sono cominciati i conflitti, le incomprensioni e le ostilità. Molti discepoli, sconcertati dalle sue proposte, si sono scoraggiati e lo hanno abbandonato (Gv 6,66). Persino i suoi familiari si sono sempre mostrati piuttosto diffidenti (Gv 7,5). Con lui è rimasto soltanto un gruppo sparuto di discepoli appartenenti alle classi più povere e disprezzate della società giudaica (Gv 6,67-69).

Il nostro brano costituisce l’epilogo di un capitolo carico di tensioni e polemiche. Si è aperto con la crisi di fede del Battista che ha inviato alcuni discepoli a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3); è continuato con il pesante giudizio di Gesù sulla sua generazione (Mt 11,16-19) e con le minacce: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida” (Mt 11,21-24).

A metà della vita pubblica il bilancio non poteva che essere considerato deludente. Di fronte a un simile fallimento noi avremmo lasciato cadere le braccia, Gesù invece si rallegra e benedice il Padre per quanto è accaduto.

L’esclamazione solenne con cui inizia il vangelo di oggi è una delle poche preghiere di Gesù riportate dai vangeli: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (v. 25).

I sapienti e gli intelligenti sono spesso citati insieme nella Bibbia e, molte volte, in senso peggiorativo. Sono coloro che si professano ricercatori devoti della sapienza, che pensano addirittura di averne il monopolio, mentre in realtà si arrovellano in stoltezze e si dilettano con vane disquisizioni. Contro di loro il profeta Isaia aveva sentenziato: “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (Is 5,20-21). Gesù non li dichiara esclusi dalla salvezza, si limita a constatare un fatto: i poveri, gli umili, le persone emarginate hanno accolto per primi la sua parola di liberazione. È normale – dice – che questo accada perché sono i piccoli che, più d’ogni altro, sentono il bisogno delle tenerezze di Dio, hanno fame e sete della giustizia, piangono, vivono nel lutto e attendono che il Signore intervenga per sollevare il loro capo e colmarli di gioia. Sono beati perché per loro è giunto il regno di Dio. Poi aggiunge: questo fatto rientra nel progetto del Padre: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (v. 26).

 È profondamente radicata la convinzione che Dio sia amico solo dei buoni e dei giusti, che prediliga chi si comporta bene e sopporti a fatica chi pecca. Questo è il Dio creato dai “saggi” e dagli “intelligenti”, è il prodotto della logica e dei criteri umani. Il Padre di Gesù invece va a riprendersi coloro che noi gettiamo nella spazzatura, predilige chi è disprezzato, chi non è considerato da nessuno, i peccatori pubblici (Mt 11,19) e le prostitute (Mt 21,31) perché sono i più bisognosi del suo amore. I ricchi, i sazi, chi è orgoglioso del proprio sapere non sentono il bisogno di questo Padre, si tengono stretto il loro Dio. Giungeranno anch’essi alla salvezza, certo, ma solo quando si saranno fatti “piccoli”. Il guaio per loro è quello di arrivare in ritardo, di perdere tempo prezioso.

Nella seconda parte del brano (v. 27) viene introdotta un’importante affermazione di Gesù: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.

Il verbo conoscere nella Bibbia non significa aver incontrato o contattato alcune volte una persona, vuol dire “avere avuto di lei un’esperienza profonda”. Viene impiegato, per esempio, per indicare il rapporto intimo che intercorre fra marito e moglie (cf. Lc 1,34).

Una conoscenza piena del Padre è possibile solo al Figlio. Tuttavia, egli può comunicare questa sua esperienza a chi vuole. Chi avrà la disposizione giusta per accogliere la sua rivelazione? I piccoli, naturalmente.

Gli scribi, i rabbini, coloro che sono istruiti fin nei minimi dettagli della legge sono convinti di possedere la piena conoscenza di Dio, ritengono di saper discernere ciò che è bene, si presentano come guide dei ciechi, come luce di coloro che sono nelle tenebre, come educatori degli ignoranti, come maestri dei semplici (Rm 2,18-20); costoro, finché non rinunceranno al loro atteggiamento di “saggi” e “intelligenti”, si precluderanno la vera e gratificante esperienza dell’amore di Dio.

L’ultima parte del brano (vv. 28-30) si riferisce all’oppressione che i “piccoli”, il popolo semplice della terra, i poveri subiscono da parte dei “saggi e intelligenti”. Questi (gli scribi e i farisei) hanno strutturato una religione complicatissima, fatta di regole minuziose, di prescrizioni impossibili da osservare, hanno caricato sulle spalle della gente ignorante “pesi insopportabili che essi non toccano nemmeno con un dito” (Lc 11,46).

La legge di Dio è sì un giogo e il saggio Siracide raccomandava al figlio: “Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena; piega la tua spalla e portala… alla fine troverai in lei il riposo” (Sir 6,24-28), ma la religione predicata dai maestri d’Israele l’ha trasformata in un giogo opprimente. Per causa sua i poveri non si sentono solo disgraziati in questo mondo, ma anche rigettati da Dio ed esclusi dal mondo futuro. Sanno di non essere capaci di osservare le disposizioni dettate dai rabbini e per questo si sono convinti di essere impuri. “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”, dichiarava il sommo sacerdote Caifa (Gv 7,49).

A questi poveri, smarriti e disorientati, Gesù rivolge l’invito a liberarsi dalla paura e dalla religione angosciante che è stata inculcata in loro. Accogliete – raccomanda – la mia legge, quella nuova che si riassume in un unico comandamento: l’amore al fratello. Non propone una morale più facile e permissiva, ma un’etica che punta diritta all’essenziale e non fa sprecare energie nell’osservanza di prescrizioni “che hanno una parvenza di sapienza”, ma che in realtà non hanno alcun valore (Col 2,23).

Il suo giogo è dolce. Anzitutto perché è il suo: non nel senso che è stato lui ad imporlo, ma perché è lui ad averlo portato per primo. È alla volontà del Padre che Gesù si è sempre inchinato; l’ha liberamente abbracciata, mentre non si è mai lasciato imporre precetti umani (Mc 7). Il suo giogo è dolce perché solo chi accoglie la sapienza delle beatitudini può sperimentare la gioia e la pace.

Infine l’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore!” (v. 29). Forse questa affermazione ci lascia un po’ perplessi perché sembra un’autocelebrazione, meritata, certo, ma poco opportuna.

Queste parole sono tutt’altro che una vanteria!

“Imparate da me” significa semplicemente: non seguite i maestri che la fanno da padroni sulle vostre coscienze, che predicano un Dio che non sta dalla parte dei poveri, dei peccatori, degli ultimi e insegnano una religione che toglie la gioia con le sue pignolerie e assurdità.

Gesù si presenta come mite ed umile di cuore. Sono i termini che troviamo nelle beatitudini e che non indicano i timidi, i mansueti, i tranquilli, ma coloro che sono poveri e oppressi, coloro che, pur subendo ingiustizie, non ricorrono alla violenza.

A tutti questi poveri della terra Gesù dice: io sto dalla vostra parte, sono uno di voi, anch’io sono povero e rifiutato!

Il brano del vangelo di oggi è motivo di riflessione sia personale che comunitaria. Qual è il Dio in cui crediamo: è quello dei “sapienti” o quello rivelatoci da Gesù? Per chi è segno di speranza la nostra comunità: per chi è convinto di meritare i primi posti o per chi si sente indegno di varcare la soglia della chiesa?

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