XIX Per annum: Arricchire facendosi poveri

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Quante attese per una festa. Mesi di lavoro per preparare un fugace giorno di godimento, che il più delle volte delude le attese e lascia dietro a sé volti tristi e malinconici.

Accade anche nella vita: si fanno tanti sforzi per preparare un futuro che poi si rivela irraggiungibile miraggio. L’agricoltore insensato della parabola della scorsa domenica ne è un esempio; si è impegnato, ha avuto fortuna, ma alla fine si è visto sfuggire di mano il frutto del suo lavoro. Tante fatiche per niente!

I beni offrono una sensazione di sicurezza, promettono di soddisfare ogni bisogno e ogni desiderio, da ciò scatta il meccanismo psicologico che porta all’accumulo e all’idolatria. Le ricchezze danno l’idea d’essere solide, incrollabili, durature: sopravvivono a chi le possiede. In realtà lo ingannano, lo privano di tutto e lo lasciano a mani vuote.

Il saggio Qoèlet ammoniva: “Chi ama le ricchezze non le gode. Con l’aumento dei beni, aumentano quelli che li mangiano, e cosa resta al padrone se non esserseli visti passare sotto gli occhi?” (Qo 5,9-10).

Come evitare di ritrovarsi in questa situazione al termine della propria vita?

Gesù ripete più volte la sua proposta sconcertante: Vendi tutto, dà il ricavato ai poveri. Come interpretare queste sue parole? Si rende conto che sta chiedendoci di rinunciare a ciò che costituisce la gioia del nostro cuore? Viene a scardinare tutte le nostre sicurezze?

Sì, e lo fa per renderci beati.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Quante volte il Signore è già venuto e non mi sono fatto trovare! Ma verrà ancora”.

Prima Lettura (Sap 18,3.6-9)

La notte della liberazione,

3 desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco,
come guida in un viaggio sconosciuto
e come un sole innocuo per il glorioso emigrare.
6 Quella notte fu preannunziata ai nostri padri,
perché sapendo a quali promesse avevano creduto,
stessero di buon animo.
7 Il tuo popolo si attendeva
la salvezza dei giusti come lo sterminio dei nemici.
8 Difatti come punisti gli avversari,
così ci rendesti gloriosi, chiamandoci a te.
9 I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto
e si imposero, concordi, questa legge divina:
i santi avrebbero partecipato ugualmente
ai beni e ai pericoli,
intonando prima i canti di lode dei padri.

Agli avvenimenti e ai personaggi più significativi della storia vengono dedicati vie, monumenti, giornate commemorative. Si ricordano gli eroi, gli scopritori, gli scienziati, le date importanti. Come mai si guarda al passato? Perché si compiono questi “riti”, si pronunciano discorsi, si organizzano sfilate, si partecipa a cerimonie ufficiali? Lo si fa per non dimenticare ciò che è accaduto. Il passato viene ricordato per capire come agire nel presente. Anche il popolo d’Israele nei momenti difficili della sua storia, quando si è sentito sfruttato ed oppresso, ha recuperato la fiducia guardando al suo passato. Verificando che il suo Dio lo aveva sempre protetto e lo aveva liberato da ogni schiavitù, si sentiva confortato, affrontava con rinnovato vigore le avversità del presente e guardava con ottimismo al futuro.

Israele è un popolo che ama ricordare. Ricorda, soprattutto, i prodigi dell’Esodo. Nella lettura di oggi ne viene fatta una commovente presentazione. Si racconta che, mentre gli egiziani erano avvolti dalle tenebre, gli israeliti erano accompagnati da una colonna di fuoco; il Signore stesso li guidava per cammini sconosciuti (v.3). Nella notte in cui hanno lasciato la terra del faraone, i giusti sono stati salvati e i nemici sterminati (vv.6-7). Ecco la ragione per cui essi hanno deciso di riunirsi regolarmente, ogni anno, per celebrare, nella notte di Pasqua, questi avvenimenti gloriosi. Quando riflettono su ciò che Dio ha fatto per loro, sentono fiorire sulle loro labbra un canto di ringraziamento e di lode ed in loro affiora la stessa fiducia che ha riempito il cuore dei loro padri (v.9).

Il comportamento di Israele è un invito ai cristiani a fare altrettanto, a “ricordare”, a “fare memoria” dell’avvenimento in cui Dio ha manifestato tutto il suo amore e la sua fedeltà: la Pasqua. Nella morte e risurrezione di Cristo, il Padre ha rivelato tutto il suo amore. Accogliendo Gesù nella gloria ha assicurato che anche la storia di ogni uomo, pur segnata da tanti avvenimenti assurdi e drammatici, si concluderà in modo glorioso.

Guardando al passato, si può intuire quale futuro di gioia Dio riserva all’uomo.

Seconda Lettura (Eb 11,1-2.8-19)

1 La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. 2 Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza.
8 Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
9 Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10 Egli aspettava, infatti, la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
11 Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso. 12 Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia innumerevole che si trova lungo la spiaggia del mare.
13 Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. 14 Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. 15 Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; 16 ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città.
17 Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, 18 del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. 19 Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo.

Dopo quarant’anni dalla morte di Gesù, Gerusalemme con il suo meraviglioso tempio vengono distrutti. Molti Ebrei fuggono e si disperdono per il mondo. Lontani dalla loro terra, alcuni abbracciano la fede cristiana, ma sono scoraggiati. Perché – si chiedono – siamo stati colpiti da sciagure così spaventose? Perché siamo andati incontro a tante catastrofi, a tante ingiustizie? Perché i nostri stessi fratelli, i figli del nostro popolo ci condannano e ci perseguitano?

A questi cristiani in difficoltà è rivolta la lettera agli Ebrei che ci viene proposta oggi e nelle prossime tre domeniche.

Il capitolo 11 di questa lettera è dedicato alla fede. Inizia dicendo che “la fede è il fondamento delle cose che si sperano e la prova di quelle che non si vedono” (v.1). Continua ricordando l’esempio di molti personaggi della Bibbia famosi per la loro fede, in particolare Abramo e Sara (vv.8-19).

Quando fu chiamato da Dio, Abramo aveva 75 anni (Gen 12,4), un’età in cui gli uomini preferiscono ritirarsi a godere il meritato riposo. A quell’età invece Abramo parte per una terra sconosciuta senza nemmeno sapere quale. Si fida ciecamente del Signore (vv.8‑10).

Anche Sara crede e, contro tutte le logiche umane, per fede avrà un figlio. Questi due sposi hanno creduto che il Signore sarebbe stato fedele e avrebbe dato loro una posterità numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia del mare (vv.11-12).

L’autore della lettera continua: Abramo e Sara morirono senza aver visto il compimento della promessa che era stata loro fatta. Ebbero un figlio solo, non una moltitudine, e non abitarono nella terra promessa. Passarono tutta la vita peregrinando da un luogo all’altro, dimorarono sempre in paesi stranieri. Solo dopo 700 anni i loro figli si stabilirono nella terra donata loro da Dio. Ecco, Abramo e Sara videro solo un piccolo segno, un inizio della realizzazione delle promesse: un fragile figlio ed una terra contemplata solo da lontano, ma credettero lo stesso (vv. 13-19).

Il messaggio della lettera agli Ebrei è inviato oggi a tutti i cristiani che attendono con ansia la realizzazione delle promesse di bene fatte da Gesù e che sono scoraggiati perché non vedono affermarsi rapidamente il regno di Dio nel mondo. Verificano che il male continua: questa è forse la prova più dura per la loro fede.

Considerando quanto è accaduto ad Abramo e Sara essi sono invitati a ricuperare fiducia e a saper leggere, attraverso segni non sempre evidenti, che sta nascendo il mondo nuovo.

Vangelo (Lc 12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 32 “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.
33 Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. 34 Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
35 Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; 36 siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. 37 Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! 39 Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40 Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate”.
41 Allora Pietro disse: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”.
42 Il Signore rispose: “Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a tempo debito la razione di cibo? 43 Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. 44 In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
45 Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46 il padrone di quel servo arriverà nel giorno in cui meno se l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo punirà con rigore assegnandogli il posto fra gli infedeli. 47 Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48 quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”.

Il brano inizia con l’esortazione: “Non temere piccolo gregge perché al Padre vostro è piaciuto darvi il regno” (v.32). I discepoli hanno paura: sanno di essere pochi e deboli di fronte ad un mondo ostile. Si spaventano perché il male è forte, trionfa ovunque, sembra incontenibile e si sentono fragili ed incapaci di opporvi resistenza. Il regno di Dio – assicura Gesù – verrà perché non è opera dell’uomo, è dono del Padre.

Poi il tema entra nel vivo. Dal Vangelo della scorsa domenica si poteva dedurre che l’agricoltore stolto aveva commesso due errori: non si era arricchito davanti a Dio e si era fatto cogliere di sorpresa dalla morte.

Cosa avrebbe dovuto fare? Come ci si arricchisce davanti a Dio? Semplice – risponde oggi Gesù – vendete ciò che avete e datelo in elemosina… (vv.33-34).

Il ricco che ha accumulato molti beni li ha dovuti lasciare in questo mondo, non ha trovato il modo per portarli con sé. Assillato dalle preoccupazioni di questo mondo – i campi, i raccolti, i magazzini – non ha avuto tempo per ascoltare quella Parola che gli avrebbe rivelato il segreto per non perdere i suoi capitali, per “trasferirli in cielo”. Ecco cosa si sarebbe sentito suggerire da un saggio dell’AT: “Da’ i tuoi beni in elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, da’ molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l’elemosina libera dalla morte e salva dall’andare tra le tenebre. L’elemosina è un dono prezioso davanti all’Altissimo” (Tb 4,7-11; Cf. Sir 3,29-4,10; 29,8-13).

Le riflessioni di Gesù sono in sintonia con l’insegnamento tradizionale dei sapienti del suo popolo: chi accumula beni per sé – dice – li vede poi consumati dalla tignola o fuoriuscire da borse sdrucite e perdersi scioccamente per strada. “Come ombra è l’uomo che passa – ricorda il Salmista – è solo un soffio che agita, accumula ricchezze e non sa chi le raccolga” (Sal 39,7). Meglio, molto meglio darli in mano a un “banchiere” sicuro – Dio – il quale, nel momento del bisogno, li restituirà con “lauti interessi”.

Questa immagine è ben nota al tempo di Gesù. Il figlio della regina di Adiabene – convertitosi con la madre al giudaismo verso il 50 d.C. – rispondeva così a chi lo accusava di sperperare i suoi beni aiutando i bisognosi d’Israele: “I miei avi accumularono tesori per quaggiù, io invece accumulo tesori per lassù. Essi hanno accumulato tesori in questo mondo, io invece per il mondo avvenire”.

Alla seconda domanda – come non farsi cogliere di sorpresa? – Gesù risponde con tre parabole.

La prima (vv. 35-38): un signore è uscito per andare ad una festa di nozze ed ha lasciato a casa i suoi servi. Questi sanno che il padrone tornerà, ma non conoscono l’ora: potrebbe giungere nel bel mezzo della notte o poco prima dell’alba ed essi devono essere pronti ad accoglierlo. Quando e come viene il Signore e che significano queste immagini enigmatiche?

La risposta che ci viene spontanea è: bisogna essere preparati per accogliere il Signore al termine della vita. Non è esatta.

La vigilanza equivale alla costante disponibilità al servizio. Il cristiano non ha momenti liberi in cui può ripiegarsi su se stesso nella ricerca del proprio tornaconto, momenti in cui non è pronto a soccorrere chi ha bisogno del suo aiuto.

Due immagini descrivono in modo efficace il discepolo vigilante: egli ha la cintura ai fianchi e mantiene la lucerna accesa. Non spegne la luce, non mette sulla porta di casa il cartello “non disturbare, sto dormendo”. Chiunque ha bisogno di lui deve sapere che egli è a completa disposizione.

Ha le vesti sempre rimboccate. In Oriente gli uomini usavano lunghe vesti, in casa le lasciavano sciolte, ma quando si mettevano al lavoro o partivano per un viaggio si cingevano i fianchi e le sollevavano per essere più liberi nei movimenti. Il discepolo è dunque sempre in servizio.

La parabola si conclude con una delle immagini più belle di tutta la Bibbia: beati quei servi che, al ritorno, il padrone troverà vigilanti. Egli si cingerà le vesti, li farà sedere a mensa e passerà a servirli. Ce n’è una altrettanto commovente nel libro dell’Apocalisse: “Egli sarà il Dio-con-loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,3-4). È la promessa della beatitudine riservata a coloro che fanno parte del regno di Dio.

La seconda parabola (vv.39-40): il Signore è paragonato a un ladro che irrompe all’improvviso. Immagine singolare, mai usata prima nel giudaismo, ma che ha avuto fortuna presso i cristiani. È stata ripresa da Paolo: “Voi ben sapete – scrive ai tessalonicesi – che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore” (1 Ts 5,2). L’hanno usata anche Pietro: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno” (2 Pt 3,10) e l’autore dell’Apocalisse (Ap 3,3; 16,15).

Strana immagine! È ben antipatico un Dio che aspetta il momento meno opportuno – quello in cui l’uomo è impreparato – per coglierlo di sorpresa e condannarlo alla perdizione.

Il significato della parabola non è questo. Non sarebbe più una “lieta notizia”, un “Vangelo”, sarebbe solo una sterile minaccia.

È vero che il Signore viene incontro all’uomo al termine della vita. Quella è certo la più importante delle sue venute ed è necessario farsi trovare preparati, tuttavia, se osserviamo bene, non sempre la morte si comporta come un ladro. In genere si fa annunciare, è preceduta da segnali ben precisi: la vecchiaia, la malattia, i dolori, il deperimento.

Sono altre le venute improvvise del Signore, venute che colgono di sorpresa come quelle di un ladro. Sono quelle in cui egli si presenta non per rubare, ma per salvare, per invitare ad accogliere il regno di Dio.

L’immagine del ladro ha un innegabile tono intimidatorio. Lo scopo è quello di mettere in guardia dal pericolo di perdere delle opportunità di salvezza che mai più si ripresenteranno.

La terza parabola (vv. 41-48) viene introdotta come risposta a Pietro che chiede al Signore chi sono coloro che devono mantenersi vigilanti. Tutti – è la risposta – ma specialmente coloro ai quali nella comunità sono stati affidati compiti di responsabilità.

Costoro sono chiamati “amministratori”, non padroni. Hanno fra le mani dei beni che non appartengono a loro e dei quali dovranno rendere conto.

Il loro ministero può essere svolto in due modi. Possono comportarsi come il servo fedele e saggio che “distribuisce a tempo debito la razione di cibo” a tutta la servitù (v.42). Si impegnano cioè nel servizio generoso a favore dei fratelli della comunità.

Ma possono anche agire per vile interesse e farla da padroni sulle persone a loro affidate (1 Pt 5,2-3).

Luca descrive il comportamento dei servi infedeli con crudo realismo: parla di gente che poltrisce, che sperpera in bagordi e gozzoviglie, che usa toni arroganti e si comporta in modo dispotico. Ha chiaramente presente situazioni incresciose, casi concreti poco esemplari di alcuni responsabili delle sue comunità. Egli li vuole richiamare – con le parole severe del Maestro – ad un maggiore senso di responsabilità.

Il pericolo che costoro stanno correndo è di ritrovarsi, al termine della loro vita, esclusi, “tagliati fuori” dal gruppo dei discepoli e di venire collocati fra gli infedeli (v.46). Sono membri eminenti della Chiesa, eppure su di loro pende una drammatica e inattesa sentenza: Dio li considera dei falliti. Non vengono – s’intende – condannati all’inferno, ma sarà tragico per loro dover ammettere, quando ormai non potranno più porvi rimedio, che hanno impiegato i doni di Dio nel peggiore dei modi.

L’immagine delle bastonate con cui si chiude il brano, riflette un contesto sociale in cui si ricorreva spesso a punizioni severe e anche crudeli contro chi non faceva il proprio dovere. Il Signore non punisce nessuno. L’immagine vuole sottolineare quanto è deprecabile il comportamento di queste guide della comunità. Esse si trovano nella condizione privilegiata di chi ha conosciuto meglio degli altri la volontà del Signore e sono ugualmente infedeli. La loro responsabilità è maggiore.

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