XIX Per annum: La crisi di fede

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Tensioni, conflitti, incomprensioni hanno sempre accompagnato i rapporti chiesa-mondo, ma ancor più si sono evidenziati con l’avvento dell’empirismo e del razionalismo che hanno caratterizzato il pensiero dei secoli XVII e XVIII. La visione puramente naturalistica del mondo e la fiducia incondizionata nella ragione parvero minare le fondamenta stesse della fede e del soprannaturale. Le ricerche storiche e archeologiche del secolo XIX dimostrarono le evidenti incongruenze legate all’interpretazione tradizionale della Bibbia.

Dettata dai sospetti e dalle paure, la risposta dei credenti non fu subito serena e il movimento di purificazione delle idee, del linguaggio e delle pratiche religiose subì ritardi, battute d’arresto, ripensamenti e involuzioni. Oggi è già possibile evidenziare i grandi cambiamenti che, stimolati dalle provocazioni secolari, sono stati realizzati specialmente dopo il Concilio Vaticano II. Dallo studio e dalla meditazione della parola di Dio, finalmente in mano ai cristiani, sta emergendo e viene consegnata al mondo, pur in mezzo a contraddizioni, un’immagine di Dio non più imprigionata in categorie arcaiche, un nuovo volto di uomo, una chiesa più evangelica e la proposta di una società basata su valori autentici.

Era già accaduto qualcosa di simile ai tempi del profeta Elia, come ci racconterà la prima lettura. Un cambiamento di mentalità ancora maggiore fu richiesto da Gesù ai suoi discepoli, come risulterà dal brano evangelico. Il cammino della conversione non è ancora concluso. Non solo nei segni dei tempi, ma anche attraverso le critiche severe dei non credenti, lo Spirito invita i cristiani a proiettare gli sguardi, le menti e i cuori oltre gli orizzonti angusti in cui il timore di crescere rischia di mantenerli prigionieri.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Anche se devo attraversare una valle oscura, non temo, perché tu, Signore, sei con me”.

Prima Lettura (1 Re 19,9-13)

In quei giorni essendo giunto Elia al monte di Dio, l’Oreb, 9 entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: 11 “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12 Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. 13 Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.

Siamo nella prima metà del IX secolo a.C. quando Omri, un generale abile e risoluto, con una rivolta prende il potere. Il Libro dei re lo ricorda in modo sbrigativo – gli dedica sei versetti soltanto (1 Re 16,23-28) – ma i rivolgimenti politici, sociali e soprattutto religiosi avvenuti durante gli undici anni del suo regno hanno segnato profondamente la storia d’Israele. Costruì una nuova capitale sul monte di Samaria, introdusse nuove tecniche agricole, incentivò il commercio, favorì la cultura, rafforzò l’esercito. In breve tempo riuscì a fare di Israele una nazione ricca e potente.

Per consolidare le alleanze con i regni vicini ricorse soprattutto ai matrimoni. Di questi, uno ebbe conseguenze drammatiche: quello fra suo figlio Acab e l’intrigante, ambiziosa e tanto affascinante quanto perfida Gezabele, la figlia di Et-baal, il re di Tiro.

Fu l’inizio dell’apostasia dal Signore perché l’ammaliante principessa straniera pretese subito che in Israele venissero adorati Baal e Ashera, le divinità della sua terra. Per loro fece costruire uno splendido tempio in Samaria e impose il loro culto come religione ufficiale del regno.

In questo periodo di tensioni “sorse Elia profeta, simile al fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola” (Sir 48,1). Veniva dal Galaad, la terra al di là del Giordano, ai confini del deserto, “era un uomo peloso; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi” (2 Re 1,8) e conduceva una vita austera. Si rese subito conto della “colonizzazione” delle menti e delle coscienze portata avanti dalla regina e intervenne per denunciare il pericolo della corruzione religiosa e morale. Nonostante i suoi sforzi e il suo coraggio però non riuscì a convincere il popolo a rimanere fedele al Signore. Al colmo della disperazione, un giorno si sfogò con il suo Dio: “Gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” (1 Re 19,14).

È a questo punto che inizia la nostra lettura.

Per sfuggire a Gezabele che lo vuole uccidere, Elia fugge, prende la via del deserto e va verso il monte di Dio, l’Oreb, il Sinai dove, quattrocento anni prima, Mosè ha parlato con il Signore. Giuntovi, entra in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore lo invita a uscire e ad attendere una sua manifestazione.

Ecco scatenarsi un vento impetuoso e gagliardo tanto da spaccare le rocce, dopo il vento ci sono un terremoto e un fuoco (vv. 11-12). Erano questi – secondo il profeta – i segni inequivocabili del passaggio del Signore. In mezzo a questi fenomeni impressionanti, infatti, Dio si era sempre presentato in passato ai suoi servi fedeli. A Mosè si era manifestato nel fuoco, fra lampi, tuoni e mentre il monte tremava dalle fondamenta (Es 19,16-19) e anche Baal, il dio di Gezabele, appariva nella tempesta e nell’uragano, cavalcava le nubi, scagliava le folgori e volteggiava nel turbine.

Elia rimase sorpreso che il Signore non fosse nel vento impetuoso, nel terremoto e nel fuoco.

“Dopo il fuoco ci fu un mormorio di un vento leggero” (v. 12). Elia, come l’udì, si coprì il volto con il mantello: aveva compreso che era quello il momento in cui passava il Signore. Dio si era rivelato in un modo completamente nuovo.

La traduzione del v. 12 va corretta. Il testo originale ebraico non parla di “vento leggero”, ma di una voce di silenzio leggero udita dal profeta. Fu nel silenzio che Elia colse la rivelazione del Signore e diede un balzo in avanti nel suo cammino di fede. Il Dio in cui fino allora aveva fermamente creduto conservava i tratti arcaici delle divinità pagane: era forte, tremendo, sempre pronto a mostrare la sua forza contro i nemici, era colui che sul monte Carmelo si era confrontato con Baal e aveva vinto (1 Re 18,20-40). Ora Elia capiva: non era il Signore che lo aveva spinto a sgozzare nel torrente Kison i profeti di Baal, ma la falsa immagine che di lui si era fatta.

Nella “voce di silenzio leggero” era giunto a scoprire il vero volto del suo Dio, aveva capito che il suo “zelo per il Signore” altro non era che fanatismo; si era reso conto che la convinzione di “essere rimasto solo” ad adorare il Signore derivava dal dogmatismo e dall’intolleranza. Erano settemila gli uomini che in Israele non avevano piegato le ginocchia a Baal, ma Elia non se n’era accorto (1 Re 19,18). “Su! – gli dice il Signore – Ritorna sui tuoi passi” (1 Re 19,15), trasformato interiormente dalla “voce di silenzio leggero” che hai ascoltato.

L’esperienza spirituale di Elia può essere ripetuta da chiunque sappia fare il silenzio dentro di sé, da chiunque ponga a tacere le voci fuorvianti che gli hanno inculcato una falsa immagine di Dio e, nella riflessione pacata e calma della Bibbia e del vangelo, si lasci inondare dalla vera luce, quella che brilla sul volto di Cristo.

Seconda Lettura (Rm 9,1-5)

1 Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dá testimonianza nello Spirito Santo: 2 ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3 Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. 4 Essi sono israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, 5 i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

Il saggio Qoelet affermava: “Chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (Qo 1,18). Potremmo chiosare: anche chi accresce l’amore aumenta il dolore. Il pensiero di un figlio, di un fratello, di una sorella che fanno scelte insensate e che si rovinano la vita ci rattrista profondamente, ci accompagna in ogni momento come un’ossessione, vela di amarezza e malinconia anche i momenti di gioia. Non ci rassegnamo al fatto che queste persone care si lascino sfuggire la felicità che potrebbero facilmente cogliere. Amiamo la chiesa e la vorremmo come l’ha sognata il suo Sposo: pura come “il narciso di Saron, come un giglio delle valli” (Ct 2,1). Invece la vediamo, a volte, collusa o inconsapevole connivente con i poteri di questo mondo, esitante, poco evangelica.

Che deve fare chi soffre per amore? Nulla se non continuare ad amare e ad attendere, con la pazienza di Dio, che il seme del vangelo compia il prodigio della conversione dei cuori.

L’esempio di Paolo è illuminante. Egli ha sentito profondamente il dramma del rifiuto di Cristo da parte del suo popolo. Gli stava tanto a cuore la salvezza d’Israele che – dice ricorrendo a un paradosso – sarebbe stato disposto addirittura a essere scomunicato e separato da Cristo, se questo fosse servito a ricuperare il suo popolo (v. 3). Le sue parole accorate ricordano quelle di Mosè che intercedeva: “Ora tu perdona il loro peccato, se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto” (Es 32,32).

Paolo non riusciva a capacitarsi che il popolo eletto, i figli di Abramo, gli eredi delle promesse fatte ai patriarchi avessero rifiutato il messia di Dio (vv. l-2).

Quando scrive ai Romani sono passati quasi trent’anni dalla morte e risurrezione di Gesù. Durante questo tempo ha cercato in ogni modo di annunciare Cristo ai suoi fratelli israeliti senza ottenere alcun risultato, anzi, accentuandone l’opposizione.

Negli ultimi due versetti (vv. 5-6) sono elencati i privilegi che Israele ha ricevuto da Dio; l’ultimo, il più importante di tutti, è il fatto che Cristo è figlio di questo popolo.

Pur nella tristezza presente, c’è un pensiero che consola l’Apostolo: le promesse di Dio sono irrevocabili e se egli ha permesso l’indurimento di Israele, se ha “rinchiuso tutti nella disobbedienza, è per usare a tutti misericordia” (Rm 11,29.32).

 È il pensiero che deve consolare chiunque soffre per amore: la storia di ogni uomo si concluderà comunque con la salvezza.

Vangelo (Mt 14,22-33)

22 Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. 23 Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.
24 La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario. 25 Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. 26 I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: “ È un fantasma” e si misero a gridare dalla paura. 27 Ma subito Gesù parlò loro: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”.
28 Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. 29 Ed egli disse: “Vieni!”.
Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31 E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.
32 Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33 Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!”.

“Su, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” – disse l’angelo del Signore ad Elia in fuga verso il deserto. Il profeta si alzò, mangiò, bevve e “con la forza datagli da quel cibo, camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1 Re 19,7-8).

A questo famoso racconto del dono del pane e dell’acqua da parte dell’angelo ad Elia, fa seguito la rivelazione del Signore narrata nella prima lettura.

Nel brano evangelico la scena si ripete: i discepoli, alimentati con il pane offerto da Gesù (Mt 14,13-20), ora ricevono l’ordine di mettersi in movimento, di entrare nella barca e dirigersi verso l’altra riva. Come Elia, sono attesi da una rivelazione del Signore.

Ci sono diversi particolari strani in questo episodio. Non è facile trovare una ragione dell’ordine dato da Gesù: perché li fa partire da soli? Dove devono andare a quell’ora? Perché non va con loro? Come mai impiegano tante ore ad attraversare il lago? Non pare che sia a causa del maltempo perché egli sale tranquillo sul monte a pregare e vi rimane fin verso il mattino (v. 25). Sorprendenti sono soprattutto la pretesa di Pietro di voler camminare sulle acque e – trattandosi di un provetto nuotatore (Gv 21,7) – la sua paura di affondare.

Questi dettagli singolari insospettiscono l’esegeta. Sono un invito ad accostarsi al brano con circospezione perché non si tratta del racconto di un prodigio, ma di una pagina di teologia redatta con immagini bibliche.

Alcune di queste immagini sono ben note. L’oscurità della notte, anzitutto, è presente, con la sua carica di significati negativi, in numerosi testi dell’AT. Ricordiamo, ad esempio, il salmista che, nella notte del suo dolore, grida al Signore senza trovare riposo (Sal 22,3). È con questa tenebra che i discepoli si devono confrontare. Venuta la sera, Gesù “li costringe” (è questo il verbo impiegato nel testo originale) ad entrare nella barca e a dirigersi verso “l’altra riva”. Si ha l’impressione che essi siano restii, che vogliano rimanere accanto al Maestro, ma questi, dopo averli nutriti con il suo pane, vuole che partano, che intraprendano da soli il rischioso viaggio. Il cibo che ha dato loro rappresenta la sua parola e la sua stessa persona presente nel sacramento dell’eucaristia. Nutriti da questo duplice pane, essi hanno la forza necessaria per portare a termine la difficile traversata.

Se Gesù fosse visibilmente presente sulla barca, le tenebre si dissolverebbero; invece il buio è fitto.

Venuta la sera (v. 13) – diciamolo subito – indica, nel linguaggio simbolico dell’evangelista, la conclusione della giornata di Gesù, è la fine della sua vita, è il momento in cui egli “sale sul monte” da solo, si allontana dalle folle ed entra definitivamente nel mondo di Dio. Ecco perché i discepoli si ritrovano nell’oscurità. Il buio è l’immagine del disorientamento, del dubbio che coglie anche il credente più convinto. In certi momenti, persino chi è animato da una solida fede si sente solo, fa l’esperienza angosciante del silenzio di Dio e si chiede se le sue scelte, i suoi sacrifici, il suo impegno per il bene abbiano un senso.

Poi c’è il vento contrario. Gli israeliti hanno fatto l’esperienza del “vento impetuoso scatenato da oltre il deserto” che investe e abbatte le case (Gb 1,19), conoscono il “vento orientale che squarcia le navi” (Sal 48,8) e il “vento burrascoso” che solleva i flutti, squassa le imbarcazioni trascinandole negli abissi e che fa barcollare come ubriachi i marinai (Sal 107,26-27).

L’autore della Lettera agli efesini impiega questa immagine per descrivere i ragionamenti insensati degli uomini, la mentalità di questo mondo opposta a quella di Cristo. Ai cristiani delle sue comunità Paolo ricorda: “Noi non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini” (Ef 4,14).

Le acque erano nell’AT immagine delle forze che portano verso la morte. Il salmista, afflitto da una grave malattia che lo sta conducendo alla tomba, grida al Signore: “Stendi le mani dall’alto, scampami e salvami dalle acque profonde” (Sal 144,7); un altro, ottenuta la guarigione, racconta: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti impetuosi… ma Dio stese la mano, mi prese e mi trasse fuori dalle acque profonde” (Sal 18,5.17). Al suo popolo il Signore promette: “Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno” (Is 43,2).

Le acque hanno sempre messo paura agli israeliti. Solo il Signore – dicevano – non teme i turbini e le burrasche. Egli che, con la sua parola, ha separato “le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento” (Gn 1,7) è il solo capace di placare la violenza dei flutti (Sal 107,25-30), egli è l’unico che “cammina sulle onde del mare” (Gb 9,8).

Se si tiene presente questo simbolismo, si comprende lo spavento dei discepoli: temono di venire travolti dalle forze del male e della morte, sono al buio e non scorgono il Maestro accanto a loro. Una situazione drammatica, ma inevitabile e la devono affrontare.

La barca era agitata dalle onde. Il testo originale impiega qui il verbo greco basanízo che propriamente significa sottoporre alla prova. Il básanos era la pietra durissima usata in Lidia per verificare, mediante un violento sfregamento, se un metallo era pregiato o vile.

Le onde tormentano, quasi torturano i discepoli, ma sono la prova necessaria cui devono essere sottoposti se vogliono uscirne maturati.

Verso la fine della notte ecco apparire Gesù, camminando sulle onde del mare, come solo Dio era capace di fare (Gb 9,8). I discepoli non lo riconoscono, credono di avere a che fare con un fantasma. Davvero singolare questa loro reazione! Che è successo? Come mai non lo riconoscono?

Non siamo di fronte a un brano di cronaca, ma a una pagina di teologia. Matteo sta descrivendo, con il linguaggio biblico, la situazione delle comunità cristiane del suo tempo “tormentate” da tante prove, angosciate da dubbi e soprattutto disorientate per il fatto di non avere più visibilmente con loro il Maestro che avrebbe infuso in loro sicurezza e coraggio.

L’evangelista le vuole illuminare: Gesù è sempre accanto ai discepoli, tutti i giorni, fino alla fine del mondo, come ha promesso (Mt 28,20), ma non fisicamente, come quando percorreva le strade della Palestina; è presente in modo diverso, come un fantasma. È questa la pallida immagine impiegata nei vangeli per descrivere il Risorto e la sua nuova condizione di vita. Quando, nel giorno di Pasqua, egli appare in mezzo ai discepoli riuniti, essi “spaventati e stupiti, credono di vedere un fantasma” (Lc 24,37).

Non è facile rendersi conto della sua presenza. Solo agli occhi della fede egli diviene riconoscibile.

La seconda parte del brano (vv. 28-33) contiene il dialogo fra Gesù e Pietro. Inizia con la richiesta dell’apostolo: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque” (v. 28). La sua domanda è strana, ma solo per chi la prende in senso letterale. Se la si intende nel contesto simbolico di tutto il racconto, allora il significato risulta subito chiaro. Pietro, il primo dei discepoli, contempla il Maestro – il Risorto – che ha attraversato le acque della morte, ora cammina sul mare, è nel mondo di Dio. Sa di esser chiamato a seguirlo nel dono della vita, ma la morte lo spaventa, teme di non farcela e chiede al Signore che sia lui a comunicargli la forza.

Finché tiene gli occhi fissi sul Maestro, riesce ad andare verso di lui, ma quando la sua fede viene meno, quando comincia a dubitare della scelta che ha fatto, affonda e ha paura di venire sommerso, di perdere la vita.

È la descrizione della nostra condizione. “Vieni verso di me” – ripete oggi il Risorto ad ogni discepolo – non temere di perdere la vita; se esiti, la morte ti farà paura, se invece ti fiderai della mia parola, le acque della morte non ti spaventeranno, le attraverserai e mi raggiungerai nella risurrezione.

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