XIX Per annum: Pane per la vita del mondo

di:
Il ciclo di Elia

Dopo aver narrato la successione di David al trono (1Re 1,1–2,46) e aver descritto il regno di Salomone (3,1–11,43), il libro di 1Re segue da vicino la tragedia dello scisma e della storia dei due regni fino alla caduta del regno del Nord nel 722 a.C. (1Re 12,1–17,41). A questo punto l’autore finale dello scritto inserisce il ciclo del profeta Elia, che si concluderà in 2Re (1Re 17,1–2Re 1,18). La struttura del ciclo di Elia può essere così articolata: inizio del ciclo di Elia (17,1–19,21), guerra aramea e continuazione del ciclo di Elia (20,1–21,29), guerra aramea e conclusione del ciclo di Elia (22,1–2Re 1,18).

L’inizio del ciclo di Elia (1Re 17,1–19,21) comprende: 17,1 annunzio della siccità; 17,2-7 prima parola di Dio; 17,8-16 seconda parola di Dio e miracolo della farina e dell’olio; 17,17-24 risurrezione del ragazzo morto; 18,1-2 terza parola di Dio; 18,3-16 Elia e Obadia; 18,17-40 ordalia sul monte Carmelo; 18,41-46 fine della siccità; 19,1-8 fuga nel deserto e viaggio verso il monte Horeb; 19,9-14 la teofania; 19,15-21 missione di Elia.

La vita

Gezabele (’Îzebel = “Assenza di nobiltà del Principe”?; “Dove è il Principe”?; “il Principe, Signore della terra esiste”?; nome teoforo?) – la moglie pagana del re di Israele Acab (874-853 a.C.), figlia di Etbàal, re dei sidoniti – fa recapitare a Elia/Ēliyyā (“Il mio Dio è El”) la minaccia di dargli l’indomani stesso la medesima vita/nepeš” che egli ha riservato ai 450 profeti di Ba‘al, morti ammazzati da lui al fiume Qishon, alle falde della catena del Carmelo dopo la tragica ordalia sul vero Dio (1Re 19,3; cf. 1Re 18,49).

“Spaventato/wayyirā” (correzione del TM, <yārē’), Elia si alzò e “se ne andò verso la sua vita/wayyēlek ’el-napšô”, fuggendo verso sud, verso il deserto del Negev, fino ad arrivare a Bersabea. Anche Mosè era dovuto fuggire dal faraone, rifugiandosi nel paese desertico di Madian (Es 2,14b-15), da dove poi si sarebbe recato al monte Horeb.

Elia fugge verso il confine sud di Israele, nella città famosa posta più a sud del regno di Giuda (di qui l’espressione “da Dan a Bersabea”, per indicare l’estensione massima di Israele, cf. Gdc 20,1).

La città aveva visto vari anni della vita di Abramo, l’erezione da parte sua di un altare e lo scavo di un pozzo (Gen 26,23-25), le sue alleanze con Abimelech re di Gerar (Gen 26,26-33), la partenza di Giacobbe per trovare moglie in Carran (Gen 28,10) e, infine, la sua partenza per l’Egitto sui carri forniti dal faraone, per scendere là dove il figlio Giuseppe poteva salvare dalla fame tutta la famiglia (Gen 46,1-5).

Elia fugge “verso la sua vita”, verso le sue radici patriarcali, la vita della sua vita. Da lì era partita la linfa della creazione nuova che YHWH aveva dato al suo antenato Abramo (cf. Gen 12,1ss).

Elia abbandona il suo servitore e si incammina da solo nel deserto. Si incammina verso l’essenzialità, la spoliazione di sé, la dipendenza totale da YHWH e dalla natura povera verso i suoi figli, povera ma non matrigna sterile verso di essi. Elia cerca il senso della prosecuzione della sua missione a favore di YHWH, un dio invisibile e non manipolabile, un dio non tanto della natura – responsabile diretto dei cicli stagionali e della fecondità –, quanto della storia, della liberazione di un popolo verso la sua dignità e l’adorazione dell’unico dio.

Elia cerca riposo dalla battaglia, dalla persecuzione acerrima, dalla timidezza di un popolo che saltella sulle gambe (cf. 1Re 18,20), indeciso fra YHWH e Ba‘al. Nel deserto cerca se stesso, il senso dei suoi giorni e del suo compito, ma soprattutto cerca il volto del suo Dio, il rinforzo del sostegno che può fornirgli, la forza che proviene dal suo volto.

Depressione

Elia si siede sotto una “ginestra/rōtem” (Reatama roetam, del genere genista), un albero molto diffuso nella zona desertica meridionale (mar Morto, Petra, regione del Sinai). Inghiottito dalla depressione, “chiede [che sia presa] la sua vita per morire/wayyiš’al ’et-napšô lāmût)”. Elia voleva “andare verso la sua vita” lontano dalla perfida Gazabile, ora chiede a YHWH di prendergli la vita per la morte. “Molto (è) adesso/rab ‘attāh”, adesso basta! Tutta la fragilità dell’uomo emerge dal di dentro, come accadde anche ad altri grandi della storia di Israele: Abramo (Gen 12,11-12; 20,2ss), Mosè (Nm 20,12), Davide (2Sam 11).

Elia non si sente migliore dei suoi padri, che vissero situazioni simili di forte scoraggiamento. Mosè aveva detto dopo le estenuanti mormorazioni del popolo che, nel deserto, chiedeva pane e carne: «Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!». «Chi comanda è solo», diceva un brillante top manager morto recentemente.

Un profeta che deve richiamare un intero popolo alla fedeltà al suo Dio liberatore alla fine si esaurisce, entra in burn out. Da “seduto/wayyēšeb” (v. 4), Elia “si mette a giacere/wayyiškab” (v. 5). È depresso. Non ha voglia di cercare intorno qualcosa da mangiare, un sorso d’acqua da bere. Il deserto non è mai totalmente “vuoto”. Ma per Elia è meglio rifugiarsi nel sonno, anticipo della morte, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà, negandola nella speranza di conseguire alla fine la vittoria su di essa e la pace.

Pane e acqua di pasqua

Un messaggero/angelo (di YHWH), però, “ecco che lo colpisce con insistenza/wehinneh-zeh mal’ak nōgēa‘ bô (gr. LXX: ēpsato autou). Lo colpisce come, nell’epopea della liberazione per far celebrare al popolo di Israele la Pasqua nel deserto, YHWH aveva colpito con “piaghe/nega‘” il faraone e l’Egitto (cf. Es 11,1) e come a Gerusalemme d’improvviso l’angelo “colpirà/epataxen” il fianco di Pietro che dorme in prigione durante la vigilia della Pasqua e gli comanda:  “Alzati/Risorgi/Anasta!” (At 12,7; ipotizzabile in aramaico/ebraico: qûm!).

Anche ad Elia l’angelo, dopo averlo ripetutamente toccato/colpito, comanda di alzarsi, di risorgere: “qûm!”. “Ora basta voler morire! Alzati, mangia!”. Il depresso non vuol mangiare, ma bisogna scuoterlo e stimolarlo almeno alla vita fisica. Poi bisognerà motivarlo per cosa vivere…

Si ripete l’intervento provvidenziale già sperimentato da Elia durante la fuga iniziale al torrente Cherìt (1Re 17,4-6): pane e carne mattina e sera, portati da un corvo; acqua abbondante attinta dal torrente (probabilmente l’attuale wādi el-Yābis, che nasce presso Tisbe, patria di Elia e si getta da est nel Giordano a 13 km a sud-est di Bet Shean).

Elia non si alza neppure. La depressione è una brutta bestia.

Gira solo la testa e proprio sotto il naso vede una “focaccia di brace” e una brocca d’acqua. «Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un guadagno frutto di oppressione, scuote le mani per non prendere doni di corruzione, si tura le orecchie per non ascoltare proposte sanguinarie e chiude gli occhi per non essere attratto dal male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata», dichiara il profeta Isaia (Is 33,15-16). Tutto vero, avrà pensato già Elia un secolo prima. Ma ormai manca la voglia di vivere.

Elia si solleva appena appena sui gomiti, ma non è detto che si alzò. Mangia e beve per forza, solo per far contento l’angelo della provvidenza di YHWH. Poi si rimette giù, a morire lungo e disteso.

L’angelo lo colpisce di nuovo e gli rinnova l’ordine con le stesse parole. Quando le cose vengono dette “due volte/šēnît” significa che la cosa è importante (cf. Gen 22,15; 1Re 9,2; Ger 13,3; 33,1; Gn 3,1). Questa volta l’angelo gli dà pane, acqua e motivazione. Gli dà un ordine ma gli suggerisce anche implicitamente uno scopo, una meta. E una meta non vicina, visto che il cammino non sarà breve. Il cammino è troppo per Elia. Supera le forze umane, tanto più quelle di un depresso.

Elia obbedisce, forse come un automa. È abituato a obbedire a YHWH e al suo angelo. L’obbedienza gli sgorga dal profondo, più o meno voluta. Ma intanto mangia, beve e si mette in cammino. L’angelo è stato reticente sulla meta.

Elia si mette in moto per vincere lentamente la sua depressione. Mentre cammina guarirà. Sente dentro di sé che all’Horeb potrà trovare le radici, la fonte profonda, il pozzo che non tradisce. «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo» (Pr 5,15), ammonisce il sapiente. L’Amata lo è per l’Amato: «Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive che sgorgano dal Libano» (Ct 4,15).

Il pane dà a Elia una “forza/kōaḥ” che lo fa camminare il tempo che fu necessario a Mosè per entrare nell’intimità con YHWH, sul monte della Pasqua di Israele. Il monte del dono della Torah, della stipulazione dell’alleanza del popolo libero, il monte del perdono e dell’alleanza rinnovata dopo il peccato del vitello d’oro (Es 24,18; 34,28).

Là porta la forza del pane.

Un pane nel deserto.

Un pane di vita.

Un pane di Pasqua.

Mormoravano

Alla folla con cui Gesù ha “dialogato” finora nel suo “discorso” sul pane, subentrano ora “i giudei”. In questo caso essi si identificano con la stessa “folla” di prima, ma che ora cede il passo alla mormorazione e all’incredulità. Essi “cominciarono a mormorare/egoggyzon” (imperfetto incoativo) contro di lui”, con un sentimento misto di dispiacere e di incredulità, a cui si opporrà la forte affermazione di fede da parte di Pietro in 6,68-68.

Mormorano (cf. anche in seguito, 6,43.61) come fecero i loro padri nel deserto dell’esodo di liberazione. In Es 16,2.7.8.9.12 è riportata la loro mormorazione (goggysmos) contro Mosè e Aronne (in realtà contro YHWH, cf. Nm 14,27.29 “contro di me”) per la mancanza di acqua e di cibo: cf. 16,2 wayyillônû kol-‘ădat  (<lûn/lyn; gr. LXX: diegoggyzen pasa hēsynagōgē; cf. anche Es 17,3). Lo ricorda anche il salmo storico di confessione nazionale, il Sal 106(105),25: «Mormorarono nelle loro tende, non ascoltarono la voce del Signore».

I padri mormorarono contro YHWH (Nm 4,27.29), ora “i giudei” mormorano contro di lui, Gesù, rivelatore definitivo del Padre (cf. Gv 1,18) che nessuno ha mai visto.

“I giudei” mormorano contro di lui, non accettano la rivelazione di Gesù fatta nel v. 35 sul suo essere pane di vita, completandola con l’espressione “disceso dal cielo”, anzi, la mettono in discussione.

Dal pane che salva si trapassa in tal modo dalla questione soteriologica (vv. 36-40) alla questione cristologica. Tutti conoscono (“sappiamo/oidamen”) l’origine umana di Gesù, come è possibile che egli sia il pane disceso dal cielo, di origine divina?

Gesù risponde a loro: Non sono io il problema, né quello della mia origine, ma lo siete voi, col vostro atteggiamento. “Smettete di mormorare”, comanda con autorità. Apritevi al cammino della fede intima –, il che equivale a “venire a me” (cf. v. 35).

Il tema centrale di questa parte del “discorso sul pane” è quello della fede in Gesù. Credere in lui è andare a lui.

Ma questo comporta due condizioni: l’elezione e la comprensione della Scrittura.

Attratti e edotti da Dio

Credere in Gesù è un mistero di potenza divina, che supera le forze umane. Nessuno può credere in Gesù se non è il Padre ad “attirarlo/helkuō”. Questa forza di attrazione, uguaglia quella impiegata da Pietro nella sua pesca prodigiosa post-pasquale (Gv 21,11 “trascinò/heilkysen” la rete [= la Chiesa] a terra), superando l’incapacità dei “sette” a tirarla su (ouketi auto helkysai iskyon, Gv 21,6) dal mare di Galilea per la quantità dei pesci trovati “su comando” di Gesù.

La forza del “trascinamento/attrazione” può venire solo dall’obbedienza di Pietro al comando del Signore risorto di portare un po’ di pesce per fare colazione (cf. Gv 21,10). È obbedienza che deriva dalla comunione con l’identità del Signore risorto (“È il Signore/Ho kyrios estin”, v. 7a) percepita dal Discepolo Amato e che ha fatto gettare d’impeto Pietro in acqua per raggiungerlo (v. 7b).

Il “trascinamento” della rete ecclesiale deriva però in profondità dal “trascinamento/attrazione” che si genera dalla croce esaltante sulla quale Gesù è stato innalzato nel suo amore, libero e completo (“fino alla fine, ei sto telos Gv 13,1). «“E io, quando sarò innalzato da terra – aveva detto Gesù nell’Ultima Cena, dopo aver lavato i piedi ai suoi –, attirerò tutti (pantas [acc. masch. plur.] helkysō) a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).

Gesù attrae tutti a sé dalla croce perché l’ha abbracciata con amore totale come un dono offertogli dal Padre per salvare tutti gli uomini, una occasione per mostrare a tutti gli uomini quanto il Padre li ami (cf. Gv 3,16-17) e quanto Gesù ami il Padre (Gv 131). Al momento della sua “consegna/arresto” nel “giardino” escatologico (Gv 18,1) Gesù aveva detto a Pietro che lo difendeva a mano armata: «… Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato (dedōken moi), non dovrò berlo?» (Gv 18,11). La Passione è un dono del Padre a Gesù e agli uomini.

L’uomo potrà credere in Gesù solo se il Padre “attira” a Gesù chi si apre alla fede “andando a lui”. Gesù, a sua volta, “attira” tutti a sé dalla croce gloriosa.

Edotti da Dio

«Tutti saranno edotti da Dio» è scritto Is 54,13, citato da Gesù.  E ognuno che ascolta il Padre che ha parlato nella Torah e nella storia, imparando da lui come discepolo attento, verrà a Gesù, l’Inviato definito del Padre e suo Rivelatore escatologico (Gv 1,18). Non che alcuno abbia mai visto il Padre, eccetto colui che (è) da presso Dio (ed ha messo la sua tenda fra gli uomini nell’incarnazione, cf. Gv 1,14).

Con forza e autorità («Amen, amen») Gesù rivela che colui che crede (in continuità, sottinteso: nel nome del Figlio) ha già fin d’ora la vita eterna (v. 47). Gesù lo farà risorgere nell’ultimo giorno (v. 44), ma, secondo l’“escatologia realizzata” dell’evangelista Giovanni, egli già vive qui la vita eterna, la vita divina, la vita nell’amore.

Mangiare il pane vivo

I vv. 47-48 sono sia la conclusione dei vv. 43-46 sia l’introduzione ai vv. 48-51. Dal tema della fede si inizia a trapassare a quello del mangiare il pane della vita.

I padri hanno mangiato la manna, ma essa non era il vero pane genuino che scende dal cielo e che il Padre ora dà a Gesù, a tutti i presenti (“voi”, v. 32). I padri ne mangiarono e sopravvissero come popolo quel tanto che bastò loro per arrivare fino nelle steppe di Gerico, dove la manna cessò e gli israeliti iniziarono a mangiare dei frutti della terra, la terra di Canaan (Gs 5,10-12). Nel frattempo era morto tutto il popolo che era uscito dall’Egitto (Gs 5,4). Essi non avevano ascoltato la voce del Signore (Gs 5,6; cf. Sal 106[105],25) Per questo, a Gerico Giosuè fece circoncidere tutti gli uomini che erano nati nel deserto.

La fede in Gesù porta a mangiare il pane che lui rappresenta, un pane che scende dal cielo e che vince la morte. Chi ne mangia, non solo risorgerà nell’ultimo giorno, ma ha la vita eterna fin d’ora, vivrà per sempre di vita piena, divina.

Gesù non è solo il pane che scende dal cielo per dare la vita agli uomini. Ora il pane e la vita si uniscono in un solo soggetto. Ora viene detto che Gesù è “il pane vivo/vivente/ho artos ho zōn”. Chi ne mangia non morirà, perché il pane è “il corpo/carne/sarx” stesso di Gesù che è per la vita del mondo, qui da comprendere come l’insieme degli uomini.

Illuminato dalla fede post-pasquale, l’evangelista Giovanni allude al fatto che ora l’uomo, tutti gli uomini, non solo può appropriarsi della salvezza con la fede in Gesù, ma anche con l’accostarsi alla mensa eucaristica che fa memoriale della sua morte dal valore soteriologico. La morte di Gesù, la sua “carne”, è “a favore/hyper della vita di tutti gli uomini.

Fede ed eucaristia.

Venire a te, mangiare te.

Mi approprio di te.

Tu mi attrai a te, mi trasformi in te.

«Mangiate, amici, bevete;

Inebriatevi d’amore» (Ct 5,1c).

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