XV Per annum: I misteri del regno

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Siamo all’ultima pagina della seconda parte del libro di Isaia (Is 40–55), non attribuibile al profeta storico vissuto nell’VIII sec. a.C. ma da ascrivere al periodo immediatamente precedente al ritorno in patria dall’esilio babilonese (538 a.C.) – verso il 565-560 a.C. circa.

A conclusione dell’accorato appello che YHWH rivolge al popolo tutto (Is 55,1-9), “democratizzando” la sua alleanza eterna – ora aperta a tutti e non più solo a Davide e alla sua discendenza (v. 3) –, il Signore motiva la ragione profonda del bene promesso a tutto il popolo, il motivo ultimo del suo invito a cercarlo con tutto il cuore, “ritornando/convertendosi/weyāšûb” al Signore che “effonderà su di lui la propria misericordia viscerale/wîraămēhû”.

Manifestazione chiara che le vie di YHWH non sono quelle degli uomini, e i suoi pensieri si differenziano da quelli umani quanto i cieli distano in altezza dalla terra: è l’effetto efficacemente performativo della sua parola.

Non tornerà a mani vuote

La terra di Israele dipende vitalmente dalle piogge che si rinserrano egoisticamente durante l’anno, donando il loro beneficio solo per pochi mesi. Si attende con ansia che a inizio-metà ottobre scendano le prime piogge autunnali/gešem (v. 10) e che non siano avare le ultime piogge, quelle primaverili di metà aprile/malqôš.

La neve/šeleg, poi, è una vera benedizione. Non del tutto rara a Gerusalemme, Betlemme ed Hebron, scende abbondante sul monte Hermon, portando speranza certa del rifornimento delle falde acquifere che danno origine al Giordano e al lago di Genesaret, bacino idrico unico per l’approvvigionamento di acqua dolce per tutta la regione. La neve dona con lentezza, goccia a goccia, il suo bene, distribuendo nel tempo il suo beneficio.

Le acque dell’Hermon e del Giordano, finito il loro corso nel Mar Morto, salgono con l’evaporazione al luogo da cui sono partite, il cielo benedetto del Signore YHWH. Esse sono il suo ambasciatore plenipotenziario e un ambasciatore non può e non deve mai tornare dal proprio ministro degli esteri, che lo ha inviato in missione, “a mani vuote /rêqām” (v. 11), senza risultati “in mano”.

Le piogge autunnali – coadiuvate da quelle primaverili – “intridono/hirwāh” (v. 10) “la terra/hā’āre”, che è ben più del “suolo polveroso/hā’ădāmāh”.

La terra della promessa, la terra di Dio il Santo è donata al popolo sotto condizione (Ger 7,3-7; 22,1-5 giustizia sociale; 25,5 condotta non perversa né idolatra; Dt 11,8-17 osservanza dei comandamenti evitando l’idolatria; Dt 16,20 giustizia; 19,8-10 giustizia sociale con osservanza del sabato e cammino sulle vie di YHWH) e solamente in affitto: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri/gērîm e ospiti/tôšābîm» (Lv 25,23; cf. Sal 24,1 «Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo e i suoi abitanti»).

Le (prime) piogge autunnali e quelle (tardive) primaverili feconderanno la terra madre e la faranno germogliare, cosicché doni seme e pane/cibo da mangiare al seminatore e ai suoi familiari.

L’israelita sa bene, per esperienza vitale, come la propria vita dipenda dalle piogge donate da YHWH dai suoi cieli. Così sarà profondamente colpito al sentire che tale efficacia perfomativa appartiene per natura anche alla parola di YHWH, quella che esce dalla sua bocca. Essa “farà/‘āśāh” personalmente, con efficacia e potenza interna, quello che “piace” a YHWH. Essa ha in sé un dinamismo divino che partecipa della potenza fecondante del Donatore. L’ambasciatore plenipotenziario non tornerà “a mani vuote/ rêqām” a colui che l’ha inviata. La sua missione “riuscirà/avrà successo/hilîa” e sulla terrà potrà fiorire ciò “che piace/hāpa” (v. 11b) a YHWH.

La terra assetata desidera essere intrisa dall’acqua fecondante. Il popolo di Dio è invitato ad accogliere “il dono/wenātan” (v.10c) che viene dalla bocca – e quindi dal cuore – di YHWH.

Per vivere, il popolo ha bisogno della parola di Dio più della stessa acqua che lo fa sopravvivere nei suoi giorni trascorsi sotto il sole. «Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete», ha supplicato YHWH (v. 5). Ascoltate sempre, comunque. Aprite di default il vostro orecchio, perché la mia parola fecondi la vostra vita e possiate risorgere “significativamente” come persone e come comunità una volta tornati a casa dall’esilio.

La parola che dà senso ai giorni, che fa fiorire le cose, che indica il cammino, che illustra i criteri fondamentali del cammino personale e comunitario può venire solo da fuori. Viene da quel Dio che ha già liberato una prima volta il suo popolo, tirandolo fuori dalla schiavitù dell’Egitto.

Ora egli sta per realizzare il secondo esodo di Israele, stavolta dalla fornace ardente ma anche seduttrice di Babilonia. Chi farà fiorire una vita sensata una volta tornati a casa? Liberati da Babilonia, che ne faremo della nostra libertà? Pura totale e semplice autodeterminazione, o libertà per il bene, per un pane condiviso con la famiglia e con tutti, in una terra su cui convivere con altri nella pace? Chi ci farà risorgere come comunità di uomini aperti e solidali perché riscattati per primi dai nostri errori e dalle nostre idolatrie mortali? Donaci o YHWH una parola di vita, che operi in noi ciò che a te piace, che è sempre il nostro massimo bene.

Il seminatore uscì a seminare

Dopo il Discorso della montagna (Mt 5–7) e il discorso missionario (Mt [9,35-38] 10,1–11,1), nel suo terzo discorso (Mt 13) Gesù (= Matteo) espone in parabole il mistero del Regno, della sua storia, della sua logica interna.

A differenza del Vangelo di Marco (Mc 4,11 «a voi è stato dato il mistero del regno di Dio»), nel Vangelo di Matteo (Mt 10,11) agli apostoli viene detto: «… a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli»).

Per Matteo i discepoli conoscono già il mistero della crescita della sovranità del Padre nel mondo, per portare a tutti la presenza di Gesù risorto e la sua vita.

I discepoli devono impegnarsi a vivere qualcosa che già conoscono, mentre secondo il Vangelo di Marco la situazione dei discepoli è più impegnativa: è stato dato loro (perfetto greco: dato nel passato, con effetti duraturi nel presente) il mistero del regno dei cieli, ma non di capirlo ancora.

La parabola non è un paragone (“Il seme è il Regno/la parola di Dio/colui che ascolta la Parola”), né un paragone allungato e un’allegoria. In essa, infatti, ogni particolare del racconto fittizio viene fatto espressamente corrispondere a un elemento del referente esterno al racconto, l’evento o la realtà a cui ci si vuol riferire.

La parabola, invece, è un racconto fittizio dotato di una logica stringente che chiede all’ascoltatore/lettore di pronunciare un giudizio sulla storia udita – e il giudizio a cui è spinto inesorabilmente dalla logica della storia non può che essere uno solo –, e applicarlo poi al proprio vissuto.

La parabola è sempre fresca, nuova, aperta, non già “chiusa” nel suo significato come avviene nell’allegoria. Nel corso della storia spesso si sono ridotte le parabole ad allegorie, spegnendo in tal modo la loro novità per l’oggi, le loro domande fresche, la loro vigoria interna. Sono state ridotte a insegnamenti morali/moraleggianti già conosciuti e ripetuti fino alla noia.

La parabola è un racconto enigmatico quel tanto che è sufficiente a poter essere rapportato ad una realtà esterna da illuminare che non è umana e che richiede una risposta personale. Vari elementi paradossali rimandano spesso, in queste “storie enigmatiche”, al fatto che si sta alludendo al regno di Dio, alla sua sovranità (in tedesco Herrschaft e non Reich, in francese royaume e non règne, in inglese rule e non kingdom) che si sta imponendo al cuore degli uomini, rispettando la loro libertà.

Al lettore/ascoltatore aperto e ben disposto alla parola di Gesù, la parabola risulterà una parola che invita a crescere in “comprensione esistenziale e fattiva” del Regno.

A chi è già preventivamente chiuso a Gesù, la parabola non farà altro che confermarlo nella sua chiusura colpevole, rivelando la sua situazione tragica di sordità e di chiusura alla comprensione vitale.

Gesù nota che, in tal modo, si realizza il detto del profeta Isaia, non perché Dio lo voglia positivamente, ma perché questa è la previsione realistica che YHWH vede per l’esito della predicazione del suo profeta e che Gesù intravede come esito altrettanto realistico del suo annuncio del vangelo del Regno.

Il terreno buono

La parabola va sempre distinta da una possibile “applicazione ecclesiale”. Nell’applicazione ecclesiale si opera un restringimento interpretativo – legittimo ma pur sempre di restringimento si tratta –, della parabola iniziale di Gesù. Di essa si sottolinea un filone interpretativo, corretto, ma che talvolta non è in linea diretta col filo del discorso tenuto da Gesù e con la logica interna che lo regge.

Nella parabola del seminatore narrata da Gesù, il protagonista è il Padre che, tramite il suo inviato Gesù, semina generosamente, senza risparmio e a fondo perduto il seme della sua parola. In Israele prima si spargeva a mano il seme, con gesti larghi e sapienti, e poi si arava.

Questo è il dato evangelico, fresco, sempre nuovo. Il nostro Dio è un seminatore gioioso, fiducioso, speranzoso, non avaro dei suoi beni, ma desideroso di dare la vita anche… ai sassi!

Il seme della Parola viene seminato da Dio/Gesù/ogni discepolo cristiano con larghezza, senza dispiacersi dei risultati incerti, negativi, difettosi (o buoni e addirittura strabilianti) che potrebbero nascere dal loro operare.

Nell’“applicazione ecclesiale” vv. 18-23) il pastore d’anime – seppur evangelista – Matteo si premura di indicare la sorte diversa a cui va incontro la Parola, ammonendo sui pericoli che possono insidiare un attecchimento fruttuoso e abbondante del seme sparso con generosità dal Donatore.

Il seme/la Parola fa corpo unico con chi la accoglie/la ascolta: «Ogni volta che uno ascolta la parola del regno e non la comprende… questo è il seme seminato lungo la strada». L’accento della parabola di Gesù, fresco e generoso, che apre alla speranza e alla fiducia, cade sull’iniziativa totalmente gratuita di Dio/di Gesù/del seminatore e della sua volontà generosa di bene.

L’accento dell’applicazione ecclesiale cade invece sulla scelta che il lettore/ascoltatore è chiamato a compiere per accogliere nel modo migliore la Parola seminata in lui, diventando un terreno buono, che può a sua volta produrre cento, sessanta, trenta grani in una spiga per ogni seme lanciato con fiducia. Il cuore di Dio è generoso ed egli sparge la sua vita a piene mani. La sua Parola conosce una storia, un divenire, con gli esiti più diversi, dipendenti dalla risposta umana.

Resta il fatto che l’iniziativa prima riposa nelle mani e nel cuore di Dio e questo dà pace, serenità e speranza al cuore del credente.

Vari saranno gli ostacoli che impediscono o strozzano la vita evangelica che vuole attecchire e crescere nel cuore del credente. Ognuno deve porsi le proprie domande, contestualizzate nel proprio tempo e luogo di vita. Il “nemico”, le angustie della vita, le seduzioni luccicanti possono fare la loro parte, e il discepolo ne è avvertito.

Ma il Donatore è generoso, la parola potente ed efficace, una volta accettata e vissuta (“comprendere”). Se solo l’uomo apre una fessura nel terreno, una fenditura nella roccia, uno spazio fra le spine, l’acqua e il seme della parola faranno miracoli, e l’ambasciatore non tornerà “a mani vuote/ rêqām” (Is 55,11) da colui che l’ha inviato.

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