XVI Per annum: Cristo ospite, non per un giorno

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“Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra” (1 Cr 29,15). In queste parole di Davide si coglie la lezione che Israele ha assimilato dall’esperienza del deserto: è vissuto in tende, senza fissa dimora, ha chiesto ospitalità ad altri popoli e spesso gli è stata rifiutata (Nm 20,14-21), così ha imparato ad apprezzare l’accoglienza.

Rashi, il famoso commentatore medioevale delle Scritture, ricordava al suo popolo: “Anche se gli egiziani gettarono nel Nilo i nostri neonati maschi, non dobbiamo dimenticare che essi ci accolsero nel momento del bisogno, durante la carestia, ai tempi di Giuseppe e dei suoi fratelli”.

Anche per i cristiani l’ospitalità è un richiamo alla loro condizione di pellegrini in questo mondo. Ma ricorda loro soprattutto che Cristo è giunto nel mondo come forestiero: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).

Oggi egli continua a chiedere ospitalità: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Chiede di poter entrare nella vita di ogni uomo, di ogni società, di ogni istituzione.

Gerusalemme non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata (Lc 19,44).

Si rimane sempre titubanti e indecisi quando Gesù bussa alla porta. Si esita prima di aprirgli perché s’intuisce che la sua parola finirà per scombussolare tutta la casa. Preferiremmo che, almeno qualche cantuccio, non lo visitasse, vorremmo riservarlo per noi, lasciarlo in ordine secondo i nostri gusti.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge”.

Prima Lettura (Gen 18,1-10a)

In quei giorni 1 il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. 4 Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. 5 Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”.
Quelli dissero: “Fa’ pure come hai detto”. 6 Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. 7 All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.
9 Poi gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Rispose: “È là nella tenda”. 10 Il Signore riprese: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.

Se riceviamo un invito a cena da chi non ha ricevuto alcun favore da noi, ci insospettiamo, diffidiamo, cominciamo a fare congetture. Non ci viene spontaneo pensare che sia disinteressato, che non pensi al proprio tornaconto. Le gentilezze, le premure, le attenzioni sono in genere riservate agli amici, ai parenti, a coloro dai quali un giorno si spera di ricevere qualche favore. L’ospitalità più diffusa – quella basata sul calcolo dei vantaggi – non è biblica.

La caratteristica dell’ospitalità autentica è la gratuità e di questa sono modelli in Israele due personaggi: Giobbe e Abramo. Del primo si racconta che avesse fatto costruire la propria casa con quattro porte, una ad ogni punto cardinale, per evitare che i poveri faticassero a trovarne l’entrata. Di Abramo è ricordata l’accoglienza premurosa che ha riservato a Dio e che è narrata nella lettura di oggi.

Egli è seduto all’ingresso della tenda e sta riposando nell’ora più calda del giorno. Due versetti prima (Gen 17,26), il testo sacro nota che egli è stato circonciso. È dunque “convalescente” Abramo, eppure, non appena vede i “tre uomini” in piedi presso di lui, scatta verso di loro, ordina di portare dell’acqua perché possano rinfrescarsi i piedi e li fa sedere sotto un albero.

Poi chiama Sara e le ingiunge di cuocere, sollecita, delle focacce. Egli stesso, Abramo, corre all’armento, sceglie un vitello tenero e lo dà al servo che immediatamente lo prepara. Quando tutto è pronto, porge agli ospiti latte acido, latte fresco ed il vitello.

Questo improvvisato menù ha dato più di un grattacapo ai rabbini perché Abramo, offrendo contemporaneamente carne e latte, viola la più elementare delle disposizioni giudaiche sugli alimenti. È proibito, infatti, associare, durante lo stesso pasto, carne e latticini. Certo, questa legge sarà emanata molto tempo dopo… ma si può anche pensare che sia la premura nei confronti degli ospiti (una tazza di yogurt fresco è più gradita di un semplice bicchiere d’acqua) a suggerire ad Abramo di ignorare il precetto.

Mentre quelli mangiano, egli rimane in piedi, al loro fianco, sotto l’albero; si mantiene vigile e premuroso, pronto a rispondere ad ogni loro bisogno, ad intuire ogni loro desiderio.

Si notino i cambiamenti avvenuti: all’inizio Abramo è tranquillamente seduto e gli ospiti in piedi; alla fine le posizioni sono capovolte: i tre uomini se ne stanno comodamente adagiati sulla stuoia, mentre il padrone di casa è in piedi per servirli. Prima dell’arrivo dei tre visitatori, presso la tenda di Abramo tutto è calmo e quieto, si sente solo lo stormire delle foglie, mosse dalla brezza nell’ora più calda del giorno e sulle querce lo stridio delle cicale. D’un tratto la scena si anima: Abramo, Sara, i servi cominciano a muoversi rapidi, si affrettano, corrono. Abramo, soprattutto, non si arresta un istante, si ferma solo alla fine, quando gli ospiti stanno tranquillamente gustando il suo cibo.

La lingua ebraica non ama le parole astratte, per questo non conosce il termine ospitalità. È una lingua concreta, come il popolo che la parla, un popolo per il quale sono sacri il rispetto e l’aiuto a chi è nel bisogno e a chi chiede di essere accolto e protetto.

Piacque a Dio l’ospitalità di Abramo e, per mostrare quanto l’aveva apprezzata, gli concesse il favore più grande che il patriarca potesse desiderare: gli diede un figlio. È il segno che qualunque forma di accoglienza offerta a chi è nel bisogno è sommamente gradita a Dio.

Ospitalità è sinonimo di sollecitudine, disponibilità, benevolenza, cortesia nei confronti di chi, forse più che in una casa, chiede di essere accolto nei pensieri, nelle attenzioni, nella stima, nell’ascolto.

Sotto le sembianze del povero – il cristiano oggi lo sa – è Dio che chiede accoglienza (Mt 25,31-46) come un giorno è accaduto con Abramo, alle Querce di Mamre.

Seconda Lettura (Col 1,24-28)

Fratelli, 24 sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. 25 Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, 26 cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, 27 ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. 28 È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo.

Paolo, quando scrive questa lettera, è ormai avanti negli anni. Pochi hanno lavorato quanto lui. Nel brano di oggi egli afferma che, malgrado tutte le sofferenze, si sente intimamente felice perché sa di avere dedicato tutta la sua vita alla causa del Vangelo. In lui, Cristo ha continuato la sua opera: si è reso presente in mezzo agli uomini ed ha offerto loro il suo amore (v.24). In prigione è costretto all’inattività, ma, ripensando alla propria vita, può affermare di averla spesa bene: ha annunciato ai pagani il mistero nascosto da secoli e da generazioni e ora rivelato ai cristiani (vv.25-27). Non gli resta che impegnare le ultime forze che gli rimangono a istruire ogni uomo per rendere tutti perfetti in Cristo (vv.28-29).

Vangelo (Lc 10,38-42)

38 Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. 41 Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”.

Quando, durante la messa, o in un incontro biblico mi capita di leggere questo brano, alla fine scruto con attenzione i volti dei presenti, cercando di intuire le loro reazioni. Vedo in genere facce piuttosto imbarazzate e allora butto lì la provocazione: “Pare che non siate troppo d’accordo con quanto Gesù ha detto a Marta”.

A questo punto cominciano gli ammiccamenti, i sorrisi, i commenti sottovoce, tutti ostili a Maria. La disapprovazione è unanime anche se non si ha il coraggio di manifestarla. Qualcuno azzarda ugualmente la battuta: ma com’è possibile rimproverare una donna che lavora ed elogiare una fannullona? Comodo stare seduti in preghiera mentre altri si danno da fare!

Una ulteriore complicazione è venuta dalle interpretazioni misticheggianti di questo brano. Alcuni lo citano per dimostrare la superiorità della vita contemplativa su quella attiva. Si dice che le suore e i monaci – che nella pace dei loro chiostri passano la vita recitando orazioni – hanno scelto la parte migliore. I preti diocesani invece, assorbiti da tante attività parrocchiali e i laici che si dedicano alle opere caritative, anche se compiono sacrifici e rinunce, sarebbero spiritualmente meno perfetti.

Inteso in questo modo, l’insegnamento del Vangelo di oggi – diciamolo chiaro – è in contrasto con quello della scorsa domenica. Là Gesù elogiava il samaritano che si era dato da fare, oggi sembra proporre come modello una donna che non muove un dito per aiutare la sorella.

L’impiego di questo testo per contrapporre la vita contemplativa a quella attiva è dovuto anche ad una traduzione scorretta. Nel testo originale Gesù non dice: Maria si è scelta la parte migliore, ma semplicemente: si è scelta la parte buona, cioè: mentre Marta si lascia prendere dall’agitazione, Maria fa la scelta giusta, si comporta da persona saggia. Vediamo di capire il perché.

Luca ama presentare Gesù seduto a tavola in casa di qualcuno. Egli accettava gli inviti di tutti: quelli dei “giusti”, dei farisei (Lc 7,36; 11,37; 14,1) e quelli dei pubblicani e dei peccatori (Lc 5,30; 15,2; 19,6). Oggi lo troviamo in casa di due sorelle.

Marta, la più vecchia, si mette subito al lavoro. La sua sensibilità femminile le suggerisce che un bicchiere di buon vino e un piatto di carne saporita, serviti con gentilezza, mostrano più di qualunque chiacchiera l’affetto che si prova per una persona. Maria, la più giovane, invece di collaborare in cucina, preferisce starsene seduta ad ascoltare Gesù. È a questo punto che fra le due sorelle si accende il bisticcio che finisce per coinvolgere anche l’ospite.

Prima di entrare nel tema centrale, chiariamo un particolare del racconto: “Maria, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola” (v.39). Viene rilevata la posizione assunta da Maria: stava seduta ai piedi del Maestro. Questa non è una banale informazione, anche perché il testo originale accentua il dettaglio: “Maria, la quale era addirittura seduta ai piedi di Gesù”. Si tratta di un’espressione che ha un valore tecnico ben preciso. In quel tempo serviva ad indicare l’inclusione fra i discepoli di un rabbino. Era applicata a chi partecipava ufficialmente e regolarmente alle sue lezioni. Negli Atti degli Apostoli, per esempio, Paolo ricorda con orgoglio: “Io sono stato seduto ai piedi di Gamaliele” (At 22,3), cioè, sono stato discepolo del più famoso dei maestri del mio tempo.

Che c’è di strano nel fatto che Maria venga presentata come “alunna” di Gesù? Nulla per noi, ma, in quel tempo, nessun maestro avrebbe mai accettato una donna fra i suoi discepoli. Dicevano i rabbini: “È meglio bruciare la Bibbia che metterla in mano ad una donna”; e anche: “Le donne non osino pronunciare la benedizione prima dei pasti”; e poi ancora: “Se una donna va alla sinagoga, stia nascosta, non compaia in pubblico”. Questa mentalità era così diffusa che si infiltrò anche nelle prime comunità cristiane. A Corinto, per esempio, ci si attenne, per un certo tempo, a questa norma: “Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1 Cor 14,34-35).

Essendo questa la mentalità del tempo, è facile capire quanto sia stata rivoluzionaria la scelta di Gesù di accogliere fra i suoi discepoli anche le donne. E già che siamo in argomento, ricordo che anche la frase con cui si apre il racconto contiene la stessa provocazione: “Una donna, di nome Marta, lo accolse in casa sua” (v.38). In quel tempo era ritenuto sommamente sconveniente per un uomo accettare l’ospitalità offertagli da donne. Forse non è per caso che Luca non cita il fratello Lazzaro che viene ricordato solo nel Vangelo di Giovanni (Gv 11; 12,1-8).

È l’inizio del mondo nuovo: tutti i pregiudizi e le discriminazioni fra uomo e donna – retaggi di una cultura e di un’eredità pagane – vengono denunciati e superati da Gesù.

Una seconda osservazione importante a questo v.39: non si dice che Maria è assorta in preghiera, che sta a “contemplare” Gesù, ma che ascolta la sua parola. Non ascolta le parole, le chiacchiere, ma la Parola, il Vangelo. Non ci si può dunque richiamare a lei per giustificare il devozionismo e l’intimismo religioso. Maria è il modello di chi dà priorità all’ascolto della Parola.

Ed ora veniamo al punto più difficile del Vangelo di oggi: la risposta enigmatica di Gesù a Marta (vv.40-41).

Se la questione viene posta in termini di rimprovero di chi lavora e di elogio degli oziosi è difficile essere d’accordo con Gesù. Ma è questo che egli intende?

Per prima cosa va notato che Marta non viene rimproverata perché lavora, ma perché si agita, è ansiosa, è preoccupata, si affanna per tante cose e, soprattutto, perché si impegna nel lavoro senza aver prima ascoltato la Parola.

Maria viene elogiata, è vero, ma non perché è una fannullona, perché finge di non accorgersi del lavoro in cucina. Gesù non dice che Marta ha torto quando la richiama agli impegni concreti; non suggerisce a Maria di fare la furba e di lasciare che la sorella se la sbrighi da sola. Dice solo che la cosa più importante, quella cui bisogna dare la priorità – se non si vuole che la nostra attività si riduca ad agitazione – è l’ascolto della Parola.

Vediamo di fare la sintesi di quanto abbiamo detto. A noi certo non interessa molto sapere che un giorno, in presenza di Gesù, due sorelle hanno bisticciato tra loro. Luca riferisce questo episodio per dare una lezione di catechesi alle comunità cristiane, quelle di allora e quelle di oggi. Sa che in esse esiste tanta gente di buona volontà, tanti discepoli che si dedicano al servizio di Cristo e dei fratelli e che non risparmiano tempo, energie e soldi. Eppure, anche in questa intensa e generosa attività si cela un pericolo: che tanto lavoro febbrile venga disgiunto dall’ascolto della Parola, che divenga affanno, confusione, nervosismo, proprio come quello di Marta. Anche l’impegno apostolico, le scelte comunitarie, i progetti pastorali, se non sono guidati dalla Parola si riducono a rumore vano, scomposto agitarsi di pentole e mestoli.

Maria ha scelto la parte buona perché ha ascoltato la Parola. Anche l’altra Maria, la mamma di Gesù, viene elogiata per lo stesso motivo: perché è stata attenta alla Parola (Lc 1,38.45; 2,19; 8,21). È curioso: i modelli di ascolto della Parola che ci vengono proposti nei Vangeli sono tutti rappresentati da donne! Non sarà perché esse sono davvero più sensibili e più disposte degli uomini ad ascoltare il Maestro?

Il brano termina con le parole di Gesù a Marta (vv.41-42), ma non sembra concluso. Il dialogo tra i due deve essere continuato, ma Luca non lo riferisce. Egli sembra volere richiamare l’attenzione dei suoi lettori su un altro particolare che potrebbe passare inosservato: il silenzio di Maria.

Lungo tutto il racconto Maria non dice una parola, nemmeno per difendersi, per chiarire la propria posizione, per spiegare la propria scelta. Tace e tutto porta a supporre che il suo silenzio – segno di meditazione e di interiorizzazione della Parola – si sia prolungato anche dopo.

È Marta che ora ha bisogno di sedersi ai piedi di Gesù per ascoltarlo e ricuperare la calma, la serenità interiore e la pace.

Mentre Gesù e Marta continuano a discorrere, immagino Maria che, assorta nei suoi pensieri, quieta e contenta, si metta il grembiule e dia il cambio in cucina alla sorella. Marta è generosa, solerte, dinamica, ma ha commesso un errore: si è oberata di lavoro prima di confrontarsi con la Parola.

Quella sera Maria – penso io – ha certamente lavorato molto e così ha mostrato che il tempo dedicato all’ascolto della parola di Dio non è perso o rubato ai fratelli. Chi ascolta Cristo non dimentica l’impegno per l’uomo: impara a svolgerlo nel modo giusto… senza agitazione.

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