XVI Per annum: Pascere è dare alimento, non ordini

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Chi detiene un potere è chiamato a svolgere un servizio in favore dei fratelli, ma è anche soggetto alla tentazione di abusare della propria posizione di prestigio e di servirsene per imporsi, per favorire i propri interessi personali o familiari. L’autore del libro della Sapienza ammonisce: “Un giudizio severo si compie contro coloro che stanno in alto. L’inferiore è meritevole di pietà, ma i potenti saranno esaminati con rigore” (Sap 6,5-6).

Il dominio sugli altri è severamente proibito nella comunità cristiana (Lc 22,25).

Cristo non si richiama a un potere conferitogli dall’istituzione per chiedere ai discepoli l’adesione alla sua proposta di vita. Precede il gregge, lo alimenta con la sua parola e il suo pane e lo trascina con il suo esempio.

Nella chiesa, chi presiede non può che riprodurre il modello del Maestro e Pietro, più volte ripreso da Gesù per la sua smania di emergere, raccomanda ai presbiteri delle sue comunità: “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato sorvegliandolo non per forza, ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1 Pt 5,1-2).

Pare quasi avesse presente questa raccomandazione chi ha scritto la seguente riflessione per il capo scout: “Ricorda, capo scout, se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano; se tu dubiti, essi disperano; se tu critichi, essi demoliscono. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle; se tu preghi, essi saranno santi”.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Solo seguendo l’unico, vero Pastore, non mancherò di nulla”

Prima Lettura (Ger 23,1-6)

1 “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo”. Oracolo del Signore.
2 Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: “Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre azioni. Oracolo del Signore. 3 Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. 4 Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una”. Oracolo del Signore.
5 “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. 6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con cui lo chiameranno: Signore-nostra-giustizia.

È in un momento sociale e politico molto difficile che, verso la fine del VII secolo a.C., Geremia pronuncia questo oracolo. Il profeta aveva riposto molte speranze nel giovane re Giosia che pareva essere stato suscitato dal Signore per riunire le tribù disperse d’Israele. Ma, in un’infausta battaglia nella pianura di Meghiddo, questo re pio e saggio muore tragicamente. Al trono sale suo figlio, Ioiakìm, un imbelle, un corrotto amante del lusso che non si interessa dei poveri, ma pensa a costruirsi splendidi palazzi, non paga gli operai, commette angherie e permette che nei tribunali vengano puniti innocenti e assolti colpevoli. Politicamente è un inetto: si allea con l’Egitto e compie l’insensatezza di sfidare l’impero babilonese che è all’apice della potenza. Nabucodònosor lo affronta e lo sbaraglia. Dopo pochi mesi Ioiakìm muore, probabilmente assassinato dai suoi oppositori politici. Gli succede il figlio che è subito fatto prigioniero da Nabucodònosor e sostituito con un altro figlio di Giosia, Mattania, cui viene imposto il nome di Sedecia.

La situazione non migliora perché Sedecia manca di personalità ed è circondato da consiglieri dissennati che lo incitano a riprendere le armi contro Babilonia. È la rovina. Gerusalemme viene ridotta a un cumulo di macerie e il popolo è deportato in terra straniera.

È in questo contesto storico che va collocato l’oracolo che ci viene proposto nella lettura di oggi.

L’esordio (v. 1) è costituito da un’inappellabile condanna, da parte del Signore, dei capi politici che, ad eccezione del pio Giosia, si sono dimostrati infedeli a Dio e insensibili alle parole dei profeti. Sono paragonati a pastori che, invece di essere premurosi e attenti ai bisogni del gregge loro affidato, lo stanno conducendo alla rovina.

Non è la prima volta che il profeta impiega questa immagine; lo ha già fatto altre volte e sempre per deplorare l’operato delle guide del popolo: “I pastori sono diventati insensati, non hanno ricercato il Signore; per questo è disperso tutto il loro gregge” (Ger 10,21).

Ora che la situazione si è fatta più drammatica, il Signore ricorre alle minacce: Guai a voi! Vi chiederò conto delle vostre azioni (vv. 1-2).

Dopo questa sentenza di condanna contro i capi, il profeta si rivolge al popolo scoraggiato, senza guida e cerca di rianimarlo. Un motivo di speranza c’è: Israele non appartiene a nessun re umano, anche se i sovrani indegni l’hanno fatta da padroni; il gregge è di Dio, egli si prenderà personalmente cura delle sue pecore e le ricondurrà nella loro terra, nei pascoli dai quali sono state strappate con la violenza (vv. 3-4).

Per consolare Israele, Geremia non si limita al futuro immediato, annuncia ciò che il Signore farà in tempi ancora più lontani: susciterà nella famiglia di Davide un germoglio giusto, un re saggio che eserciterà il diritto e la giustizia su tutta la terra (vv. 5-6).

Geremia spera, probabilmente, nella provvidenziale comparsa di un nuovo sovrano, capace di riportare il regno allo splendore che aveva al tempo di Davide e Salomone. Ne annuncia anche il nome. Si chiamerà Signore nostra giustizia, in ebraico Ja Sidqénu, un’evidente allusione a Sidqíja, Sedecia, l’inetto sovrano in carica che non ha garantito la giustizia né protetto il suo popolo.

La profezia si è adempiuta, ma non secondo le aspettative umane; Dio ha superato ogni attesa. Il pastore promesso non ha restaurato un regno di questo mondo, non ha concesso la prosperità soltanto a una nazione e non ha assoggettato gli uomini con la forza delle armi.

Il pastore, il figlio di Davide promesso, oggi lo possiamo identificare: è Gesù di Nazaret, è lui lo Ja Sidqénu, il Signore nostra giustizia, perché ha dato inizio a un regno di pace e giustizia, non imponendosi con la forza delle armi, ma cambiando i cuori. Il suo regno, apparentemente senza futuro, perché sprovvisto di quei supporti in cui gli uomini ripongono le speranze di successo, è invece destinato ad estendersi su tutta la terra e a durare per sempre.

Seconda lettura (Ef 2,13-18)

13 Ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo.
14 Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia,15 annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, 16 e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. 17 Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. 18 Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

In tutto l’impero romano, gli ebrei erano noti per il loro isolazionismo; Tacito li bolla con il titolo di “nemici del genere umano”. Un muro alto un metro e mezzo circondava l’area santa del tempio di Gerusalemme e, su di esso, tredici tavolette di marmo recavano inciso, in greco e in latino, il divieto per i pagani, sotto pena di morte, di entrare nel sacro recinto. Era il segno della separazione, che Israele riteneva voluta da Dio, fra due popoli: da una parte gli eletti, gli unici eredi delle benedizioni promesse ad Abramo e alla sua discendenza, dall’altra gli stranieri, gli esclusi dalla salvezza.

Rivolgendosi a questi ultimi, l’autore della Lettera agli efesini proclama la fine di questa contrapposizione, stabilita dagli uomini, non da Dio. Cristo ha riconciliato per sempre i due popoli: “Voi che un tempo eravate i lontani, ora siete diventati i vicini”; a prezzo del suo stesso sangue, egli ha acquistato, per chi non apparteneva al popolo dell’alleanza, il diritto di cittadinanza in Israele (v. 13).

Poi spiega il modo in cui, dei due, egli ha fatto un popolo solo.

Egli è la nostra pace, il “principe della pace” annunciato da Isaia (Is 9,6), il “signore della pace” promesso da Michea (Mic 5,4), inviato per abbattere gli steccati e le barriere che separano, per porre fine a ogni divisione fra gli uomini, perché tutti sono ugualmente amati da Dio (v. 14).

Ha raggiunto questo obiettivo abrogando la legge giudaica che, per preservare il popolo dall’impurità dei pagani, sanciva e benediva la separazione (v. 15) e ha riconciliato i due popoli.

Non solo, ma, con la sua incarnazione, ha abolito anche la distanza fra Dio e l’uomo, ha unito cielo e terra, annunciando la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini (vv. 16-17).

In queste dolci espressioni echeggia la profezia di Isaia: “Come sono belli i piedi del messaggero di gioia, che annuncia la pace” (Is 52,7).

Il brano si conclude con un’immagine grandiosa, derivata dal cerimoniale di corte. Uniti dall’unico Spirito, infuso in tutti da Cristo, giudei e pagani, vicini e lontani, si presentano insieme, in una solenne processione, al Padre (v. 18).

Animato da questo Spirito, il cristiano non può che divenire un costruttore di pace. Come Cristo è impegnato a demolire tutte le pareti che ancora impediscono agli uomini di incontrarsi; non si lascia coinvolgere in discorsi in cui si mette in rilievo ciò che divide, i torti subiti, le incomprensioni passate; ripudia i pregiudizi, le discriminazioni e ogni sorta di casta; crede nel dialogo fra popoli, culture, razze, religioni.

Vangelo (Mc 6,30-34)

30 Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. 31 Ed egli disse loro: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’”. Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. 32 Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.
33 Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. 34 Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Tutti coloro che lavorano hanno bisogno di prendersi un momento di riposo e l’attività apostolica, come afferma Paolo che per lunghi anni l’ha svolta, è un “duro lavoro” (2 Cor 11,23). Ecco la ragione per cui, al ritorno della loro missione, gli apostoli sono invitati da Gesù a riposare un po’. L’episodio in sé potrebbe apparire piuttosto banale, ma l’evangelista lo riporta perché contiene messaggi importanti per i discepoli di Cristo.

Nella prima parte (vv. 30-32) vengono introdotti gli apostoli che ritornano soddisfatti dalla loro missione, si riuniscono attorno al Maestro e gli riferiscono quanto hanno fatto e insegnato. Dopo averli ascoltati, egli li invita a ritirarsi con lui, in disparte, in un luogo solitario, lontano dalla folla.

La scena di Gesù che si apparta con i discepoli si ripete spesso nel vangelo di Marco e prepara sempre una rivelazione importante. Dopo aver raccontato le parabole alle folle Gesù, in privato, spiega ogni cosa ai discepoli (Mc 4,34); “lontano dalla folla, in disparte” cura il sordomuto di Betsaida (Mc 7,33); conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte della trasfigurazione in disparte, loro soli, (Mc 9,2); è in privato che risponde ai discepoli che gli chiedono spiegazioni sulla fine del mondo (Mc 13,3) e sulla ragione per cui non sono riusciti a scacciare un demonio (Mc 9,28).

Nel nostro brano l’espressione in disparte è ripetuta due volte ed è accentuata dal fatto che Gesù e i dodici si trovano soli su una barca che, nel silenzio, lentamente si allontana sul lago.

Il primo messaggio, il più semplice e immediato, Marco intende rivolgerlo a coloro che, nelle comunità cristiane, hanno la responsabilità della presidenza e dell’annuncio della parola di Dio. Vuole che essi confrontino il proprio zelo apostolico con quello dei dodici e imparino a servire i fratelli con tanta dedizione e tanto amore da non avere più il tempo neppure per mangiare.

Il messaggio principale è però un altro e va colto nell’espressione in disparte che dà il tono a tutto il brano.

Il servizio alla comunità richiede molto impegno e grande generosità, ma bisogna fare attenzione perché, facilmente, può trasformarsi in attività frenetica, valutata secondo i criteri della produttività aziendale; allora incombe, anche sui ministri più generosi, il pericolo di perdere il contatto con il datore di lavoro, con Cristo e la sua parola.

Gli apostoli che si riuniscono attorno al Maestro e valutano, insieme con lui, ciò che hanno fatto e insegnato, mostrano quale dev’essere il punto di riferimento di tutta l’attività apostolica. Prima di mettere in atto progetti è necessario un confronto sincero con il Maestro, per ricevere da lui le indicazioni sul compito da svolgere e per sentirsi inviati da lui. Non si possono elaborare programmi senza un costante richiamo al vangelo. Le scelte, le iniziative che non nascono dalla preghiera, dalla meditazione e dalla riflessione comunitaria della parola di Dio, rischiano di essere dettate da criteri umani. Dietro il paravento delle opere caritative e benefiche, si celano, a volte, obiettivi meno nobili, ambizioni, interessi personali, volontà di competere, di imporsi, di fare proseliti.

È vero che tutta la vita è preghiera, che nel povero si incontra Dio, che nel servizio al prossimo si opera in nome di Cristo, tuttavia, se non ci si ritaglia spazi e momenti di silenzio in cui si rimane soli con il Signore, se non ci si stacca dalle folle e dalle attività che assorbono tutto il tempo e tutte le energie, si finisce per atrofizzarsi.

Anche durante la realizzazione dei programmi apostolici ci si deve, in ogni momento, lasciar interpellare da Cristo; non può mai mancare il riferimento alla sua parola e, a opera conclusa, è sempre necessario ritirarsi in disparte, per valutare con lui, come hanno fatto i dodici, ciò che è stato realizzato. Solo chi procede in questo modo può alimentare la convinzione di non trovarsi “nel rischio di correre o di aver corso invano” (Gal 2,2).

Il riposo di Gesù e degli apostoli dura poco, solo il tempo della traversata del lago.

Nella seconda parte del brano (vv. 33-34) eccoli, infatti, di nuovo in mezzo alla gente che, accorsa da ogni parte, li aspetta sulla riva.

Gli occupanti della barca rappresentano la comunità cristiana che, dopo essersi presa un buon momento per riflettere su se stessa e per stare con il Maestro, ora torna a servizio degli uomini. Il suo appartarsi non è stato una fuga, ma una ricarica spirituale. Quando sono portatori di una parola divina che infonde speranza e comunica salvezza, i discepoli sono sempre attesi con impazienza e accolti con goia.

L’incontro con la folla suscita in Gesù una reazione emotiva così forte che, per descriverla, l’evangelista ricorre al verbo greco splagknízomai, che esprime un sentimento di compassione così profondo e così intenso da poter essere provato solo da Dio. Nella Bibbia indica il gesto tenero e affettuoso del Signore che si china sull’uomo per fasciarne le ferite.

Marco ha già rilevato in Gesù questo sentimento quando un lebbroso, in ginocchio, lo ha supplicato (Mc 1,40-41) e, di nuovo, lo rileverà nell’incontro con le folle affamate: “Ho compassione di questa gente; poiché da tre giorni sta con me e non ha da mangiare” (Mc 8,2). La reazione di Gesù rivela la tenerezza di Dio di fronte al dolore dell’uomo.

Quando le miserie, i mali, il dolore sono causati dal peccato, la reazione spontanea e naturale è quella di attendersi o, se si tratta degli altri, addirittura di invocare la punizione divina, ritenuta espressione di perfetta giustizia. Nell’emozione di Gesù, la comunità cristiana coglie l’unico sentimento che anche lei deve lasciar trasparire: sempre e solo misericordia.

L’evangelista completa la scena con un’immagine d’una bellezza e d’una dolcezza incomparabili: “Si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore” (v. 34).

L’immagine richiama vari testi dell’Antico Testamento. Il primo riferimento è alla preghiera che, giunto alla conclusione dell’esodo dall’Egitto, Mosè fece al Signore. Temendo che, dopo la sua morte, Israele potesse rimanere senza una guida, preoccupato, implorò questa grazia: “Il Dio della vita metta a capo di questa comunità un uomo che la preceda, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,16-17).

L’immagine allude poi alle accuse dei profeti contro le guide che hanno condotto il popolo alla rovina: “Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” (Ez 34,5-6) e al celebre salmo: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sl 23,1).

Riprendendo l’immagine del pastore, Marco indica in Gesù la guida inviata da Dio in risposta alla preghiera di Mosè e come adempimento delle promesse fatte per bocca dei profeti. In Israele c’era chi si presentava come pastore: gli scribi, i farisei, i rabbini, i capi politici, il re Erode; ma costoro pascevano se stessi, non il popolo.

Gesù è il pastore vero perché rivela un cuore sensibile ai bisogni della gente, un cuore che subito percepisce di quale cibo hanno fame e di quale acqua hanno sete. Ha presente le parole del profeta: “Ecco, verranno giorni in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno” (Am 8,11-12).

I dirigenti del popolo non erano in grado di saziare questa fame e questa sete, anzi, con le loro false dottrine, avevano condotto il popolo allo sbando. Gesù cominciò allora a distribuire il suo pane, il duplice pane: l’insegnamento che nutre mente e cuore e il cibo che alimenta il corpo.

Il brano di oggi si conclude osservando che Gesù “si mise a insegnare loro molte cose” (v. 34). Non si è abbattuto, non ha imprecato contro i responsabili della condizione penosa in cui il popolo era ridotto, si è messo a insegnare, perché è anzitutto questo il pane di cui l’uomo ha bisogno.

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