XVII Per annum: Causa di conflitti e segno di comunione

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Per infondere coraggio negli israeliti, colti dal panico di fronte ai cananei, uomini dall’imponente statura, Giosuè e Caleb esclamarono: “Non abbiate paura, essi sono pane per noi!” (Nm 14,9). Curiosa coincidenza: la radice ebraica da cui deriva il termine pane è composta dalle stesse consonanti del verbo combattere, quasi a indicare che la lotta per il cibo è la causa scatenante delle guerre. Anche i dissensi fra Israele e il Signore sono derivati dalla scarsità di pane: “Nel paese d’Egitto eravamo seduti mangiando pane a sazietà” (Es 16,3).

Solo quando è condiviso, il pane cessa di essere motivo di competizioni e contese e diviene segno di amore e fraternità.

Mangiare il pane con qualcuno è considerarlo un proprio intimo, un amico cui si accorda fiducia, un alleato dal quale non ci si aspetta alcun tradimento (Sl 41,10). Le tensioni più forti, i rancori più velenosi si manifestano nei silenzi a tavola e le discussioni più imbarazzanti sono quelle che scoppiano fra commensali.

Il banchetto è, per sua natura, espressione di pace e riconciliazione (Gn 31,53-54), per questo Dio l’ha scelto come immagine del suo regno. Egli imbandirà un banchetto in cui “i poveri mangeranno a sazietà” (Sl 22,27).

Ecco il suo sogno: contemplare un giorno tutti i suoi figli, quali virgulti d’ulivo, attorno alla sua mensa (Sl 128,3).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“I poveri mangeranno e saranno saziati, se avrò il coraggio di condividere i miei beni”

Prima Lettura (2 Re 4,42-44)

42 Da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia.
Eliseo disse: “Dallo da mangiare alla gente”. 43 Ma colui che serviva disse: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?”.
Quegli replicò: “Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche”. 44 Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore.

Cosa sognavano i “poveri della terra” d’Israele? Non grandi cose, solo di avere pane a sazietà e magari, di poter anch’essi mangiare, come i ricchi, tre volte al giorno. L’abbondanza di pane era il segno della benedizione di Dio (Sl 37,25) e la sua scarsità un castigo per il peccato (Ez 4,16-17).

La scena narrata nella lettura di oggi va ambientata durante una terribile carestia. La situazione era tanto disperata che, per sopravvivere, la gente mangiava radici, foglie e erbe, perfino quelle velenose (2 Re 4,38-41).

Il termine fame ricorre 134 volte nell’Antico Testamento, tante, perché, a causa della scarsità di piogge, le terre dell’antico Medio Oriente erano spesso colpite da questa calamità.

In un tempo di carestia, dunque, un uomo di Baal‑Salisa si presenta a Eliseo e gli offre venti pani d’orzo (v. 42).

L’orzo cresce anche su terreni poveri e accidentati e ha un valore inferiore al grano (Ap 6,6). Il suo ciclo di maturazione è più breve rispetto a quello degli altri cereali, per questo è il primo ad essere raccolto; viene mietuto in primavera, verso pasqua. I ricchi preferivano il pane di frumento, le classi più povere invece si accontentavano di quello di orzo che costava meno.

È quindi un contadino povero colui che, con un gesto di commovente generosità, si priva del prezioso alimento per consegnarlo al profeta. Non trattiene per sé la primizia del proprio campo, sente il bisogno di condividere con altri il dono ricevuto da Dio. Il pane è un dono del Signore e va subito condiviso con chi non l’ha: “Chi ha l’occhio generoso sarà benedetto, perché egli dona del suo pane al povero” (Pr 22,9).

Eliseo, a sua volta, si lascia coinvolgere in questa dinamica del dono gratuito, messo in atto dall’uomo di Baal‑Salisa. Non mette nella bisaccia il pane per portarselo a casa sua, ma invita il suo servo a distribuirlo alle cento persone affamate che gli stanno attorno.

La reazione del servo è scettica: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?” (v. 43). Se non interviene un miracolo, non è possibile risolvere il problema della fame di tanta gente con così poche risorse.

Il profeta lo invita alla fiducia assicurando: “Tutti ne mangeranno e ne avanzerà anche” (v. 43).

Il prodigio è possibile e accadrà, ma solo a condizione che si abbia il coraggio di credere nella promessa del Signore e ci si fidi della disposizione, apparentemente assurda e insensata, del profeta che ordina di distribuire, di condividere, di mettere in comune.

Il cibo sarà sufficiente per tutti e ne avanzerà, ma nessuno dovrà accaparrarsene più di quanto gliene serve per saziarsi. Chi, diffidando della provvidenza del Signore o mosso dall’avidità e dalla cupidigia, ne sottrarrà parte ai fratelli per conservarlo, nasconderlo, accumularlo per sé, il giorno seguente lo vedrà, come la manna, imputridito e pieno di vermi (Es 16,20).

Dio non moltiplica il pane dal nulla, non lo fa piovere dal cielo e non si sostituisce all’uomo nella soluzione del problema della fame. Realizza i suoi prodigi attraverso coloro che confidano nella sua parola.

Ecco la dinamica che ha condotto al miracolo: prima c’è stato il gesto generoso di un uomo di Baal‑Salisa che ha offerto il frutto del suo lavoro, poi è venuta la decisione di Eliseo di condividere il dono ricevuto, infine è accaduto il prodigio: “Tutti mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore”.

Oggi è certamente vero che solo un miracolo può risolvere il problema della fame nel mondo, eppure è possibile ottenerlo, basta avere il coraggio, contro tutte le logiche umane, di fidarsi del vangelo e, come Pietro invitato a pescare a mezzogiorno, esclamare: “Sulla tua parola…” (Lc 5,5) e agire di conseguenza.

Seconda Lettura (Ef 4,1-6)

1 Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, 2 con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, 3 cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
4 Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; 5 un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. 6 Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

Con questo brano inizia la parte della Lettera agli efesini dedicata alle esortazioni morali e il primo tema che viene introdotto è quello dell’unità della chiesa.

Nei primi versetti (vv. 1-3) sono elencate alcune caratteristiche della vita nuova dei battezzati. Sono introdotte con un richiamo all’apostolo Paolo, prigioniero nel Signore (v. 1). L’autenticità del suo messaggio è comprovata dalla sua disponibilità a dare la vita per il vangelo.

Il primo segno distintivo del discepolo è l’umiltà, intesa come scelta dell’ultimo posto, disponibilità a servire, abbassamento per innalzare chi è povero. Poi vengono la mansuetudine, la pazienza e la sopportazione. Il cristiano non è litigioso e irascibile, non pretende di avere sempre ragione, sa che gli uomini hanno qualità e limiti, virtù e difetti, doti e meschinità. Sull’esempio del Maestro rinuncia a ogni forma di aggressività e di violenza e cerca in ogni modo l’unità, la riconciliazione e la pace.

Nella seconda parte del brano (vv. 4-6) il tema viene ripreso e motivato. Sono sette le ragioni per cui, fra i cristiani, deve regnare l’unità: “Uno solo è il corpo, uno solo lo spirito, una sola la speranza, uno solo il Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti”. Difficile spiegare il motivo per cui è stato dimenticato l’accenno all’unico pane eucaristico.

L’unità di una comunità non è frutto di simpatie o il risultato dell’intrecciarsi di interessi egoistici. Come tutti, i cristiani avrebbero mille ragioni per essere divisi e in disaccordo. Esistono fra loro differenze di razza, lingua, cultura, condizioni economiche, mentalità, carattere… La stessa religione, a volte, è motivo di dissensi, ci sono tante professioni di fede nello stesso Cristo. Le diversità però non devono generare invidie e creare competizioni; costituiscono una ricchezza e sono destinate a favorire l’aiuto reciproco, la collaborazione, la complementarietà. Ecco la ragione per cui, nei versetti successivi (vv. 11-16), la Lettera agli efesini descriverà la comunità cristiana come un corpo ben compaginato in cui ogni membro ha una sua funzione e un suo compito.

Vangelo (Gv 6,1-15)

1 Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2 e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. 3 Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli.
4 Era vicina la Pasqua, la festa dei giudei. 5 Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare.
7 Gli rispose Filippo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. 8 Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9 “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. 10 Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. 11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero.
12 E quando furono saziati, disse ai discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!”. 15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

Per cinque domeniche consecutive si interrompe la lettura del vangelo di Marco e viene proposto il capitolo 6 del vangelo di Giovanni. Inizia oggi con il racconto della moltiplicazione dei pani e continua, nelle prossime settimane, con il celebre discorso sul pane della vita, pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao.

Nell’interpretazione di questo capitolo, si può commettere l’errore di partire dal presupposto che tratti, dall’inizio alla fine, dell’eucaristia. Va evitato, per non perdere la ricchezza del messaggio di ogni brano. Il tema dell’eucaristia accompagna in sottofondo tutto il discorso, ma, in modo esplicito, viene introdotto solo alla fine.

Fra tutti i segni operati da Gesù, nessuno è raccontato tante volte quanto quello della moltiplicazione dei pani. Tutti gli evangelisti lo riportano almeno una volta, Matteo e Marco addirittura due, in tutto è quindi riferito sei volte.

Come mai nella chiesa primitiva è stata data tanta importanza a questo fatto?

Perché si è trattato di un fatto clamoroso, sensazionale, perché ha molto impressionato un popolo abituato a mangiare una sola volta al giorno. È vero, la fame cronica degli israeliti può spiegare in parte, ma non tutto l’interesse per questo episodio. Gesù ha compiuto miracoli più straordinari che vengono narrati una sola volta. Perché si insiste tanto sui pani?

Oggi ci viene proposta la versione dell’episodio composta da Giovanni, diversa, in molti dettagli, dalle altre. Non ci soffermeremo su queste differenze e nemmeno ci sforzeremo di stabilire ciò che può essere realmente accaduto, ci immergeremo subito invece nel messaggio e cercheremo di evidenziarlo in ogni particolare significativo del racconto.

Premettiamo un’osservazione importante: nel testo non viene impiegato il termine moltiplicazione; lo usia­mo noi nella titolatura, peraltro non ispirata, dei brani evan­gelici, ma il vangelo parla solo di pani e pesci messi in comune, di distribuzione dei medesimi, del risultato – tutti ne ricevettero “fin che ne vollero” – e della raccolta, in dodici canestri, dei pani avanzati, segno di un alimento destinato a non esaurirsi mai. Tutto qui. Il messaggio centrale del racconto quindi non va cercato nella moltiplicazione, ma nella condivisione.

Noi siamo affetti dalla smania di moltiplicare tutto ciò che è materiale: i soldi, la salute, gli anni della vita, le amicizie, i successi e, quando ci sentiamo incapaci di moltiplicare, chiamiamo in causa Dio affinché lo faccia al nostro posto. Ma la smania di moltipli­care è sin­drome di morte, deriva dalla paura della morte e del fallimento, è segno di mancanza di fede.

Il problema cui Gesù, con il suo gesto, intende dare una risposta è quello della fame, della fame materiale, non di quella spirituale. Esiste il problema della fame nel mondo e noi vorremmo che egli lo risolvesse con moltiplicazioni; Gesù invece segue un’altra logica, una logica che non permette di rimanere neghittosi, che coinvolge e corresponsabilizza.

Il racconto inizia con un’indicazione cronologica: “Era vicina la pasqua, la festa dei giudei” (v. 4). Non si tratta di un’informazione, ma di una cornice teologica che serve a mettere in risalto il significato dell’episodio. Giovanni vuole che venga letto nella prospettiva della grande festa della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto.

Il parallelismo fra la moltiplicazione dei pani e gli avvenimenti dell’esodo è tanto importante che l’evangelista lo evidenzia ripetutamente: Gesù, come Mosè, attraversa il mare (v. 1) e, lo si noti, non compare alcuna barca, proprio come durante l’esodo; come Mosè, Gesù è accompagnato da un popolo numeroso e si conquista la fiducia delle folle compiendo grandi segni (v. 2). Per due volte (vv. 3.15) sale sulla montagna e si siede con i suoi discepoli, proprio come Mosè che spesso andava sul monte e istruiva il suo popolo. Durante l’esodo Mosè diede la manna e, come lui, Gesù sfama coloro che lo seguono. Infine, al v. 14 si nota che la folla lo acclama come “il profeta che deve venire nel mondo”. Un esplicito richiamo questo alla profezia fatta da Dio a Mosè: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18,18).

Tutti questi richiami hanno lo scopo di presentare Gesù come il nuovo Mosè che inizia, con l’umanità, un nuovo esodo, un passaggio dalla schiavitù alla libertà, da una condizione insostenibile e disumana alla vera vita.

La meta del viaggio di Mosè era la terra di Canaan, quella di Gesù è la vera terra promessa, il regno di Dio, il regno in cui – come hanno annunciato i profeti – tutti avranno a disposizione cibo abbondante e gratuito (Is 25,6).

Non si tratta del paradiso, dell’aldilà, ma, anzitutto, dell’aldiqua. Certo, il regno di Dio avrà il suo compimento alla fine dei tempi, ma il segno compiuto da Gesù indica che la società nuova, quella in cui a tutti è offerta la possibilità di vivere secondo il progetto del Creatore, quella in cui tutti possono disporre di mezzi sufficienti per soddisfare i bisogni fondamentali, deve iniziare qui e subito.

Ma è possibile crearla? È pensabile che le risorse di questo mondo bastino per sfamare tutti e ne avanzi?

I dubbi espressi con franchezza e lucidità dagli apostoli rispecchiano le nostre perplessità. Nella Mishna è scritto che, per soddisfare il fabbisogno giornaliero di un povero, occorre 1/12 di denaro. Filippo fa un rapido calcolo: con 200 denari si possono approntare 4800 mezze razioni (v. 7). Ma dove trovare tanti soldi e tanto pane?

Nel vangelo di Luca i Dodici avanzano un’altra proposta, molto realistica e condivisibile: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovare cibo” (Lc 9,12). In altre parole: questo è un problema che non riguarda la fede; da noi si viene per pregare, meditare, ascoltare prediche; quanto al pane, ognuno si deve arrangiare come può. È l’idea, diffusa anche oggi, che esistono due sfere nettamente distinte e non comunicanti: il regno di Dio da una parte e la vita materiale dall’altra.

Interviene Andrea, il fratello di Simon Pietro: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci”, poi, come chi si è reso conto di aver fatto un’osservazione priva di qualunque senso pratico, subito soggiunge: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (v. 9). Il cibo è poco e la moltitudine immensa. Di fronte a una situazione duecento volte meno complicata, il servo di Eliseo aveva avuto l’identica reazione: “Come porre questo di fronte a tanta gente?”.

Attraverso un ingegnoso dialogo, Gesù ha fatto emergere le strategie dettate dalla sapienza degli uomini per risolvere il problema della fame nel mondo, strategie che sono le nostre e che l’evangelista ha abilmente collocato sulla bocca degli apostoli.

La conclusione cui si giunge è: non c’è alcuna soluzione; le bocche da sfamare sono troppe e le risorse insignificanti e sorge spontaneo perfino il dubbio che la creazione non sia perfettamente riuscita. Il massimo che si può ottenere in questo mondo è una buona organizzazione dell’assistenza sociale, ma è impensabile che la miseria possa essere sconfitta.

È a questo punto che Gesù prospetta la sua soluzione: “Fateli sedere” (v. 10). Viene così scartata l’idea che il regno di Dio si attui in una sfera separata dalla realtà concreta. La parola di Cristo è destinata ad essere un fermento sociale, a trasformare tutto il mondo e tutto l’uomo.

La mensa sulla quale viene imbandito il banchetto è originale. La folla è invitata ad adagiarsi sull’erba verde di un prato. “C’era molta erba in quel luogo” (v. 10) – nota l’evangelista – e questo dettaglio, apparentemente marginale e superfluo, è significativo perché richiama, in modo esplicito, le parole del salmo: “Il Signore è il mio pastore… in pascoli di erbe fresche mi fa riposare” (Sl 23,1-2). Se Gesù fa sedere le sue pecore “sull’erba verde” significa che si presenta come il pastore annunciato dai profeti, vuol dire che è stato inaugurato il banchetto del regno di Dio (Is 25,6), che è sorto il mondo nuovo, il mondo in cui nessuno dovrà più azzuffarsi per il cibo, perché ce ne sarà in abbondanza per tutti.

Come verrà costruito questo mondo nuovo?

Gesù indica qual è la sua proposta compiendo un gesto: prende il pane che è stato offerto, lo distribuisce e il prodigio avviene, realizzato dalla fede nella sua parola che è un invito alla condivisione, alla rinuncia a possedere e a conservare per sé.

Giovanni è l’unico evangelista che nota che chi ha messo a disposizione di tutti il poco cibo che aveva era un bambino e che il suo pane era d’orzo (v. 9), l’alimento dei poveri. Il dettaglio del bambino è poco realistico perché, lo sappiamo, i bambini sono i primi a consumare le provviste; è dunque poco verosimile che, fra tanta gente, proprio un bambino e solo un bambino abbia conservato la merenda. Il valore simbolico del dettaglio è invece evidente: nel vangelo il bambino è il modello del discepolo; coloro che vogliono entrare nel regno dei cieli devono diventare come bambini (Mc 10,15).

Ora risulta chiaro il messaggio: il bambino, povero, è il discepolo chiamato a mettere a disposizione dei fratelli tutto ciò che possiede.

Questa è la grande proposta, questa è la chiave del miracolo!

Basta che gli uomini mettano da parte i loro egoismi, vincano la bramosia di possedere “che è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10), accolgano la logica del Regno e mettano a disposizione dei fratelli, senza riserve, tutto ciò che hanno a disposizione e il prodigio accade: tutti vengono sfamati e ne avanza.

Ho accennato al fatto che il capitolo 6 di Giovanni non tratta, fin dall’inizio, dell’eucaristia. Il brano di oggi ha per tema la condivisione dei beni e va evitata l’interpretazione spiritualistica; tuttavia non si può non notare che il racconto ha connotazioni eucaristiche. Nella descrizione dei gesti di Gesù – “Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti” (v. 11) – è evidente il richiamo alle parole dell’istituzione dell’eucaristia (Mc 14,22). È il modo con cui Giovanni ricorda alle sue e alle nostre comunità che il problema del pane materiale è strettamente legato alla celebrazione dell’eucaristia. Sarebbe un controsenso spezzare insieme il pane eucaristico e non condividere il pane materiale.

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