XVII Per annum: La gioia di un tesoro

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L’archeologo Carter rimase per alcuni istanti stupefatto, allibito, quasi paralizzato quando, introdotta una candela in un pertugio della tomba inviolata di Tutankhamon, scorse il tesoro più ricco mai scoperto. I tre amici che erano con lui lo interpellavano con insistenza, ansiosi di sapere cosa lo avesse ammaliato. Riuscì a farfugliare: “Cose meravigliose, cose meravigliose!”. Non fosse per questo tesoro, di Tutankhamon – un faraone della XVIII dinastia, morto diciannovenne – ricorderemmo a malapena il nome.

Salomone visse nello sfarzo: “Ho accumulato – diceva – argento e oro, ricchezze di re e di province, insieme con le delizie dei figli dell’uomo” (Qo 2,8), ma non furono questi i tesori che lo resero famoso.

“Tesoro” è l’epiteto più ricorrente sulla bocca degli innamorati. Non si può vivere senza legare il cuore a un tesoro; neppure Dio può farne a meno, infatti “si è scelto Israele” (Sal 135,4).

Il tesoro dei saggi è la sapienza: “Vale più scoprire la sapienza che le gemme. Non la eguaglia il topazio d’Etiopia; con l’oro puro non la si può scambiare” (Gb 28,18-19). Ad essa i rabbini dedicavano tempo ed energie perché sta scritto: “Mediterai su di essa giorno e notte” (Gs 1,8) e commentavano: “Va’ e cerca quale ora non è né giorno né notte e consacrala alle altre scienze”.

Nella scelta del tesoro ci si può anche ingannare, perché è facile prendere abbagli, confidare in ciò che è inconsistente, inaffidabile. Gesù ci mette in guardia: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).

La vita va investita, non si può non scegliere; su un tesoro bisogna puntare. Quale?

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”.

Prima Lettura (1 Re 3,5.7-12)

5 In Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte e gli disse: “Chiedimi ciò che io devo concederti”. 7 Ora, Signore mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide mio padre. Ebbene io sono un ragazzo; non so come regolarmi. 8 Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che ti sei scelto, popolo così numeroso che non si può calcolare né contare. 9 Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso?”.
10 Al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare. 11 Dio gli disse: “Perché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te né una lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento per ascoltare le cause, 12 ecco faccio come tu hai detto. Ecco, ti concedo un cuore saggio e intelligente: come te non ci fu alcuno prima di te né sorgerà dopo di te.

Non furono né tranquilli né felici gli ultimi anni del regno di Davide: sommosse, rivolte, tentativi di sbalzarlo dal trono. Negli intrighi per ottenere il potere ben tre dei suoi figli perirono di morte violenta. I disordini continuarono finché Salomone riuscì a impossessarsi del potere. Non fu un guerriero come suo padre, non c’erano nemici da combattere, fu un uomo di pace. Ereditò un grande regno che doveva essere mantenuto unito e governato con giustizia ed equità. Ci riuscì.

Fu un abile politico, un grande costruttore, un uomo ricchissimo, ma divenne famoso per la sua saggezza. Nell’AT il suo nome è citato circa trecento volte e significa “pace”, “prosperità”. Da tutto il mondo accorrevano a Gerusalemme per conoscerlo e per ascoltarlo. La visita più celebre fu quella della regina di Saba che, ammirata per la sua sapienza esclamò: “Era dunque vero quanto avevo sentito nel mio paese sul tuo conto e sulla tua saggezza! Beati i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza! Nel suo amore eterno per Israele il Signore ti ha stabilito re perché tu eserciti il diritto e la giustizia”. (1 Re 10,6-9).

Da dove gli veniva tanta sapienza? Ce lo racconta la lettura di oggi.

Prima di iniziare a governare, Salomone andò al santuario di Gabaon per offrire sacrifici. Durante la notte il Signore gli apparve in sogno e lo invitò ad esprimere un desiderio; qualunque cosa avesse chiesto gli sarebbe stata concessa. Non domandò nulla per sé: né ricchezza, né salute, né la vittoria contro i nemici (v. 11).

Era giovanissimo quando Davide, su suggerimento di Betsabea – la moglie di Uria, divenuta poi la favorita – lo aveva designato come suo successore. Si rendeva conto di essere ancora inesperto ed era cosciente di quanto sia facile per chi comanda lasciarsi corrompere dalla frenesia del potere e commettere errori e ingiustizie. Chiese a Dio “un cuore docile per rendere giustizia al suo popolo e per distinguere il bene dal male” (v. 9). Fu esaudito. Il Signore gli concesse un cuore saggio e intelligente come non ci fu prima di lui né mai ci sarà (v. 12).

Fu l’inizio della sua fortuna: “Ti concedo – disse il Signore – anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria come nessun re ebbe mai” (v. 13). Dalla sapienza gli derivarono tutti gli altri beni. La regina di Saba, “quando ebbe ammirato tutta la saggezza di Salomone, il palazzo che egli aveva costruito, i cibi della sua tavola, gli alloggi dei suoi dignitari, l’attività dei suoi ministri, le loro divise, i suoi coppieri e gli olocausti che egli offriva nel tempio del Signore, rimase senza fiato” (1 Re 10,4-5).

Ci trovassimo di fronte alla lampada di Aladino e potessimo esprimere un desiderio, probabilmente non chiederemmo “un cuore capace di ascoltare la voce del Signore”. Non abbiamo la saggezza di Salomone: non abbiamo capito che la “sapienza di Dio” non solo non esige la rinuncia ad alcuno vero bene, ma è la fonte di ogni bene.

Seconda Lettura (Rm 8,28-30)

28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30 quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

È facile credere che Dio esiste e che ha creato il mondo, più difficile credere nella sua provvidenza e, nonostante i segni apparentemente contradditori che verifichiamo ogni giorno, concludere che egli riuscirà comunque a condurre a buon fine il suo progetto.

Le parole con cui inizia la lettura sono un invito alla speranza: nulla di ciò che accade sfugge a Dio, nulla può coglierlo di sorpresa. Egli fa sì che “tutto collabori al bene” e alla realizzazione della salvezza (v. 28).

Nella seconda parte del brano (vv. 29-30) vengono ricordate le tappe del cammino che porta alla salvezza. C’è anzitutto la predestinazione eterna: Dio sceglie coloro che sono destinati a divenire suoi figli; poi c’è la chiamata: attraverso la predicazione, a coloro che sono predestinati viene annunciato il vangelo e rivolto l’invito ad accoglierlo. Alla chiamata segue la giustificazione cioè la trasformazione interiore che avviene nel battesimo. Infine c’è la glorificazione, il momento in cui la nuova condizione di figli di Dio diviene manifesta.

Di tutto questo processo, il momento che ci lascia un po’ sconcertati è il primo: la predestinazione. Significa forse che Dio sceglie alcuni e rifiuta altri? Assolutamente no. Vuol dire che, prima ancora di venire chiamati alla salvezza, gli uomini, tutti gli uomini, sono oggetto dell’amore eterno di Dio. Naturalmente, solo una parte di loro avrà la fortuna di venire a conoscenza del vangelo e di ricevere il battesimo; ma Dio vuole che anche tutti gli altri si salvino (1 Tm 2,4).

Vangelo (Mt 13,44-52)

44 Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
45 Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46 trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
47 Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48 Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49 Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
51 Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. 52 Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.

Capita spesso agli archeologi di rinvenire, sotto i pavimenti delle abitazioni, casse o vasi contenenti monete. Sono stati probabilmente collocati là dai proprietari prima di darsi a una precipitosa fuga. Nell’imminenza di una guerra o di un’invasione nemica, tutti cercavano di nascondere in fretta ciò che avevano di prezioso e non potevano portare con sé, sperando di poterlo ricuperare un giorno, non appena fosse passato il pericolo. I veri padroni però molte volte non tornavano e la casa veniva occupata da altri che non avevano alcun sospetto della ricchezza che giaceva sotto i loro piedi.

Al tempo di Gesù si favoleggiava molto su tesori scoperti per caso. Si raccontava di poveri braccianti che, intenti a dissodare con l’aratro un campo non loro, accidentalmente urtavano contro un ostacolo, si chinavano per controllare ed ecco apparire un contenitore traboccante di monili, gemme, gioielli, pietre preziose. La fantasia popolare amava cullarsi con questi sogni di inattesi colpi di fortuna.

La prima parabola del vangelo di oggi (v. 44) riprende una di queste storie: per puro caso un uomo scopre, nel campo in cui sta lavorando, un tesoro; lo nasconde di nuovo, poi va, vende tutto ciò che possiede e compera quel campo.

Molti si sono soffermati a disquisire sul comportamento morale di quest’uomo e sulla liceità dell’operazione finanziaria da lui compiuta, ma non è questo il punto. Ha incuriosito i commentatori anche il fatto che il tesoro, dopo il ritrovamento, viene di nuovo nascosto. Apparentemente illogico e superfluo, questo dettaglio è invece prezioso: porta a supporre che il bracciante, attratto dall’inconfondibile sfavillio di un oggetto d’oro che affiorava dal terreno, abbia subito intuito che, sotto le zolle, poteva celarsi una ricchezza immensa e, per non perderne neppure una briciola, abbia deciso di comperare tutto il campo.

Siamo così introdotti nella parabola: il tesoro di cui Gesù parla è il regno dei cieli, la condizione nuova in cui entra chi accoglie la proposta delle beatitudini. Ha un valore incalcolabile e, solo progressivamente, viene scoperto da chi è deciso a puntare su di esso la propria vita.

Il fatto che questo tesoro sia trovato per caso indica la sua gratuità: Dio lo offre agli uomini senza alcun loro merito; non è un premio per le loro opere buone.

C’è però un comportamento da assumere di fronte a questo dono. Chi lo scopre non può avere esitazioni, perplessità, dubbi. Se tentenna, perde tempo prezioso, l’occasione favorevole può sfuggirgli e non ripresentarsi più. La decisione va presa con urgenza, la scelta non è dilazionabile. Non si può mancare all’appuntamento con il Signore.

Poi bisogna puntare tutto. Non si chiede di rinunciare a qualcosa, ma di spostare tutti i propri pensieri, le proprie attenzioni, i propri interessi, i propri sforzi sul nuovo obiettivo.

Il tesoro – come avverrà anche con la perla – non è acquistato per essere rivenduto e tornare in possesso dei beni di prima, ma per tenerlo in sostituzione di quanto, fino a quel momento, aveva dato senso alla vita. La scoperta del regno di Dio comporta un cambiamento radicale. È questo il significato della decisione di “vendere tutti i propri averi per comperare il campo”.

 È quanto è accaduto a Paolo, il giudeo irreprensibile e fanatico, convinto che la Toràh era il tesoro che gli avrebbe dato la salvezza. Un giorno, sulla via di Damasco, ha incontrato Cristo, e tutto quello che per lui poteva costituire un guadagno fu considerato una perdita. “Di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore – dichiara – ho lasciato perdere tutto e tutto considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8).

Un simile cambiamento provoca sorpresa, meraviglia, stupore. Chi non ha scoperto lo stesso tesoro non riesce a capacitarsi, non trova una spiegazione che giustifichi la novità di vita di chi è entrato nel regno di Dio.

Chi ha visto il contadino vendere tutto per comperare il campo deve aver pensato che era impazzito: la terra brulla e sassosa della Palestina non giustificava simili sacrifici. Egli solo era cosciente della sua scelta: stava concludendo l’affare della sua vita.

 Chi conosceva Paolo – il rabbino scrupoloso osservante della legge – e improvvisamente l’ha visto abbandonare le sue sicurezze per puntare tutto su un uomo giustiziato l’ha considerato un folle: “Sei pazzo, Paolo – gli dice il procuratore Festo – la troppa scienza ti ha dato al cervello!” (At 26,24). Invece egli aveva trovato il bene più prezioso, “Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23).

Da un segno, però, tutti – i vicini del contadino e i correligionari di Paolo – avrebbero dovuto capire che stava agendo con lucidità e a ragion veduta: la gioia. Chi ha capito di avere tra le mani un inatteso e insperato tesoro non può che essere colmo di gioia: “Sono pervaso di gioia” (2 Cor 7,4) – assicura l’Apostolo – “ho provato grande gioia nel Signore” (Fil 4,10); “il regno di Dio è gioia” (Rm 14,17).

Insomma, chi osserva il volto raggiante di chi ha scoperto il regno di Dio dovrebbe intuire che ha intravisto, come l’archeologo Carter, “cose meravigliose”.

La seconda parabola (vv. 15-16) è detta gemella della precedente e contiene lo stesso messaggio. Si diversifica per alcuni dettagli significativi: il protagonista anzitutto non è un povero bracciante, ma un ricco mercante che gira il mondo con un obiettivo ben preciso: trovare perle.

Nell’antichità le perle erano pregiate quanto lo sono oggi i diamanti. Venivano pescate nel mar Rosso, nel golfo Persico e nell’oceano Indiano e, nell’epoca imperiale, erano considerate la cosa più preziosa, tanto da divenire proverbiali. Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza, era venerata come la dea delle perle; un bambino molto amato era detto “perla”; di un uomo saggio si diceva che aveva una bocca da cui uscivano perle; le dodici porte del cielo – scrive il veggente dell’Apocalisse – “sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla” colossale, meravigliosa (Ap 21,21).

Essendo ritenute di gran pregio, Gesù le ha scelte come immagine del tesoro inestimabile che egli offriva: il regno di Dio.

A differenza del contadino che s’imbatte per caso in un tesoro, il mercante trova la perla dopo un’estenuante ricerca. Le due scoperte sono frutto una della fortuna, l’altra del proprio impegno.

Il comportamento del mercante è l’immagine dell’uomo che cerca appassionatamente ciò che può dare senso alla sua vita e riempire di gioia i suoi giorni

Le due parabole si completano: il regno di Dio, da un lato è dono gratuito di Dio, dall’altro è anche frutto dell’impegno dell’uomo.

La terza parabola (vv. 47-50) riprende il tema introdotto domenica scorsa dalla parabola del grano e della zizzania. L’immagine è presa dalla pesca sul lago di Tiberiade dove erano impiegate grandi reti a strascico che catturavano pesci buoni, ma anche pesci non commestibili o impuri (Lv 11,10-11). Sulla spiaggia i pescatori procedevano alla separazione. Così – dice Gesù – avviene nel regno dei cieli.

Secondo la concezione degli antichi il mare era il regno delle forze diaboliche, nemiche della vita. Ai discepoli è affidata la missione di “pescare uomini”, sottraendoli al potere del male. Passioni incontenibili, egoismi, cupidigie li avviluppano come onde impetuose che, come un vortice, li trascinano verso l’abisso. Il regno dei cieli è una rete che li tira fuori, li fa respirare, li porta verso la luce, verso la salvezza.

In questa rete non vengono accolti soltanto i buoni e i bravi, ma tutti, senza distinzione. Il regno di Dio non si presenta oggi allo stato puro; nella comunità cristiana va serenamente ammessa, accanto al bene, la presenza del male e del peccato. Nessuno, anche se impuro, deve sentirsi escluso o essere emarginato. Questo è il tempo della misericordia e della pazienza di Dio che “non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3,9).

Certo, giungerà il momento della separazione e Matteo, com’è solito fare, ne parla servendosi del linguaggio drammatico dei predicatori del suo tempo; impiega le immagini con cui nella Bibbia è descritta la distruzione dei nemici del popolo d’Israele (Ez 30; 38-39): i giusti entreranno nella pace e i malvagi saranno puniti in una prigione infuocata.

Nella letteratura rabbinica si parla spesso di questo giudizio di Dio, non per minacciare la punizione eterna ai peccatori, ma per mettere in risalto l’importanza del tempo presente e l’urgenza delle decisioni da prendere oggi: ogni attimo sprecato è definitivamente perso e gli errori commessi in questo mondo avranno conseguenze eterne. L’eventualità di dissipare, di sperperare la propria esistenza puntandola su “tesori” sbagliati è tutt’altro che remota. Tuttavia, alla fine, la separazione non sarà tra buoni e cattivi, ma tra bene e male: solo il bene entrerà in cielo, tutte le negatività verranno annientate prima… dal fuoco dell’amore di Dio.

Il discorso di Gesù si conclude con la domanda: “Avete capito?” e con il richiamo all’opera dello scriba (vv. 51-52). La domanda è rivolta ai discepoli, a coloro che hanno trovato il tesoro e la perla preziosa. Il regno dei cieli che ora possiedono è stato preparato attraverso l’AT (le cose vecchie) e realizzato in Cristo (le cose nuove). I cristiani sono invitati a rendersi conto, a prendere coscienza, attraverso lo studio delle sacre Scritture, dell’immenso dono che hanno ricevuto da Dio.

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