XX Per annum: Acqua e fuoco

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Ogni volta che ritorna la domenica, i figli e le figlie di Dio nutrono il desiderio di condividere la loro fede e la loro speranza con i membri della comunità di appartenenza.

Per questo tutti insieme ci mettiamo all’ascolto della parola di Dio che ora viene proclamata nel contesto liturgico. La Parola desidera sprigionare tutta la sua forza e tutta la sua luce e noi siamo desiderosi di essere illuminati da questa luce, di essere corroborati da quella forza.

1. La prima lettura è tratta dalle profezie di Geremia, quello, tra i profeti, la cui vita è stata un’autentica profezia della vita di Gesù. È quanto emerge da una lettura attenta di questo libro, soprattutto dalle così dette “confessioni” di cui esso è ricco.

E dire che Geremia era certamente un uomo pacifico, che non amava esporsi per fronteggiare i suoi nemici; avrebbe preferito vivere in pace con tutti. Per questo egli ha resistito anche con il Signore che lo chiamava ad essere profeta in Israele (cf. Ger 1,7; 20,7-18).

Il dramma prende inizio dalle parole dei suoi nemici: «Si metta a morte Geremia, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo». Evidentemente, costoro ragionano in un modo totalmente avulso da ogni prospettiva religiosa. Geremia invece, a nome di quel Dio che gli ha affidato una missione estremamente difficile, indica a tutti le vie della pace e della convivenza fraterna.

La viltà del re Sedecia si aggiunge alla protervia dei capi: in questo modo Geremia è in totale balìa dei suoi nemici. Viene calato in una cisterna, che si trovava nell’atrio della prigione. Ne uscirà solo per l’intervento di uno straniero, che intercede presso il re a favore del profeta.

Geremia è vera profezia di Gesù di Nazaret, la cui vicenda pasquale di morte e di risurrezione trova un anticipo molto realistico nella vita di questo profeta.

2. Il salmo responsoriale corrisponde a una lamentazione individuale, uno di quei salmi nei quali l’orante si rivolge direttamente a Dio per essere liberato dalle tribolazioni che lo affliggono.

Le intenzioni dell’orante sono ottimamente riassunte nel versetto: «Mio Dio, non tardare». Con un tono estremamente confidenziale egli invoca la venuta del Signore e si augura che avvenga quanto prima: non può più resistere alle sofferenze che lo affliggono.

Il primo moto che anima il salmista è quello della speranza: «Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido». Il credente, anche quando è assalito dalle prove più atroci, non cessa di coltivare la virtù della speranza: questa gli dà sollievo e si dimostra una preziosa compagna di viaggio.

Poi viene il pieno riconoscimento del favore ricevuto: «Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude». Sembra qui rievocata la situazione del profeta Geremia sopra descritta.

Alla fine l’orante si presenta nella sua identità: «Ma io sono povero e bisognoso, di me ha cura il Signore. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare». Chi coltiva la fede non solo come un dono da conservare, ma anche come una luce che illumina la vita non fatica a definirsi per quello che è: “un povero bisognoso”, cioè un peccatore che non ha alcun pudore nel confessarsi tale, ma al quale il Signore ha rivolto il suo sguardo benigno.

3. La seconda lettura è tolta ancora dalla lettera agli Ebrei. In essa la madre Chiesa desidera che ritorniamo a meditare sul grande mistero di Cristo, «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento». Dopo aver evocato i vari credenti del Primo Testamento proiettati verso un futuro che potevano intravedere solo da lontano, l’autore ci invita a percorrere lo stesso cammino, animati dalla speranza e dalla certezza dell’aiuto di Dio.

A modello di questo nostro cammino, l’autore propone Gesù stesso, per il fatto che non si è sottratto al supplizio della croce ma, «di fronte alla gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio».

L’esemplarità di Cristo consiste in questo: nell’aver «sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori». Il racconto della passione di Gesù costituisce una dimostrazione chiara e forte della resistenza di Gesù alle forze del male, sia di Satana sia dei suoi accusatori.

Ma l’autore della lettera vuole raggiungere un altro scopo: quello di scuotere l’attenzione dei cristiani a camminare sulla stessa via: «Pensate attentamente… Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato».

4. La pagina evangelica di questa domenica ci è offerta dall’evangelista Luca: una pagina che ci aiuta a entrare nella vita intima di Gesù di Nazaret a partire dalle prime parole: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!». Ma di quale fuoco si tratta? Qual è il desiderio che anima Gesù mentre pronuncia queste parole?

E poi Gesù aggiunge: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato, finché non sia compiuto!». Ma di quale battesimo sta parlando Gesù? Quali sono le acque attraverso le quali deve passare? Fuoco e acqua sono simboli pasquali: Gesù intende esprimere il suo atteggiamento di fronte alla morte che lo attende. Egli non subirà la morte passivamente, ma fin d’ora la desidera e la sperimenta come la potenza dell’acqua, come la veemenza del fuoco.

Ma acqua e fuoco sono anche simboli pentecostali: Gesù proietta il suo sguardo fino al compimento del mistero pasquale, quando invierà dal cielo il dono dello Spirito Santo, come forza purificatrice e rinnovatrice. Come a Gesù, anche al cristiano viene chiesto di affrontare la lotta, di attraversare l’acqua e il fuoco, di prepararsi al rifiuto e all’ostilità. Dalle parole del vangelo «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione», nasce un messaggio forte ed esigente: non si può vivere senza dare un orientamento preciso alla propria esistenza. Non ci si può nascondere, soprattutto in un tempo come il nostro. O si è per Cristo o contro di lui; o si vive di fede o si vive nell’indifferenza.

Vivere per il Signore significa disporsi ad accettare anche la persecuzione per amore della verità, a perseverare tenacemente nel compiere il bene, a rischiare di non essere capiti neppure dai propri cari. E ciò senza compiere gesti eclatanti, ma nella testimonianza di un amore umile e quotidiano.

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