XX Per annum: Battesimo di fuoco

di:
Disfattismo

Se in Ger 26–35 si narrano l’inizio del calvario di Geremia e le prospettive di speranza, in Ger 36,1–45,5 si è davanti al rifiuto della parola profetica e alla fine imminente di Gerusalemme assediata dai babilonesi di Nabucodonosor. Essa avverrà nel 587/6.

Sul trono di Giuda, dopo il re Ioiakìm (609-597), sale Ioiachìn (598-597, tre mesi di regno, a cui segue la sua deportazione a Babilonia), quindi suo zio Sedecia (597-587/6), che si ribella a Nabucodonosor sperando nell’aiuto dell’Egitto. Gerusalemme è conquistata nel giugno-luglio 587/586, Sedecia viene catturato mentre fugge e, a Ribla, dopo aver visto uccidere i suoi figli sotto i suoi occhi, viene accecato e condotto in catene a Babilonia.

In precedenza, Sedecia aveva consultato Geremia sul da farsi e il profeta lo aveva consigliato di arrendersi agli assedianti. Nel 588 c’era stato un momentaneo allentamento dell’assedio, ma i babilonesi – affermava Geremia – sarebbero tornati presto. I nemici del profeta lo catturano mentre in quel frangente Geremia esce dalla porta nord della città per andare a prendere possesso di un campo acquistato come atto fiducia nel futuro di pace. Questo atto viene invece interpretato dai suoi nemici come alto tradimento. Geremia è scaraventato in prigione nella casa di Giònata lo scriba (Ger 37,11).

Il re Sedecìa lo ascolta e lo fa trasferire nell’atrio della prigione, assicurandogli una focaccia di pane giornaliera 37,21). Geremia continua i suoi proclami di invito alla resa per il bene della città: chi si arrende avrà salva la vita; se si resiste, periranno tutti, città e cittadini (38,1-3).

I nemici del profeta – “i capi/haśśărîm” di Giuda –, lo denunciano al re con altezzosità spregiativa: “quest’uomo/hā’îš hazzeh”, due volte al v. 4); secondo loro Geremia non è un profeta… Lo accusano di disfattismo e di demoralizzazione dell’esercito (38,4: “infiacchire le mani”). Lo denunciano inoltre falsamente di volere non il “benessere/šālôm” del popolo, ma la “sventura/male/rā‘āh”.

Questa è una loro personale interpretazione dei messaggi profetici di Geremia, interpretazioni superficiali della realtà nel suo insieme – ancorché legittime –, perché si fermano, appunto, solo alla superficie e non valutano complessivamente le conseguenze dell’ostinata ribellione di un popolo esiguo e di una piccola città verso una superpotenza mondiale del momento qual è Babilonia.

Re imbelle e ondivago, lobbies potenti e determinate

Il re Sedecia è ondivago, incerto ed esitante. Ha rispettato il profeta, ha ascoltato la sua parola e ha già alleggerito una volta la sua condizione carceraria. Ora però se ne lava le mani. Del profeta e delle sorti sia del popolo sia della città. Cede al potere soverchiante dell’aristocrazia e abdica miseramente alle proprie responsabilità e alla propria autorità, riconoscendo impudicamente che «non è il re può (fare) (contro di) voi cosa/alcunché» (lett.). Il re riconosce che non può fare nulla contro di loro ma, allo stesso tempo, anche che lui stesso è un nulla rispetto alla loro cieca protervia. Una situazione incresciosa per il popolo di Israele: un re imbelle in balìa del potere illimitato e sovrano delle lobbies economico-finanziario-terriere della città e dell’intero paese.

Il re getta la spugna, e senza ulteriori indagini più approfondite, consegna il profeta in balìa dei suoi nemici: “ecco-lui nelle vostre mani”. Un soggetto-pronome personale, hû’, “lui”. Non ha un nome proprio, non è riconosciuto neppure nella dignità del suo essere umano (“quest’uomo”, 2 volte al v. 4). Men che meno è riconosciuto nella sua missione profetica. Ma anche i nemici di Geremia non sono uomini: sono solo bieco potere, operativo ma cieco e autoreferenziale (“vostre mani”).

 E “i capi” usano le mani. Gettano nuovamente Geremia in prigione, stavolta una cisterna piena di fango (Ger 38,6).

Macchina del fango

La città è sotto assedio, manca tutto, ma una galera la si trova sempre. Ormai Geremia ne ha fatto una collezione intera. Stavolta è una “cisterna/pozzo/bôr”. Una cisterna regale, appartenente a Malchia, un figlio del re. È nell’atrio della sua casa, ma non dà acqua/ayim di vita al posto di guardia che la protegge. Solo “fango/ṭîṭ” schifoso e putrido, come le persone che vi abitano sopra. Custodi di cisterne piene di crepe, che non tengono l’acqua (Ger 2,13)…

Non una parola di difesa o un gesto di resistenza da parte di Geremia. Il potere è cieco. Non ci sono soggetti verbali espliciti: “prendono/wayyiqeḥû” Geremia, lo “gettano/wayyašlikû” nella cisterna/pozzo. Lo “inviano/calano/wayešalle” con delle “corde/ḥăbālîm”, perché non si rompa subito l’osso del collo, ma abbia di che soffrire a lungo di fame e di sete…

La macchina del fango avviata contro Geremia ha raggiunto il suo scopo. Mission accomplished. Che Geremia muoia mangiando fango. È quel che si merita…

Geremia replica la sorte subìta da Giuseppe da parte dei fratelli: «lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua» (Gen 37,24). È la sorte di tanti servitori di YHWH: «Sono più numerosi dei capelli del mio capo quelli che mi odiano senza ragione. Sono potenti quelli che mi vogliono distruggere, i miei nemici bugiardi: quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?», si lamenta il salmista (Sal 69,5).

La situazione è disperata, come quella di un altro fedele di YHWH che vede arrivare la sua fine: «Mi hanno chiuso vivo nella fossa e hanno gettato pietre su di me – si lamenta un prigioniero dal fondo della sua fossa –. Sono salite le acque fin sopra il mio capo; ho detto: “È finita per me”. Ho invocato il tuo nome, o Signore, dalla fossa profonda» (Lam 3,54-55). La preghiera si è fatta intensa: «Liberami dal fango, perché io non affondi, che io sia liberato dai miei nemici e dalle acque profonde» (Sal 69,15).

La sua fede in YHWH è incrollabile, come quella di Geremia e, alla fine, la liberazione è arrivata, come arriverà anche per il profeta: «Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi» (Sal 69,2-3).

Salvezza dal “nero”

Perché Ebed-Mèlek (“lo schiavo del re”) non se ne sia rimasto a casa sua, ma come e perché sia finito in Israele (passando per il Sinai, come oggi?) non è dato sapere. È “il kushita”, un epiteto che ricorre tredici volte nell’AT, con o senza l’articolo. È un nome gentilizio.

«Nella Bibbia, Kûš è una regione che la Settanta e la Vulgata identificano con l’Etiopia. In realtà, però, connota un territorio a sud dell’Egitto, comprensivo della Nubia e dell’Abissinia», ricorda l’esegeta V. Lopasso. Un “nero” che doveva stare a casa sua, direbbe oggi qualcuno. Un rifugiato che ha ottenuto asilo? Arrivato legalmente o da clandestino? Non è dato sapere. In ogni modo ha fatto carriera.

È un sārîs. Il termine ebraico sārîsîm di Ger 29,2 «deriva dall’accadico šā rēši, “il principale”, originariamente il maggiordomo, ed è comunemente tradotto con “eunuchi” – commenta Lopasso –. Di per sé può significare sia eunuchi sia funzionari di corte (34,19; 38,7; 52,25). Nel nostro caso [quello di Ger 29,2], tuttavia, è preferibile, come in 41,16, intenderlo come “eunuchi”, sulla base del contesto: i servitori della regina madre e servitori delle donne del re erano evirati. Invece il Targum conserva l’altro significato (“principi”)».

Il re stava seduto nella porta di Beniamino. Il sistema architettonico “porta” delle città maggiori in Israele – come si può ben vedere anche a Gerusalemme oggi – prevede un muro largo, con entrata a L per bloccare la corsa dei cavalli nemici e l’impeto dei guerrieri che irrompono senza trovare ostacoli. Il muro può ospitare stanze di guardia, magazzini di viveri e munizioni ecc.

A Gerusalemme c’erano due porte di Beniamino. La porta superiore di Beniamino era una porta nel tempio (Ger 20,2), mentre la porta di Beniamino era una porta situata sul lato nord della città (e quindi apriva sulla strada che portava al territorio della tribù di Beniamino; cf. Ger 37,13; 38,7; Zc 14,10, probabilmente la stessa della porta delle Pecore, cf. Ne 3,1.32; 12,39; Gv 5,2).

Il re “sta seduto sulla porta/yôēb beša‘ar” (38,7). Probabilmente sta scrutando le mosse del nemico. A Gerusalemme viene infatti quasi sempre da nord (assiri, babilonesi, siriani, greci come Alessandro Magno, i romani di Tito nel 70 d.C. ecc.).

Ebed-Mèlek ci mette la faccia, si espone personalmente. Fa una precisa scelta di campo, col pericolo concreto di fare la stessa fine di Geremia. Esce dalla reggia, dal suo sistema protettivo e informa il re della situazione, dandone un preciso giudizio negativo: “hanno fatto (il) male/hērē‘û”. Avevano accusato Geremia di voler il male della città, ma sono loro stessi invece a compierlo di fatto!

Vero ‘ebed del re

Ebed-Mèlek è un vero “consigliere” del re. Retto e sincero, come deve essere un funzionario statale, un diplomatico, un agente segreto. I dati che egli fornisce nel suo sintetico rapporto al re sono completi (i primi due dei quali omessi dal “potere occulto” responsabile dell’accaduto negativo).

Essi comprendono la menzione anonima e con un understandment leggermente spregiativo dei responsabili: “quegli uomini”; un’immediata valutazione complessiva negativa dell’azione commessa dagli avversari del profeta: “fatto male… tutto quello che hanno fatto/kol-’ăšer ‘āśû”; il nome della vittima della situazione: Geremia; la sua qualifica professionale: “il profeta/hannnābî’”; la descrizione dettagliata della fattispecie del reato da loro commesso: l’hanno gettato nella cisterna/pozzo; l’analisi valutativa prospettica a breve termine – con il risultato dato già per scontato (con un “perfetto profetico” espresso con un wayyqtol) per il soggetto penalizzato: “è morto = morirà/wayyāmot”; la descrizione della causa immediata del tipo di morte che interverrà: “carestia/fame/ra‘ab”; causa remota invitabile della morte: non c’è più “pane/cibo/leḥem” nella città.

Il re irresoluto, ondivago e inetto, il re che aveva abdicato alla propria dignità e al proprio potere, diventa ora risoluto, senza tentennamenti o ulteriori discussioni. Adotta in pieno l’analisi del “servo del re” e agisce di conseguenza, con potere pieno, autonomo e immediato. Ordina al suo funzionario di prendere con sé una nutrita squadra di commando di teste di cuoio a disposizione del re h24 “e di far risalire/weha‘ălîtā” il profeta Geremia (riconoscimento tardivo ma corretto dell’identità e della dignità del soggetto penalizzato ingiustamente) dalla cisterna/pozzo prima che muoia.

Ebed-Mèlek eseguirà immediatamente gli ordini del re (vv. 11-12) e, con degli stracci vecchi e stoffe logore, legati a delle corde, tirarono su Geremia e lo “fecero risalire/risorgere/wayya‘ălû” dalla cisterna/pozzo della morte. Geremia rimarrà nell’atrio della prigione (v. 13).

La salvezza per Geremia arriva da YHWH, per mezzo di un funzionario d’origine straniera che si prende a cuore la sua persona.

Provvidenza umana, sangue di alleanza

La Provvidenza di YHWH ha sempre il volto, gli occhi, le mani e il cuore di uomo/di donna. Uno che non si volta dall’altra parte e vuol salvare vite.

Un uomo/Una donna che si china e ascolta il grido di chi affoga nel fango. Un uomo/Una donna che restano umani.

La salvezza si presenta allora con volto amico, un volto di uomo: «Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi» (Sal 40,3).

La promessa di alleanza di sangue espressa da YHWH a Sion, attestata secoli più tardi nella seconda parte del libro del profeta Zaccaria (Zc 9–14), si realizza in anticipo per Geremia grazie a delle mani di un uomo: «Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua» (Zc 9,11).

Fuoco acceso

Le parole appena pronunciate da Gesù (Lc 12,35-48) circa la venuta certa ma imprevedibile del “padrone/signore/kyrios” e l’invito successivo a discernere il “tempo decisivo/kairos” (vv. 54-59) pongono i vv. 48-53 in un innegabile contesto escatologico. Gesù (e Luca) stanno parlando delle realtà decisive della vita cristiani, ultime nel senso di urgenza di decisione da prendere nei loro confronti, e ultime anche in senso cronologico. Riguardano cioè le realtà “escatologiche/ultime”: l’incontro con il Signore al termine della vita dell’uomo e dell’umanità.

Gesù è venuto a portare un “fuoco” sulla terra. Nell’AT il fuoco è un’immagine per descrivere la parola di Dio (cf. Ger 5,14; 23,29) o il giudizio divino (cf. Sal 66,12; Ez 38,22; così anche nei testi paratestamentari, cf. 1En 90,9; 100,1-2.9).

All’inizio del Vangelo di Luca, Giovanni Battista aveva preannunciato l’arrivo del messia che avrebbe battezzato l’umanità in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,6). A differenza del battesimo penitenziale di Giovanni, che sigillava una disposizione di conversione e predisponeva al perdono dei peccati, il battesimo del messia sarebbe stato “infuocato”, purificando non solo esternamente ma cambiando la realtà interna dell’uomo con il dono dello Spirito Santo.

Alla luce dell’inizio degli Atti degli Apostoli, la promessa dello Spirito si rivela essere collegata inscindibilmente alla morte, risurrezione e ascensione di Gesù al cielo. Lo Spirito con il quale i Dodici saranno battezzati (dal Padre e al Cristo Messia asceso al cielo) li renderà testimoni di Gesù fino ai confini della terra.

Il dono dello Spirito, che incendierà il mondo con la corsa della Parola attestata negli Atti degli Apostoli, avverrà però solamente dopo che Gesù stesso sarà battezzato, cioè immerso nella sua morte ignominiosa. Egli è già in cammino verso Gerusalemme, dove è consapevole che lo attende una fine dolorosa. Il dono dello Spirito sgorgherà da questa morte e risurrezione, da questo passaggio ineludibile. È una realtà che stringe il cuore di Gesù, con un certo tormento e dolore umano comprensibili. Una realtà che opprime, stringe, affligge (synechomai).

Gesù vorrebbe che questo fuoco fosse già acceso (così CEI 2008 e S. Grasso). Tenendo presente il fondo aramaico, forse la difficile frase può essere tradotta anche: «e che voglio, se non che sia acceso?» (S. Fausti, anche se ammette che la versione dal greco «e che voglio se è già acceso?» è più corretta.

Qualcuno suggerisce la traduzione: «e che cosa voglio (di più) se è già acceso?». Con la venuta di Gesù che inaugura il regno sulla terra, il fuoco della Parola, del giudizio, del cammino verso la morte abbracciata con tremore ma con pieno slancio è già acceso.

L’acqua del battesimo in cui Gesù sta per essere battezzato sta già versandosi nel corso della sua vita generosa, estroflessa, una pro-esistenza. La miccia del fuoco è già stata accesa, farà esplodere la vita di Gesù nel dono totale di sé che egli ha però già abbracciato con grande forza interiore dal momento che ha scelto con decisione forte e irremovibile («fece la faccia dura») di dirigersi verso Gerusalemme (Lc 9,51). Essa è il luogo previlegiato per la morte di un profeta: «Però è necessario (dei) che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile (ouk endechetai) che un profeta muoia fuori di Gerusalemme!» (Lc 13,33).

Pace discriminante

Gli angeli annunciano la nascita di Gesù messia, il Figlio dell’Altissimo, il Salvatore, con una proclamazione gioiosa: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14). La folla dei discepoli di Gesù, al momento in cui egli era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi cominciò a lodare Dio per le meraviglie viste, facendo eco al coro degli angeli con cui si era aperto il Vangelo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38).

Un’ampia tradizione biblica presentava il messia come principe della pace (cf. Is 9,5-6; 11,6-9; cf. anche Sal 72,3.7). Eppure Gesù annuncia la dura realtà di una divisione (diamerismon) che egli è venuto a portare. Essa attraversa perfino i luoghi più intimi dell’affettività umana, quelli delle relazioni interfamiliari fra padre e figlio, madre e figlia, nuora e suocera. In una famiglia di cinque persone, la divisione opporrà due persone alle altre tre.

La venuta di Gesù e, con essa, quella del Regno, è una realtà che supera anche i beni familiari voluti, benedetti e custoditi dal Dio creatore anche con leggi molto severe. Di fronte alla persona e alla proposta di Gesù, i legami familiari possono però patire una divisione, causata dall’adesione di fede o no alla sua persona e al vangelo. Nel campo della fede ognuno ha infatti la propria responsabilità personale, insurrogabile da qualsiasi altra persona o relazione di natura familiare, affettiva, sociale.

Gesù ha sempre protetto e custodito il matrimonio e la famiglia con la sua vita “nascosta” per trent’anni a Nazaret, con il suo atteggiamento complessivo e il suo insegnamento. Ha confermato, tra l’altro, il divieto del divorzio, risalendo alla volontà originaria del Creatore, all’inizio (Mt 19,1-12; Mc 10,1-12). Gesù è felice di riconsegnare vivo il figlio unico alla vedova di Nain (Lc 7,11-17) e di ridonare viva la figlia al capo della sinagoga Giaìro (Lc 8,40-42.49-56).

Questione seria

Nel campo della fede, però, ognuno ha la propria responsabilità, non delegabile ad altri, nemmeno ai familiari. Gesù profetizza da subito quello che è avvenuto, purtroppo, lungo tutti i secoli successivi: genitori pieni di fede e figli totalmente lontani da un discorso di adesione a Gesù; figli impegnati nel campo delle fede e nelle attività ecclesiali (anche con le scelte totalizzanti della vita claustrale e contemplativa), con genitori totalmente indifferenti a queste scelte, se non addirittura contrari. Fiumi di lacrime sono stati tristemente versati, spesso da parte dei genitori, a partire da Monica madre di Agostino fino ai nostri giorni.

La divisione che Gesù prospetta è realistica, e realizza la triste profezia di Mi 7,6. Certamente essa non deve essere però vissuta ignorando l’insieme dell’insegnamento impartito da Gesù: amore, accoglienza, perdono, tolleranza, amore fra le varie componenti familiari, comunione fra le varie famiglie. Un insegnamento costante di Gesù e degli apostoli in tutti gli scritti del Nuovo Testamento.

La vita di fede è una questione seria. Gesù chiama i discepoli ad amarlo più delle persone care: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).

Abbracciare la persona di Gesù e la sua proposta di vita porta però la pace al discepolo e, tendenzialmente, essa si deve estendere per contagio anche a tutte le persone che, di fatto, non condividono lo stesso cammino di fede.

Chi sceglie Gesù non spezzerà alcun legame di amore e di affetto, ma li ritroverà sublimati in un ordine che dona ad essi la giusta prospettiva e importanza.

Li ritroverà moltiplicati, ingigantiti e sublimati in qualità.

Cento volte tanto (Mc 10,30).

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