XXI Per annum: Il maggiordomo fidato

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Is 13–15 riporta lunghi capitoli di oracoli contro le nazioni (Is 13–25), che ricordano a tutti il potere universale di YHWH del popolo ebraico. YHWH ha, infatti, una parola sovrana da dire a tutti i popoli.

Scorrono sotto gli occhi babilonesi, assiri, filistei, moabiti, i siriani e gli abitanti del regno di Israele, gli etiopi, gli egiziani e gli arabi. Is 22,1-14 è un oracolo diretto contro Gerusalemme, per una gioia vissuta fuori posto.

Avvenimenti positivi del VII secolo (liberazione improvvisa e provvidenziale di Gerusalemme dall’assedio di Sennacherib) si sovrappongono a momenti disastrosi del sec. VI, con la distruzione della città da parte dell’esercito babilonese, di cui fanno parte anche le componenti militari prestate dalle popolazioni dell’Elam. Non è il caso di danzare di gioia e fare braciolate mentre le mura della città crollano. Dal popolo si passa alla città, dalla città lo sguardo si concentra su un singolo, un boiardo del palazzo regale.

Boiardo palloso

Esempio tipico di comportamento fuori luogo, sopra le righe, è quello di un funzionario di corte, di nome Shebna, un sōkēn (22,5), che è arrivato velocemente (in modo più o meno corretto) alla carica di maggiordomo (lett. “colui che è sopra la casa”). Un parvenu. Rispetto alla lettura liturgica, per seguirne le vicende occorre (come spesso si deve fare!) ampliare i versetti biblici da leggere, iniziando dal v. 15.

Diventato ricco e potente troppo in fretta, Shebna si è fatto annebbiare gli occhi dall’orgoglio e dalla millanteria. Non possiede terreni o tombe di famiglia, eppure s’è fatto scavare un sepolcro in alto sulla roccia, la propria tomba sulla roccia che probabilmente sovrasta la Valle del Cedron a Gerusalemme.

Orgoglio e millanteria saranno pagate care. YHWH rivolge contro di lui, attraverso il suo profeta Isaia, l’unico oracolo di disgrazia contro un singolo personaggio in tutta la letteratura profetica.

Attaccato alla poltrona, occupata più o meno legalmente, più o meno meritatamente, si vedrà “sloggiato” dal seggio, allontanato con un gagliardo “spintone” dalla carica posseduta. Sarà rotolato via come una grossa palla di lardo, lui e la tutta sua sbruffoneria, sui suoi carri che facevano la sua gloria («le tue carrozze di gala», Alonso Schökel), ma che invece erano la vergogna della corte regale. Sarà rotolato via verso una terra ampia, dove ci sarà ampio spazio per la sua boria, ma non ci saranno palazzi in cui intrallazzare. I deserti dell’Assiria gli faranno sbollire le sue manie di grandezza e i deliri di onnipotenza…

Piolo regale (in)affidabile

Al posto del tronfio Shebna, YHWH convocherà al suo servizio, come suo servo (‘abdî) – e non padrone di se stesso –, Eliakìm, figlio di Chelkìa. Lo rivestirà delle vesti e della cintura simbolo della sua carica e del potere tolte all’inetto e altezzoso destituito e gli darà in mano il governo/memšeltekā.

Egli sarà un funzionario che avrà a cuore veramente le esigenze della popolazione di Gerusalemme e di tutto il regno di Giuda, venendo loro incontro con efficacia politica e sociale attenta ed efficace («sarà un padre»).

YHWH gli metterà sulle spalle la chiave del potere di addetto alla reggia. Sarà lui ad avere la potestà di fissare gli appuntamenti del re, di strutturare la sua agenda. Egli farà entrare chi vuole e non farà entrare chi non vuole. YHWH lo fisserà come un piolo/yātēr – quelli indispensabili, che fissano le tende dei nomadi, assicurando stabilità e sicurezza – in un luogo solido, inamovibile/affidabile/ne’ĕmān. Eliakìm diventerà un anello della discendenza regale, e sarà motivo di orgoglio e di gloria per tutto il casato.

Lo sguardo del profeta si amplia ad abbracciare una discendenza regale dai tratti messianici, fedele al Signore e a servizio completo del popolo. Il “servo” Eliakìm sarà un piolo affidabile al quale, come si faceva nelle case contadine qualche decennio fa, si appendevano gli abiti e gli attrezzi da lavoro, gli utensili di casa e ogni cosa che non doveva stare per terra. Tutti i discendenti (regali) di Eliakìm “saranno appesi/tālû” a lui, come ad un’àncora di salvezza, di solidità, di permanenza stabile sulla terra. Non può non venire in mente l’“appeso/tālûy” al palo che rendeva impura la terra e che andava rimosso entro sera (cf. Dt 22,22-23).

Però anche il piolo affidabile e scelto, piantato in luogo solido e inamovibile, vedrà il giorno in cui si spezzerà, verrà meno alla sua funzione e ridurrà a mal partito coloro che gli si erano affidati, “appesi” a lui. Non sarà un semplice uomo, per dotato che sia, a poter “reggere” in alto gli uomini, perché non siano “sommersi”, ma “salvati”. Un uomo speciale dovrà nascere e assidersi a pieno diritto sul “seggio glorioso” della croce. A quell’“appeso” potranno guardare con fiducia tutti gli uomini (cf. Gv 12,33; 19,19,37) e trovare gloria nel fuoco d’amore del suo cuore.

Ma voi, chi dite che io sia?

Dopo la seconda moltiplicazione dei pani (in terra pagana, a nord-est del mare di Galilea, Mt 15,32-38), Gesù sale in barca e si reca nella regione di Magadàn (con tutta probabilità Magdala), in terra giudaica, sulla sponda occidentale del mare. I farisei e sadducei lo insidiano con le loro richieste di un segno (16,1-4) e Gesù mette in guardia i suoi dal loro lievito che fa marcire le cose (Mc dirà di guardarsi dal lievito dei farisei e degli erodiani).

Stando in mezzo al mare di Galilea, si può vedere a sud-ovest Tiberiade, capitale della Galilea degli erodiani e, a nord-est, appollaiata fra due gobbe di cammello (gāmāl) sulle pendici delle colline che strapiombano su di esso, Gamla, sede degli “zelanti” della Legge che, dal 60 in poi, diventeranno un vero “partito/setta”, gli “zeloti”, ribelli a Erode e a Roma, bacino di “terroristi/ribelli/insurgents”, come li si voglia chiamare.

Gesù quindi, nel suo cammino – forse anche per un po’ di riposo, lontano dalle sfiancanti discussioni “religiose” e dalle fatiche imposte dall’attenzione alle necessità della gente – arriva a Cesarèa di Filippo, all’angolo estremo del nord-est della Galilea, all’attuale confine con “la terra di nessuno” e la Siria.

Nel 2 a.C., Filippo – uno dei figli di Erode il Grande –, vi costruì la capitale del suo territorio, la tetrarchia comprendente la Gaulanitide, la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide e il distretto di Paneas (Iturea), chiamandola Caesarea Philippi, in onore di Augusto e per distinguerla da Cesarea Marittima.

Luogo di culto del dio Pan, popolata da gente per lo più pagana, costituiva e costituisce tutt’oggi un’area naturale di grandissimo impatto pacificante, profumata dagli eucalipti e irrigata da una delle tre fonti del Giordano (Hasbani, Banyas e Dan).

Nella frescura del luogo, pieno di verde e di acqua che scorre abbondante, la gente cerca refrigerio, silenzio, riposo. Lo cerca anche Gesù, che ne approfitta per dialogare in tranquilla intimità con i suoi discepoli più vicini, gli apostoli.

Li interroga su ciò che di lui pensa la gente. I Dodici rispondono al sondaggio riportando le percentuali delle opinioni, suddivise equilibratamente fra le grandi figure profetiche del passato recente (Giovanni Battista, appena fatto decapitare nella fortezza di Macheronte da Erode Antipa, fratellastro di Filippo), e di quello più (Elia) o meno lontano (Geremia e altri profeti).

La gente risponde usando i parametri che conosce con maggior familiarità, ma inevitabilmente si rinchiude nel passato, nel già-conosciuto, nel “sicuro”. Avverte qualcosa della novità di Gesù, ma non sa ancora “inquadrarlo” bene, in profondità, nella sua novità. Gesù allora interpella personalmente i Dodici, e ciascuno di noi: “Ma voi, chi dite che io sia?”.

Pietro, portavoce dei Dodici, risponde affermando la messianicità di Gesù, il suo essere Unto dal Padre e inviato nel mondo, anzi il Figlio del Dio vivente in persona stesso. Un figlio con un rapporto particolare, unico, col Padre.

Una definizione corretta e completa quella di Pietro, ma che avrà bisogno di una forte correzione a livello di contenuto concreto delle parole pronunciate e del pensiero retrostante. Gesù lo farà di lì a poco, con parole forti, al limite dell’offensivo (Mt 16,21-28, spec. v. 23), ma che l’evangelista Matteo – interprete/hērmenutēs proprio della predicazione petrina – riporta con onestà, testimoniando in modo chiaro, ancora una volta, l’attendibilità storica dei resoconti evangelici.

Gesù assicura la beatitudine di Pietro per la sua professione di fede (anche lui, dopotutto, umanamente vedeva solo un uomo con grandi poteri spirituali e terapeutici, dalla parola profonda e piena di verità), che va al di là di ciò si può vedere con gli occhi. Il Padre ha suggerito a Pietro quello che poteva comprendere: parole esatte, con contenuto però da perfezionare nelle modalità di esecuzione esistenziale.

Il maggiordomo affidabile

Gesù continua la sua assicurazione di benedizione a Pietro con parole che, a partire da quelle effettivamente dette, sono state approfondite, “limate” e attualizzate con la più profonda intelligenza che lo Spirito, donato dopo la Pasqua, assicurava agli apostoli, agli evangelizzatori, agli evangelisti. Afferma, infatti, la costituzione dogmatica conciliare sulla divina Rivelazione (De Divina revelatione), conosciuta come Dei Verbum dalle parole latine iniziali: «Gli apostoli, poi, dopo l’ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli [= Gesù] aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità (cf. Gv 14,26; 16,13), godevano» (DV 19/901).

Le parole di Pietro sono dono del Padre, non frutto di ragionamenti umani. La comprensione profonda del loro contenuto andrà perfezionata da altri eventi: crocifissione e morte di Gesù, risurrezione, dono dello Spirito pasquale e filiale. Ma fin d’ora, su questa fede nella sua persona ricevuta dal Padre ed espressa da Pietro, Gesù può affermare di fondare la Chiesa, che è sua, e non di Pietro.

La “Chiesa”, che compare solo tre volte nei vangeli e solo nel Vangelo di Matteo, è fondata sulla fede di Pietro, e degli apostoli che rappresenta, nel Messia e nel Figlio di Dio Gesù, che perfezionerà la sua vita pro-esistente con la crocifissione e la risurrezione. Su questa fede, imitando il suo Signore e Figlio di Dio, la comunità ecclesiale diventerà la primizia del regno di Dio, di cui il regno (messianico) di Davide era solo pallida figura e timido inizio.

Il maggiordomo (e la Chiesa tutta) sarà scelto dal Padre (come l’Eliakìm del profeta Isaia) per essere suo servo, avere il suo stesso cuore, condividere pienamente il pensiero e l’amore del suo “re”, del quale ora diventa “maggiordomo” fidato. Le sue decisioni peseranno in cielo e in terra. Egli preparerà un’agenda fittissima al suo Signore, fisserà udienze a ritmo serrato. Ognuno potrà avere accesso continuo alla corte del Re, il “piolo” fissato nel luogo inamovibile e affidabile della croce gloriosa. Nessun potere arbitrario insindacabile e borioso sarà ammesso nel maggiordomo, ma piena partecipazione alla mens misericordiosa del suo Signore. Lui ha vinto anche la morte, e quelli che cercano udienza da lui vengono per poter godere della stessa sorte.

Bisogna mettercela tutta per voler restare fuori, senza ottenere udienza, perdono, vita. La possibilità c’è, la libertà umana resta intatta. Ma il maggiordomo ha sempre le braccia spalancate, e non ha nessuna voglia di perdere il posto scostandosi dalla volontà del suo Signore. Lui non è una “palla gonfiata”, ma un moschettone con ghiera, ben agganciato al chiodo di appoggio sicuro. Ne va della vita sua e di quelli che sono “appesi” a lui e al suo Signore.

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