XXII Per annum: La Parola e le tradizioni

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Ordinamenti e decreti

Dopo aver ricordato a lungo la storia di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e il percorso fatto nel deserto per quarant’anni, al termine del primo dei suoi due discorsi riportati dal libro del Deuteronomio (1,6–4,43, 4,44–26,19 [che ingloba il Codice deuteronomico di 12,1–26,15]) i quali precedono la conclusione del Deuteronomio e del Pentateuco (27,1–34,12), Mosè indirizza al popolo di Israele un forte appello a osservare la “Tôrāh/Istruzione” che troverà espressione nei capitoli successivi basandosi sul fondamento delle opere di YHWH compiute nella storia sperimentata da Israele.

Il primo comando è quello di “ascoltare/sāma‘” tutti gli “ordinamenti/ḥuqqîm” e tutti i “decreti/mišpāṭîm” che lo stesso Mosè sta per promulgare nelle steppe di Moab, prima di entrare nella terra della promessa (a lui preclusa da YHWH!). Le due espressioni sono praticamente sinonime e sintetizzano l’insieme del complesso chiamato “Tôrāh/Istruzione” (molto spesso tradotto con “Legge”, cf. Dt 4,44 trad. CEI).

Mosè si presenta come un maestro “che insegna/melammēd (< lmd)” a dei “discepoli/talmîdîm”. Questa introduzione fa sì che tutto ciò che segue diventi un inquadramento scenografico che intende attualizzare il Codice deuteronomico (Dt 12–26), presentato come una promulgazione compiuta da Mosè stesso quale contenuto normativo da osservare in occasione della seconda stipulazione dell’alleanza instaurata per la prima volta a suo tempo al monte Sinai.

Istruzione e vita

Lo scopo dei discorsi di Mosè non è però quello di insegnare delle norme da imparare più o meno a memoria, ma da “fare/‘āśāh” concretamente, mettendole in pratica nella vita quotidiana. Lo scopo ultimo della Tôrāh è quello di permettere al popolo di “vivere/ḥāyāh”.

È evidente che sarà facile per Paolo, nel Nuovo Testamento, osservare che nessuna Torah può dare la vita, ma al massimo custodirla, organizzarla, indicando all’uomo che cosa deve compiere, ma senza dargli la forza di mettertela in pratica. Una Tôrāh – concede Paolo – senz’altro santa, come santo, buono e giusto è il comandamento (Rm 7,12). Buona ma impotente a dare la vita, lasciando l’uomo nella miseria di essere identificato non solo come peccatore, ma anche trasgressore, meritevole di morte.

Una potenza diagnostica, quella della Tôrāh – davvero utile –, ma non curativa e vitalizzante. In sé buona, secondo Paolo, la Tôrāh è stata strumentalizzata dalla Potenza massiccia primordiale del Peccato che l’ha stravolta nel suo scopo di indicazione del bene, per farne uno strumento di incitamento alla sua violazione, così che il Peccato si manifestasse peccaminoso all’eccesso. Fine/compimento della Tôrāh è Cristo, perché la giustizia (il buon rapporto con Dio) sia data a chiunque crede (cf. Rm 10,4 e la complessa riflessione di Paolo in Rm 7,7-35 sulla tragica esperienza dell’uomo senza Cristo rispetto alla gioiosa esperienza della vita cristiana vissuta dal credente in Cristo, descritta in Rm 8,1-39).

Tôrāh e terra della promessa

L’osservanza degli ordinamenti e dei decreti intende far vivere e far entrare nella terra che YHWH, il Dio dei padri di Israele, sta per dare/donare (“è donante/nōtēn”) al popolo che vi entra per “prenderne possesso/yāraš”.

La terra è un dono di YHWH, che potrà essere mantenuto solo a condizione di un livello morale molto alto di comportamento rispetto allo standard dei popoli circonvicini. Essa non dovrà mai essere pensata come una realtà posseduta magicamente in perpetuo per diritto acquisito.

La terra è di Dio, e Israele può anche perderla se il suo comportamento non sarà all’altezza delle aspettative di YHWH. «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» afferma Lv 25,23.

Il dono di essa rimarrà sempre un dono condizionato, collegato com’è alla ricerca di un rapporto equilibrato e giusto con YHWH (e con gli uomini!): «La giustizia e solo la giustizia seguirai [meglio: “cercherai/perseguirai/agognerai/tirdōp”], per poter vivere e possedere la terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti».

Tôrāh scritta e Tôrāh orale

La “formula del canone” espressa in Dt 4,2 proibisce di aggiungere o di togliere alcunché alla Tôrāh (cf. anche Dt 13,1). Essa non va probabilmente intesa nel senso di un obbligo a mantenerla invariata, senza possibilità alcuna di aggiungervi qualcosa. Volendo regolare tutti gli aspetti della vita quotidiana del fedele ebreo, la tradizione legislativa giudaica (e cristiana) successiva conoscono difatti numerose tradizioni giuridiche che “aggiungono” dei precetti e delle interpretazioni della Tôrāh, sia in forma scritta sia soprattutto orale.

Per i farisei, la legislazione “orale/še be‘al peh” è ritenuta avere lo stesso valore vincolante di quella scritta (credenza non accettata dalla corrente religiosa dei sadducei, dalla quale venivano scelti i sacerdoti). Sia Dt 4,2 che Dt 13,1 sembrano essere collegati al divieto di seguire culti diversi da quello di YHWH, cioè culti idolatrici. I due versetti «sono da leggere quindi non come precetti generali, ma come indicazione di valore teologico. Dt 4,2 non proibisce tuttavia solo di aggiungere precetti che permettano l’idolatria, ma proclama anche l’immutabilità di JHWH. Il suo culto e il suo essere non possono essere interpretati a piacere» (S. Paganini).

Tôrāh e sapienza

La motivazione dell’obbedienza dei comandi insegnati da Mosè è espressa nei vv. 6-8. Occorre “custodirli/preservarli/šāmar” e “farli/metterli in pratica/‘āśāh”, perché questo sarà oggetto di meraviglia da parte dei popoli circonvicini, che riconoscono il rapporto privilegiato di vicinanza (v. 7: “Dio vicino/’Ĕlōhîm qerōbîm”) che lega Israele a YHWH. Pur non vivendo ancora un monoteismo radicale, Israele accetta come propria divinità solo YHWH (monoyahwismo). Le altre divinità non vengono negate.

I popoli ammireranno non solo Israele, ma soprattutto YHWH. Ammireranno la “sapienza/saggezza/ḥōkmāh” e l’“intelligenza/bînāh” del popolo, riconosciuto “saggio/sapiente/ḥākām” e “intelligente/nābôn”. Egli vive infatti i comandi del suo Dio che contengono molte normative le quali tentano di migliorare le condizioni di vita degli stranieri, proibiscono la vendetta collettiva e non prevedono la comminazione della pena capitale per reati contro il patrimonio. «La legge promulgata da Mosè è giusta perché si propone di sostenere anche gli interessi di categorie socialmente svantaggiate (Dt 24,17-21)» (S. Paganini).

Dio è vicino al suo popolo ogni volta che lo invoca. È questo a fare “grande/gādôl” la “nazione/gôy” di Israele. Sarà grande anche perché appoggiato dalla forza (anche militare?) che YHWH gli assicura. Ma la sua esistenza nella terra del Donatore è legata alla fede e alla pratica morale di giustizia verso YHWH e verso gli uomini. Sarà questo, e solo questo (cf. Dt 16,20!) a farlo grande e ammirato di fronte all’assemblea dei popoli (anche oggi…).

Tôrāh e siepe

Ambientato nel villaggio galilaico di Gennèsaret (cf. 6,53-56), il serrato confronto ricordato in Mc 71,1-23 vede protagonisti Gesù e alcuni farisei e scribi – esperti nella Tôrāh e nel diritto che regolamentava la vita concreta degli ebrei – scesi appositamente da Gerusalemme (nota probabilmente enfatica per sottolineare l’importanza massima della discussione e della conclusione tratta da Gesù).

Il confronto parte dall’osservazione, da parte degli interlocutori di Gesù, della mancata osservanza, da parte dei suoi discepoli, delle norme di purità legali previste in occasione della consumazione dei pasti.

L’evangelista annota anche molti altri casi simili previsti dalla legislazione farisaica, che intendeva onorare YHWH in tutti i momenti della giornata e in tutte le azioni quotidiane attraverso l’osservanza di un’infinita serie di regole (una vera e propria “siepe”) che esplicitavano e “proteggevano” i comandamenti più importanti (cf. il trattato della Mishnah “Pirqé Abot/I detti dei padri”, il cosiddetto “vangelo dei farisei”).

La violazione della “siepe” intendeva impedire la violazione dei comandamenti più importanti/pesanti.

L’evangelista annota la fedeltà con la quale gli ebrei “si attengono/stringono con forza la tradizione degli antichi/kratountes tēn paradosin tōn presbyterōn”).

Puro e impuro

La questione riguardante ciò che è “puro/katharos” e ciò che invece è “impuro/comune/koinos” è fondamentale nella religiosità ebraica. La purità cultuale richiesta non va irrisa e tacciata da nessuno come puro esteriorismo. «L’essere puro in modo rituale non è completamente separabile da una purezza etica e si colloca sempre nel quadro dell’alleanza con Dio. Il rispetto delle leggi di purità mantiene il fedele nella comunione dell’alleanza» (B. Standaert).

I farisei intendevano promuovere anche fra i “laici” le norme di purità che regolavano la vita dei sacerdoti nel tempio, per promuoverne l’elevatezza spirituale e la massima comunione con YHWH. Il popolo stimava molto la religiosità dei farisei, ed essi costituivano la corrente religiosa più influente al tempo di Gesù.

C’è sempre da chiedersi, in ogni caso, come l’insieme delle norme da loro fissate non finisse per “ingabbiare” la vita quotidiana delle persone, rendendola alla fine “impossibile” e in perenne stato di impurità rituale, che andava superata con appositi riti da praticare nel tempio.

Gesù conosce bene la complessità della questione e il pericolo di ferire e di dimenticare l’uomo proprio nel benemerito intento di onorare Dio! Ricorderà in modo “scandaloso” e innovativo – anche se già insegnato in maniera più debole da alcuni rabbi del suo tempo – che «il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

L’immersione (v. 4 baptisōntai) delle mani nell’acqua o l’uso della quantità necessaria per lavarsi le mani (v. 3 pygmēi/lat. pugno) era regolata dal trattato mishnico Yadaim 4,6-8. La lista degli oggetti da lavare e purificare porta al grottesco l’attenzione al dettato della tradizione. La menzione dei “letti” è incerta testualmente. La duplice menzione del fatto che si tratti di “tradizione” (vv. 3.4) prepara già la risposta che Gesù fornirà alla domanda dei farisei riportata nel v. 5 (che sottolinea ulteriormente la necessità di “camminare/comportarsi/peripateō” secondo i dettami tradizionali). L’interrogazione avanzata evidenzia chiaramente che si tratta di una questione pratica di condotta etica/hālākāh (<hālak = camminare, comportarsi eticamente).

Cuore e labbra

Gesù risponde alla domanda meravigliata e scandalizzata degli interlocutori con una citazione biblica che approfondisce e fonda saldamente nella parola di Dio la sostanza del discorso. Gesù non condanna o disprezza il suo popolo, ma instaura una feroce polemica intrafamigliare con uno stile di discussione diatribica di tipo rabbinico ben nota agli interlocutori, che svolgevano “per mestiere” la discussione sui contenuti anche minimi della Tôrāh e delle norme della tradizione orale.

Gesù cita con piena approvazione quanto detto da Is 29,13 (citato secondo la traduzione greca dei LXX, leggermente diversa dal testo ebraico masoretico), ma etichettando fin dal principio gli interlocutori con l’aggettivo “ipocriti/hypokritai”: gente che si mette sul volto una maschera per interpretare un ruolo a teatro, nascondendo la loro vera identità. Gesù è molto interessato al fatto che il profeta cita il “cuore/kardia” delle persone lontano da YHWH, nel momento stesso in cui intende lodarlo col movimento delle labbra.

Gesù rimprovera gli interlocutori di distorsione della religiosità, con opposizione fra interno ed esterno (cuore/labbra). Il centro decisionale e di decisione di coscienza non è allineato con quello dell’esternazione religiosa del rapporto orante con YHWH. C’è schizofrenia nell’esercizio più alto della propria religiosità. Il culto rivolto verso l’alto, verso YHWH, risulta “vuoto/inutile/matēn”. L’insegnamento orizzontale ai fratelli è invece costituito da puri “precetti umani/entalmata anthrōpōn”. Gli “antichi” diventano in Isaia semplici “uomini”, e la ricorrenza del sostantivo entalmata è sufficiente a Gesù per instaurare un rapporto fra il rimprovero del profeta e la richiesta degli interlocutori di attenersi alla tradizione degli antichi.

L’attenzione esasperata alle minuzie della Tôrāh e della tradizione orale finisce per far cadere, anche involontariamente e al di là di ogni retta intenzione, in un formalismo religioso schizofrenico rispetto alle realtà più importanti, già criticato aspramente nella Bibbia. Basta leggere i rimproveri contenuti in Is 1,10-20, che però, non facendo parte della Tôrāh vera e propria (cioè i primi cinque libri della Bibbia), era tenuto in minor considerazione in quanto risultato di una rivelazione non diretta come quella fatta a Mosè, ma solamente indiretta. È evidente come il pericolo del formalismo e dell’esteriorismo sia stato e possa essere tuttora un tranello costante in cui può cadere anche la comunità cristiana dei nostri giorni.

Gesù avvicina testo biblico e domanda dei farisei e degli scribi con un procedimento che si avvicina alla gezarah shawah, cioè l’accostamento di due testi che hanno una parola in comune, per ricavarne un insegnamento nuovo.

Il comando di Dio annullato

Gesù però non rimane mai su un terreno puramente giuridico-casuistico, ma ricerca la volontà originaria del Padre nel momento in cui donò al suo popolo la Tôrāh. Egli rimprovera di “mettere da parte/tralasciare il comandamento di Dio/aphentes tēn entolēn tou theou” per “aderire a/tenere con forza/krateite” (cf. v. 3) la tradizione degli uomini. Ribadisce poi la sua forte affermazione sottolineando che addirittura si giunge ad “annullare/athetein” il quarto comandamento (quinto per la tradizione giudaica), quello che impone di onorare i propri genitori (cf. Es 20,12), citando l’istituto del qorban (termine tecnico aramaico che Mc traduce con dōron): si tratta di un’offerta o un’oblazione per il culto (cf. Lv 2,1.12.13LXX), una pratica consistente nel ritiro di certi beni dal loro uso profano e nel dichiararli qorban, cioè “come se fossero offerti”. In questo caso i genitori non potevano più reclamare questi beni per se stessi.

Facendo così, chi osserva in tale modo questa pratica e questa scelta giuridico-liturgica “annulla/akyrountes” (v. 13, sinonimo di atheteite del v. 9) la parola di Dio (cioè la Tôrāh con al suo centro le Dieci Parole di Es 20) con la tradizione tramandata «da voi». Una tradizione da cui Gesù prende le distanze.

Gesù contrappone, da una parte, Dio e la sua parola e, dall’altra, l’uomo e le sue tradizioni. Quando, pensando di onorare Dio, si ferisce e si dimentica l’uomo, creato a sua immagine (tanto più se genitori, fatti oggetto di un comandamento specifico di YHWH), la tradizione è sbagliata. Occorre sempre mantenere la centralità e la primazialità della parola di Dio, distinguendola dalle sue esplicitazioni e applicazioni periferiche e provvisorie di ordine legale e rituale. Ci si può chiedere quanto le tradizioni religiose, anche cristiane, valorizzino la parola di Dio e permettano di ascoltarla più in profondità e più fedelmente.

Dentro e fuori

Gesù convoca a sé di nuovo la folla che in precedenza era accorsa a lui (Mc 6,54, non nominata espressamente). Ad essa chiede ascolto e comprensione profonda, intelligente. Il suo pronunciamento ha la forma di un detto parabolico, di un proverbio, un māšāl. Anche qui si gioca sulla contrapposizione fra interno ed esterno (come in precedenza fra cuore e labbra). Gesù ha accennato spesso a questa contrapposizione, pronunciando delle invettive pesanti contro scribi e farisei (cf. Mt 23,25-27 e Mt 6,5-18 sull’insegnamento circa il compiere “nel segreto” le tre colonne della religiosità giudaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno).

Per Gesù, l’azione di “rendere sporco o impuro ritualmente/koinoun” (da cui koinos = profano, comune) non deriva dalle cose che entrano nell’uomo dall’esterno ma da ciò che esce da lui. Già l’ebraismo afferma che la distinzione fra il puro e l’impuro cambia natura con l’arrivo del Messia. Si ricorda come anche che «Sabbatai Tsevi (1626-1676), nella sua coscienza messianica, ha cominciato a mangiare pubblicamente del grasso, attestando con questo gesto di essere il Messia» (B. Standaert).

Questo insegnamento Gesù lo ribadisce nell’istruzione che egli dà ai suoi discepoli “nella casa”, cioè all’interno dell’ambito dell’edificazione del popolo messianico rinnovato. Dapprima egli elimina il tabù che regna attorno ad alcuni elementi (vv. 18-19), rinnovando e portando a compimento in tal modo la Tôrāh impartita provvisoriamente da Mosè.

L’evangelista afferma che, in tal modo, Gesù dichiarava puri tutti gli alimenti. Una convinzione che stentò a entrare nella coscienza della Chiesa: si veda l’esitazione di Pietro in At 10,14 e la risposta della voce dal cielo (la bat qôl degli ebrei) nel v. 15: «Ciò che Dio “ha purificato/ekatharisen”, tu “non chiamarlo profano/mē koinou”».

L’incidente di Antiochia e le decisioni dell’assemblea di Gerusalemme (cf. Gal 2,11-14 e At 15,1-35) testimoniano che la problematica era ancora scottante nel 49 d.C. in rapporto alla possibile comunanza e accoglienza reciproca alla mensa tra giudeo-cristiani ed etnico-cristiani.

Sub Verbo

Per Gesù non esistono impurità cultuali. Le uniche impurità sono di ordine etico e provengono dal centro cognitivo e decisionale dell’uomo, “dal suo interno/esōthen” decisivo: il cuore/kardia (v. 21, che riprende il kardia iniziale del v. 6).

I dodici vizi elencati esemplificativamente e con scopo riassuntivo totalizzante (“dodici”) da Gesù , “le cose cattive/panta tauta ta ponēra”, escono dall’interno dell’uomo. Sono “propositi cattivi/hoi dialogimoi hoi kakoi” che nascono da decisioni etiche dell’uomo, e non collegate meccanicamente a tabù alimentari o a pratiche tradizionali frutto di giurisprudenza umana che cerca di interpretare al meglio la volontà di Dio.

Gesù è l’interprete plenipotenziario e definitivo, escatologico, della volontà del Padre. L’intento che lo muove è religioso e non giuridico-casuistico.

Il rapporto tra la parola di Dio e la tradizione umana (che non sempre va a formare la Tradizione con la T maiuscola) resterà sempre problematico da risolvere nei casi pratici.

Resta decisivo il fatto che la Chiesa rimane sempre sub Verbo, sotto la Parola (come detto autorevolmente anche dal magistero) che la guida, la precede e rimane sempre al di sopra di essa perché nella totalità della sua vita, in tutto ciò che crede e celebra (la Tradizione) non si rimanga nell’immobilità e nella pura ripetizione del già detto e vissuto, ma si sperimenti il dinamismo che la Parola immette nella Tradizione e si possa sperimentare la freschezza del vivere filiale dei discepoli di Gesù, che vivono nel tempo “tenendo alta/epechontes la Parola di vita (cf. Fil 2,16), che tutto giudica e non è giudicata da nessuno.

«La parola di Dio non è incatenata» (2Tm 2,9).

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).

«In lui [= il Verbo] era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4).

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