XXIV Per annum: La gioia di Dio

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Ogni volta che ci lasciamo convocare dalla madre Chiesa per la celebrazione domenicale dell’eucaristia noi, da un lato, confessiamo la nostra situazione di peccatori, dall’altro, però, sappiamo che ci accostiamo a Dio il quale, come fuoco divorante, è in grado e desidera offrirci il suo perdono per riammetterci alla piena comunione con se stesso.

Ecco un altro richiamo dell’autore della lettera agli Ebrei: «Perciò noi, che possediamo un regno incrollabile, conserviamo questa grazia, mediante la quale rendiamo culto in maniera gradita a Dio con riverenza e timore; perché il nostro Dio è un fuoco divorante» (Eb 12,28-29).

 

1. La prima lettura, tratta da una pagina, a dir poco drammatica, del libro dell’Esodo, ci induce a meditare su un evento estremamente problematico della vita del popolo eletto: la costruzione e l’adorazione del vitello d’oro. Un evento che ci interpella come singoli e come comunità anche oggi.

Perciò ci domandiamo: come ha potuto accadere tutto ciò, dopo che il Signore Dio aveva rivelato il suo nome al suo servo Mosè e a tutto il popolo eletto? Questo peccato di idolatria incide profondamente sugli sviluppi della storia della salvezza ed esercita un influsso anche sulla nostra storia personale e comunitaria.

Qui emerge la radicale opposizione tra il vero Dio e gli idoli, che sono dèi falsi e bugiardi. Ma il popolo di Israele ha potuto cadere nel grave peccato della idolatria per due semplici motivi: perché non sopportava il silenzio di Dio e la lontananza di Mosè; e poi anche per la sua insaziabile voglia di avere un Dio vicino, quasi palpabile, alla stregua di quanto facevano i popoli pagani. Quando in un popolo questi due motivi prendono il sopravvento, allora esso si crea i suoi dèi. Gli idoli, infatti, sono una libera creazione dell’uomo. Egli se li fa a sua immagine e somiglianza e, adorando questi falsi dèi, l’uomo finisce con l’adorare se stesso. In questo consiste la gravità del peccato di idolatria.

Ma quello che più colpisce in questa pagina è la forza mediatrice di Mosè. A lui non interessa diventare capo di un altro popolo, sia pure più numeroso e più devoto. Egli ama questo popolo e desidera che anche il Signore Dio lo risparmi dal giusto castigo per il peccato commesso. Sarà pure «un popolo dalla dura cervice» Israele, ma è sempre il popolo che Dio ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Quanto è grande questo Mosè, che induce persino Dio a cambiare parere! La preghiera che egli rivolge a Dio è un capolavoro di intercessione.

2. Il salmo responsoriale corrisponde al famoso Miserere, uno dei salmi penitenziali solitamente attribuito a Davide dopo che ebbe commesso il duplice peccato di adulterio e di omicidio.

Una guida alla retta interpretazione del salmo ci è offerta dal versetto: «Ricordati di me, Signore, nel tuo amore». Solo a partire dalla certezza che l’amore di Dio per noi non viene meno, è possibile assaporare la spiritualità del salmista il quale, pur gravato dal macigno del suo duplice peccato, mira direttamente al cuore di Dio. È qui che emerge la sapienza del peccatore; una sapienza che raggiunge i vertici della mistica. Paradossale ma vero: sono questi i miracoli che sa operare la misericordia di quel Dio che non si è mai stancato di manifestare il suo amore misericordioso anche con un popolo ribelle e dalla dura cervice.

Così infatti inizia la sua preghiera: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore, nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità». Per Davide, dunque, Dio è una sintesi di pietà, di misericordia e di bontà.

Solo in un secondo momento Davide guarda a se stesso e si presenta come peccatore: «… cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Solo dopo la confessio fidei, la confessio peccatorum porta al pentimento e conduce alla comunione con Dio. Solo chi riconosce nel suo Dio un padre infinitamente misericordioso, può arrivare a gustare la grazia e la gioia del perdono.

Ma Davide sa con certezza che, quando Dio interviene, interviene da Dio, cioè con tutta la potenza del suo amore misericordioso. Dio interviene fino a cancellare il peccato, anzi fino a “creare” nel peccatore un cuore puro, un cuore nuovo.

3. La seconda lettura è tratta dalla prima lettera dell’apostolo Paolo al suo discepolo e collaboratore Timoteo. Lo vuole educare a continuare la sua opera di evangelizzazione: stavolta lo fa a partire da una rilettura della sua stessa vita, a partire dall’evento straordinario e decisivo di Damasco. Timoteo sarà un vero e autentico servitore del Vangelo solo se avrà compreso l’importanza dell’evento di Damasco nella vita di Saulo.

«Rendo grazie a colui che mi ha resto forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia»: l’umiltà è sorella della verità e Paolo non ha alcun pudore nell’ammettere che in lui ha trionfato la grazia del risorto Signore contro le false certezze di prima.

Egli considera quello che era: «un bestemmiatore, un persecutore e un violento», per poi confessare la sua «ignoranza»: in questo modo Saulo ha ottenuto la misericordia. Egli si presenta come colui nel quale «la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità».

Infine, l’apostolo riassume il suo evangelo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori», ma ritorna ancora sulla sua esperienza personale: «il primo dei quali sono io». Poi, con un tocco personalissimo, afferma: «Gesù Cristo ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità».

4. La pagina evangelica di oggi offre alla nostra meditazione tutto il capitolo quindicesimo del vangelo secondo Luca, un capitolo centrale nell’economia del terzo vangelo: centrale per il messaggio che veicola sulla divina misericordia.

Per comprendere le tre parabole, è assolutamente necessario badare alla circostanza storica indicata da Luca: alcuni farisei e scribi si avvicinarono a Gesù per criticarlo sul suo comportamento con i pubblicani e i peccatori: li accoglieva e mangiava con loro con estrema libertà, senza preoccuparsi delle prescrizioni della Legge.

A loro – ma anche a noi – Gesù rivolge la sua parola, in parte indignata ma certamente carica di passione amorevole. Quello che emerge dalle tre parabole, ma soprattutto dalla terza, è riassumibile in questi tratti caratteristici.

Anzitutto la gioia per il ritrovamento avvenuto, annotando che questa gioia viene direttamente ed esplicitamente attribuita a Dio: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo (oppure: davanti agli angeli) per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».

In un secondo momento, dobbiamo rilevare l’atteggiamento del pastore che cerca la pecora smarrita, della donna che non si dà pace fin quando non ha ritrovato la moneta perduta. Ma soprattutto del padre misericordioso, che attende con impazienza il ritorno del figlio prodigo, anzi gli va incontro e scoppia di gioia nel vederlo ritornare alla casa paterna. Sono tutte immagini di Dio, che vive la sua paternità soprattutto nel desiderare il ritorno di chi si è smarrito per le strade del mondo.

Né possiamo passare sotto silenzio l’atteggiamento del fratello maggiore, che dimostra di non aver ancora conosciuto il cuore del padre, pur avendo vissuto molto anni con lui nella stessa casa. Egli non ha compreso che, per vivere da figlio, occorre arrivare alla conoscenza del cuore del padre.

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