XXIV Per annum: Perdonato, perdona!

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Il tema del perdono occupa fortunatamente anche le letture di questa domenica, radicando sempre più profondamente nel cuore del credente l’indispensabilità di questo atteggiamento umano e cristiano, per agguantare la pace interiore, raggiungendo la conformazione al cuore di Gesù e a quello del Padre che lo ha inviato.

L’impossibile coesistenza: collera e perdono

Il libro del saggio nonno Gesù Ben Sira, composto in ebraico a Gerusalemme all’inizio del II sec. a.C. fu tradotto in greco dal nipote Ben Sira ad Alessandria nel 132 a.C. Il testo originale non entrò nel canone ebraico e andò in disuso. Se ne riscoprirono dei frammenti in Egitto, nella sacrestia/ripostiglio/genizah della sinagoga del Vecchio Cairo – dove venivano riposti i volumi della Torah ormai inservibili –, a Qumran e a Masada. Il libro conobbe una versione greca breve (ritenuto dagli studiosi più autorevole e adottato dalla CEI nel 1971 e 1974) e una greca lunga (GrII), adottato come base dalle versioni latine della Vetus Latina, della Vulgata e della Nova Vulgata (1979; 1986).

La Chiesa accetta come canonico il libro, senza precisare la lingua e non escludendo la seconda versione greca, quella lunga. La versione CEI del 2008 (editata nella Bibbia di Gerusalemme dalle EDB) riporta entrambe le versioni: il testo breve in tondo, le aggiunte del testo lungo in corsivo. In nota sono riportate le varianti sia dell’ebraico sia della Neovolgata. Il titolo latino del libro, Ecclesiasticus (liber), appare già negli scritti di san Cipriano nel III sec., il che sottolinea l’uso ufficiale che ne faceva la Chiesa; esso è rimasto nell’uso abituale. Oggi comunque si impiega per lo più la titolatura “Siracide”.

La pericope del Siracide ammonisce sapienzialmente chi desidera diventare saggio e rimanere nella vera fede di Israle, nell’adorazione del Dio Altissimo che ha sancito un’alleanza/diathēkē con il suo popolo.

Il saggio espone con cristallina chiarezza il proprio ragionamento, sottolineando l’illogicità, l’incoerenza e l’impossibile coesistenza di atteggiamenti presenti nel cuore di chi non “perdona/aphiēmi” il proprio “prossimo/plēsion.

Rancore e ira sono “cose orribili/bdelygma”, cose disgustose, ripugnanti, abominazioni che rendono impuro e l’“uomo peccatore/anēr amartōlos” ne “è padrone/egkratēs”, le possiede (restandone posseduto!). È un perfetto e paradossale “encratita”, che tiene tutto per sé, un vero con-tinente, che trattiene in sé il proprio veleno che lo distruggerà. È un continente… dalla misericordia. Ha sbagliato completamente l’obiettivo per essere felice nella propria vita.

Chi si vendica da solo, troverà il Signore a vendicare l’offeso, perché la “vendetta” appartiene solo a Dio e va lasciata solo a lui (cf. Dt 32,25; Pr 24,29; Eb 10,30).

Solo il perdono al proprio fratello può aprire la strada a un cuore libero che diventi recettivo della “guarigione/iasis” che solo il Signore può concedere. È illogico e impossibile – secondo il Siracide – pretendere di ottenere una guarigione dell’animo senza prima aver perdonato il fratello, anch’egli figlio, “suddito” dello stesso Signore/kyrios.

L’autore di Sir fa un discorso a partire dal puro dato antropologico, impiegando con frequenza il semplice sostantivo “uomo/essere umano/anthrōpos”.

Come può “pregare, chiedere perché ne ha bisogno/deomai” per i propri “peccati, i bersagli mancati/hamartiai” un uomo che non “ha misericordia/echei eleos” per il suo “simile/homoion”?

Egli commette uno sbaglio madornale di prospettiva. Non si rammenta di essere un uomo completamente connotato dalla “carne/fragilità caduca/sarx” e non si accorge che, tagliando i ponti con il proprio simile, un uomo fragile come lui, si preclude la strada per ottenere “l’espiazione/exilaskō” dei propri peccati, che solo il Signore (!!) può attuare, secondo il pensiero biblico.

Colui che non perdona all’uomo suo simile si dimentica il fatto primordiale di essere entrambi creature del Signore, l’Altissimo, che li rende in tal modo figli, fratelli, consimili nella figliolanza, ancorché fragile, caduca ed evanescente (sarx).

Ricordati!

L’incapacità e la non volontà di perdonare il proprio simile ha la sua radice nel peccato originale della dimenticanza. Dimenticanza della propria comune origine in Dio, smemoratezza della propria radicale caducità e del proprio orientamento verso la morte unita alla “dissoluzione/katapthora”, se non corretta in tempo dalla scelta di smettere di “essere ostile, nemico/odiare/echthrainō”, trattando sempre le persone come dei potenziali “nemici/echtros.

Il saggio Siracide ammonisce fortemente due volte chi vuol mettersi alla sua scuola e riuscire in tal modo nella vita, comportandosi secondo l’arte del buon vivere, l’ideale perseguito dai libri sapienziali biblici.

«Ricordati!», ammonisce il Siracide (vv. 6.7). Ricordati dei momenti finali della tua vita, ricordati della dissoluzione e della morte, ma soprattutto ricordati dell’“alleanza/diathēkē” dell’Altissimo con gli uomini. Ricordati dei suoi comandamenti, che ti sono stati dati per mantenerti nella vita che hai ricevuto da lui. Un’alleanza fra impari, un’alleanza gratuita e immeritata, benevola, misericordiosa e paziente.

Allora anche tu, se vuoi diventare saggio e vivere bene, “guarda lateralmente, trascura, disdegna, non tenere in conto, lascia correre, tollera, passa sotto silenzio/paroraō” “l’ignoranza/la non conoscenza/lo sbaglio/il comportamento errato/agnoia” degli esseri umani simili a te.

Questa è la “continenza” giusta del vero “continente/egkratēs” (27,33): “non-tenere-in-conto” l’errore del prossimo, spesso frutto di ignoranza e di fragilità (agnoia).

Commosso, il Signore condonò

Vari sono i titoli proposti per questa pericope molto importante, con elementi in comune ma sottolineature diverse che possono diventare piste complementari di lettura. Per una volta – il lettore ci perdoni – ne riportiamo alcuni.

“Parabola del debitore spietato” (BJ; Nuovo Grande Commentario Biblico); “Parabola del servo spietato” (BJ ed. it.; Poppi); “Il debitore spietato” (Luz; TOB); “Il perdono. La parabola dello schiavo spietato” (Gnilka); “La misericordia di un Dio generoso” (Manes); “La parabola del creditore senza misericordia” (Einheitübersetzung); “La grandezza del perdono” (Michelini); “Il pericolo di perdere la grazia” (Schweizer); “Il perdono illimitato” (Mello); “Dialogo con Pietro. La parabola dello schiavo non misericordioso” (De Carlo); “La parabola del re che perdona e del servo spietato” (Fabris); “Parabola del re buono e del servo spietato” (Grasso); “Non bisognava che anche tu avessi compassione del tuo compagno come anch’io ho avuto compassione di te?” (Fausti); “I fratelli e il perdono (18,15-35); “Se mio fratello peccherà contro di me…: la parabola del servo spietato” (Tassin); “Il perdono. Parabola del servo crudele” (Bibbia brasiliana); “Il debitore incoerente” (Gourgues su 18,23-35); “La reviviscenza della colpa e l’eliminazione della remissione del debito – Il servo spietato” (Roose); “La parabola del servo che non perdona” (The Greek New Testament); “Quando il fratello pecca” (D.J. Harrington, su 18,15-35); “Perdono delle offese” (Nueva Biblia Española, su Mt 18,15-35); “Il perdono nel Regno: la parabola del servo spietato” (Sabourin).

Molti titoli ricordano il servo spietato, ma non tutti ricordano il re buono che perdona… (croce e delizia delle titolature!). Gesù parla della logica che vige nel Regno. Così vanno le cose quando il Padre regna sul cuore di tutti gli uomini. Ma questo deve valere anche nella comunità dei discepoli di Gesù, la Chiesa, primizia del Regno. E Gesù lo espone con una parabola, una storia che pone una domanda ineludibile, sempre fresca.

L’evangelista Matteo ha percepito benissimo l’importanza del tema del perdono, e ha raccolto nel suo “discorso ecclesiale” (Mt 18) gli insegnamenti sul perdono pronunciati da Gesù probabilmente nelle occasioni più diverse.

Il perdono deve regnare nella Chiesa. Che si tratti di una risposta a una colpa di carattere generale (così probabilmente al v. 15) o di un’offesa personale di un “fratello” – quindi condiscepolo – (come lascia intendere la domanda maieutica di Pietro, “contro di me”, seguita dalla sua offerta generosa di perdono, sette volte, contro le tre richieste dalla spiritualità farisaica del tempo), Gesù risponde con un’affermazione esagerata, esorbitante (490 volte), che allude alla necessità continua del perdono nella vita ecclesiale (e di conseguenza nell’agire testimoniale dei discepoli). Un perdono che sradichi totalmente la radice malata della vendetta sproporzionata e bestiale di Lamech (Gen 4,22-24).

La parabola di Gesù, dai tratti paradossali, che interpellano il lettore del racconto, riporta in modo vivido quello che poteva essere avvenuto nel mondo reale e che gli ascoltatori potevano aver ben presente.

Il protagonista della parabola è “un uomo re/un re/antrōpos basileus” (v. 23, non ricordato da tante titolature della pericope!), che si rivela ben presto essere però “il padrone/il Signore/il Signore (Gesù risorto)/kyrios”, che si identifica con il Padre suo (v. 35).

Il re ha degli “schiavi/servi/douloi” debitori e vuole chiudere i conti con loro. Il primo ha un debito esorbitante, impossibile da estinguere, pur con tutta la buona volontà di questo mondo. Per aver contratto un debito di quell’entità, si doveva trattare probabilmente di uno “schiavo/servo/funzionario/ministro” di altissimo rango.

Facciamo dei calcoli puramente indicativi. Posto un denaro quale paga giornaliera del salariato, e fissato il rapporto denaro/talento a 1/6.000, il primo schiavo debitore deve al suo padrone/signore regale la bellezza di 10.000 talenti (dai 20 ai 40 chili d’argento), cioè 60.000.000 denari, pari a 164.383 anni lavorativi, corrispondenti all’incirca a 2.739 vite lavorative di 60 anni o a 4.109 vite lavorative di 40 anni ciascuna.

Ponendo € 1.500 la paga mensile di un salariato, il primo debitore deve al suo padrone, per ripagare i suoi 1.972.596 mesi lavorativi di debito, la somma astronomica di € 2.958.894.000. Si ricordi che l’introito globale delle tasse raccolte nella tetrarchia di Erode Antipa assommava a 900 talenti annui.

Gesù cita la cifra più alta allora concepibile al suo tempo. Un debito impagabile, insolvibile, neppure con la vendita dei beni del debitore, venduti assieme alle persone della sua famiglia (pratica ben nota nell’antichità).

Lo schiavo cade a terra, fa la “prostrazione/proskynesis” dovuta al re, si appella alla grandezza di cuore del padrone, promettendo l’estinzione del debito, una promessa che sa benissimo di non poter mantenere.

Il signore/il Signore, “dopo essersi commosso con viscere materne/splagchnistheis”, lo lascia andare (dopo averlo esaudito) e gli “condona/perdona/aphēkadefinitivamente (perfetto greco: azione compiuta nel passato, i cui effetti durano fino al presente) il debito contratto. Al v. 32 si dirà che gli ha condonato tutto il debito.

Appena uscito dall’udienza della sua vita, il primo debitore si comporta in modo contrario a quello suggerito dal Siracide nel suo libro. Invece di ricordare (Sir 28,6.7), si dimentica del condono totale, definitivo, immeritato e gratuito appena ricevuto e prende per il collo, quasi soffocandolo, un suo collega, un suo “conservo/syndoulos” a lui “simile” (Sir 28,4) – non si sa di quale rango –, esigendo da lui la restituzione immediata del suo piccolo debito, 600.000 volte inferiore a quello che gli era stato appena condonato dal “re”: poco più della paga di tre mesi lavorativi, circa € 5.000.

Il primo debitore non è disposto a “guardare lateralmente, trascurare, disdegnare, non tenere in conto, lasciar correre, tollerare, passare sotto silenzio/paroraō” (Sir 28,9), ad “avere grandezza di cuore/makrothymeō” o almeno a pazientare un altro po’ di tempo.

Il collega cade a terra, lo “supplica/parakaleō” (cosa che lui non aveva fatto con il re!), si appella alla sua grandezza di cuore/pazienza, ma il compagno resta impassibile e irremovibile nella sua pretesa e lo fa gettare in prigione fino a che avesse pagato il debito (cosa ancor più difficile da fare se una persona era in prigione…).

Non dovevi avere anche tu pietà?

I colleghi, con-servi, che assistono alla scena sono molto addolorati. Conoscendo l’insieme dei fatti, saranno rimasti allibiti, di stucco, di fronte all’atteggiamento totalmente incoerente e spietato tenuto dal primo servo.

Riferita la cosa al re/signore/Signore, quest’ultimo viene convocato e messo di fronte al proprio comportamento spietato, ingrato e disumano. In seguito alle sue parole, mentre era prostrato in richiesta (v. 26), gli era stato condonato definitivamente e immeritatamente «tutto» (v. 32) il debito (cf. Sir 28,2). Per questo “bisognava/edei” che lui avesse fatto altrettanto, a maggior ragione, con il suo collega, vista l’enorme esiguità del debito da lui contratto rispetto al suo nei confronti del re/signore/Signore. Avrebbe dovuto “aver compassione/misericordia (eleeō) verso il collega come il re (“come anche io”) aveva avuto compassione/misericordia/eleeō” nei suoi confronti.

Il grandioso e munifico per-dono/con-dono concesso dal re/signore/Signore non aveva fatto breccia nel cuore del primo debitore, diventando sangue del suo sangue, vita della sua vita, atteggiamento stabile e abituale, spontaneo, per chi aveva ricevuto una tale grazia. Il padrone non lo aveva “schiacciato” sul suo debito, non l’aveva identificato col suo errore, ma gli aveva dato una seconda opportunità di vita, anzi, gli aveva fatto grazia di 2.739 vite lavorative da 60 anni o di 4.109 vite lavorative da 40 anni.

Una grazia “originale” aveva cancellato, “espiato” ( cf. Sir 28,5), il suo “peccato originale”. Aveva avuto in dono una vita nuova, bella, serena, senza debiti. I polmoni erano tornati a respirare a pieno regime e il futuro gli arrideva di nuovo felice e sereno. Ma il per-dono ricevuto non gli aveva cambiato il cuore e gli occhi verso il suo simile, un servo come lui, un servo dello stesso padrone, un “uomo” creatura dell’unico Dio (Sir 28,3).

Il rancore e l’ira, cose orribili e disgustose, gli erano rimaste rinserrate nel cuore di encratita fallito (cf. Sir 27,33). Il per-dono ricevuto immeritatamente doveva diventare in lui atteggiamento di per-dono verso l’uomo suo “simile/homoion” (cf. Sir 28,4).

“Arrabbiatosi/orghistheis”, il signore/padrone/Signore consegna il grande debitore condonato ma spietato in mano ai torturatori, finché avesse restituito tutto il debito.

Il con-dono era stato deciso e spedito, il bonifico firmato e inviato in banca, ma doveva ancora essere perfezionato nei suoi meccanismi e nelle verifiche necessarie previste prima che entrasse nella piena disponibilità del grande debitore condonato ma spietato.

Il con-dono è sempre a disposizione, è sempre dato dal Signore, grande di cuore e primo a commuoversi. Ma la refrattarietà del cuore e la chiusura nei confronti del per-dono che si deve dare quindi a sua volta ai propri simili in difetto rende non riscuotibile il con-dono ricevuto.

La condotta forzata dell’acqua di misericordia e di vita che scende dall’alto è sempre attiva e generosa, ma la chiusura delle tubature di derivazione rende di fatto indisponibile il dono ricevuto offerto da re/il padrone/il Signore. Il perdono del Signore non è certo condizionato da quello umano, ma ne è strettamente correlato. In tal modo, la vita del grande condonato spietato si avvizzisce per colpa propria, inaridendo per mancanza di liquidità e di umidità.

Ricordati di diventare saggio, impara l’arte di vivere bene, dice il Siracide. Perdona il tuo fratello, condiscepolo o no che sia, dice il Signore Gesù. Questa è la logica del Regno. Siamo appesi al filo d’argento della grazia originale. La vita ci è stata data graziata.

Ricordati di aprire il cuore e di lasciar scorrere in abbondanza l’acqua ricevuta. Il saggio Siracide l’aveva capito: «Io, come un canale che esce da un fiume e come un acquedotto che entra in un giardino, ho detto: “Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola”» (Sir 24,30-31).

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