XXIV Per annum: Il perdono, festa di Dio e dell’uomo

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“Non spezzare il tenue filo dell’amicizia perché, una volta rotto, anche se poi lo aggiusti, rimane sempre un nodo”. Frequentavo le elementari quando il maestro mi diede questo consiglio che mi rimase impresso nella memoria e mi torna in mente ogni volta che vengo a conoscenza di contrasti, dissapori, dissidi e mi angoscia il pensiero che basti un errore a porre fine, per sempre, a un’amicizia, a quel rapporto che la Bibbia chiama “balsamo di vita” (Sir 6,16). “Come un uccello che ti sei fatto scappare di mano, così hai lasciato andare il tuo amico e non lo riprenderai. Non seguirlo perché ormai è lontano” (Sir 27,19-20).

L’incapacità di perdonare, la paura di ridare piena fiducia a chi ha sbagliato sono le forze maligne che rendono irrecuperabile il legame d’amore infranto.

Con fatica perdoniamo a noi stessi: ci tormentiamo con rimorsi, non accettiamo l’umiliazione di una debolezza e, come una bomba inesplosa e ancora pericolosamente innescata, ci trasciniamo dietro la nostra colpa. Solo chi ha un rapporto sereno con se stesso è in grado di riconoscere il proprio errore e sa che è possibile un recupero in positivo dell’esperienza amara del peccato.

Non perdoniamo agli altri. Troppo grandi sono la delusione, il dolore per il tradimento e il timore che possa ripetersi; quasi irrefrenabile è l’impulso di rompere il rapporto e di vendicarci per l’offesa subita.

Risucchiati in questo vortice di risentimenti e passioni ci lasciamo sfuggire la gioia più grande, quella che prova anche Dio, centuplicata, quando riesce a far rifiorire un rapporto d’amore. Anche a chi è vecchio egli concede sempre l’opportunità di ripartire, ridonandogli una perenne giovinezza.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non prevalgano i nostri risentimenti, ma l’azione del tuo Spirito”.

Prima Lettura (Sir 27,30-28,7)

30 Anche il rancore e l’ira sono un abominio,
il peccatore li possiede.
28,1 Chi si vendica avrà la vendetta dal Signore
ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati.
2 Perdona l’offesa al tuo prossimo
e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
3 Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo,
come oserà chiedere la guarigione al Signore?
4 Egli non ha misericordia per l’uomo suo simile,
e osa pregare per i suoi peccati?
5 Egli, che è soltanto carne, conserva rancore;
chi perdonerà i suoi peccati?
6 Ricòrdati della tua fine e smetti di odiare,
ricòrdati della corruzione e della morte
e resta fedele ai comandamenti.
7 Ricòrdati dei comandamenti
e non aver rancore verso il prossimo,
dell’alleanza con l’Altissimo
e non far conto dell’offesa subìta.

Chi si sente vittima di qualche ingiustizia è istintivamente portato ad aggredire i responsabili. Da qui hanno origine i regolamenti di conti, l’ira, i rancori, gli odi. Ma, dando libero sfogo a queste passioni, si pone rimedio agli abusi o si peggiora il male? Lungo la storia sono state date varie risposte a questo interrogativo.

Nei tempi più remoti, il metodo per compensare i torti subiti e per scoraggiare dal commetterne altri era piuttosto sbrigativo: si reagiva con la rappresaglia, si restituiva il male… con gli interessi. L’esempio più celebre di questa vendetta senza limiti è quello di Lamech, il figlio di Caino, il primo poligamo che, davanti alle due mogli, cantava: Io uccido chi mi fa un graffio, ammazzo il bambino che mi pesta un piede! “Sette volte si è vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette!” (Gn 4,23-24).

Un passo in avanti, rispetto a questa reazione brutale, è costituito dalla famosa legge “Occhio per occhio, dente per dente, ferita per ferita” (Es 21,24) che – come abbiamo visto nel commento al vangelo della settima domenica – non è un invito a restituire il male ricevuto, ma a far sì che la punizione sia equa.

L’AT non si è però fermato a questa giustizia ragionevole, legittima, ma ancora primitiva, si è spinto oltre. Nel libro del Levitico si ordina: “Tu non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). È il punto più alto cui erano giunti i saggi d’Israele e il brano che ci viene proposto oggi si muove su questa linea.

Il Siracide – ricco della sapienza che gli derivava dall’esperienza – si rivolge al discepolo e, da uomo a uomo, cerca di convincerlo ad evitare i comportamenti insensati dettati dal desiderio di vendetta, dall’ira, dal rancore. Questi sentimenti sono un abominio e creano uno schermo impenetrabile nel rapporto fra Dio e uomo, impediscono loro di dialogare e di capirsi.

Poi continua la sua riflessione, invitando il discepolo ad andare oltre la semplice giustizia e a spalancare il cuore alla misericordia. La clemenza verso chi ci ha fatto dei torti – dice – è una condizione indispensabile per pregare e ottenere il perdono di Dio: “Se qualcuno conserva nel suo cuore il rancore contro un altro uomo, come avrà il coraggio di chiedere grazie a Dio?” (v. 3).

Sono riflessioni semplici, chiare, pacate; accompagnano fino alle soglie del regno di Dio, dispongono all’ascolto della parola di Gesù che porta alla perfezione la saggezza già presente nell’AT.

Seconda Lettura (Rm 14,7-9)

7 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8 perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. 9 Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

Nel capitolo 14 della Lettera ai romani Paolo tratta un problema sempre molto attuale: come risolvere le divergenze di opinioni fra i membri della comunità?

C’erano a Roma due gruppi di cristiani: alcuni – chiamati da Paolo i deboli – erano legati alle tradizioni degli antichi, osservavano i giorni di digiuno, praticavano un’ascesi severa, si astenevano da certe carni; altri invece – i forti – più maturi, si sentivano vincolati dall’unica legge dell’amore al fratello, per il resto si comportavano da persone libere.

A causa di questi contrasti fra tradizionalisti e innovatori, erano sorte parecchie tensioni nella comunità di Roma. I primi accusavano i forti di permissivismo, li consideravano poco virtuosi, infedeli alla legge di Mosè. Questi a loro volta reagivano con battute pesanti; trattavano i deboli da retrogradi, da ottusi mentali, incapaci di comprendere la novità assoluta del vangelo. Come costruire una convivenza pacifica fra persone con convinzioni così opposte? Non era facile (e non lo è nemmeno oggi!).

Paolo – che apparteneva al gruppo dei forti – propone due regole, una per ognuno dei due gruppi, regole che, se rispettate, permettono di arrivare ad un’accettazione reciproca. Parla anzitutto a quelli del suo gruppo, ai forti, e chiede rispetto per i deboli, per le loro pratiche religiose un po’ antiquate, le loro devozioni, le tradizioni ormai desuete. Anche i deboli però devono stare attenti a non prevaricare. Da loro l’Apostolo esige che si astengano dal giudicare i forti, dal pensare che chi non si attiene alle tradizioni degli antichi sia infedele al vangelo (Rm 14,1-6). Se i due gruppi si attengono a queste due norme possono convivere pacificamente, altrimenti sorgeranno fra loro incomprensioni, dissensi, tensioni.

I versetti seguenti (vv. 7-9) – gli unici riportati dalla lettura di oggi – presentano un principio che aiuta a risolvere ogni contrasto: il cristiano tenga sempre presente che egli non vive per se stesso, per la ricerca del proprio tornaconto, ma per il Signore. Nel suo rapporto con i fratelli, dunque, non si deve mai lasciar guidare da considerazioni umane. Vive e muore “per il Signore”.

Vangelo (Mt 18,21-35)

21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. 22 E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Nella spiegazione della prima lettura abbiamo rilevato che c’è stata una progressiva evoluzione nel modo di reagire alle offese e ai torti ricevuti: si è passati dal regolamento dei conti a soluzioni più eque e infine al perdono.

Al tempo di Gesù si insisteva molto sulla necessità di mantenere relazioni pacifiche. Si condannava la vendetta, l’ira, il rancore e si esigeva la riconciliazione. Chi ha sbagliato – insegnavano le guide spirituali – deve riconoscere il proprio errore e implorare il perdono e la persona offesa è obbligata ad accordarlo. Se lo rifiuta, il colpevole chieda scusa davanti a due testimoni per dimostrare di avere fatto tutto il possibile per ristabilire la pace. Se l’offeso muore prima della riconciliazione, chi gli ha fatto del male si rechi sulla sua tomba e, deponendo una pietra, dichiari: “Ho agito male verso di te”.

L’obbligo di perdonare era però ristretto ai membri del popolo d’Israele e non era illimitato. Non più di tre volte – affermavano concordi i rabbini – alla quarta si doveva accedere alle vie legali.

La domanda con cui si apre il vangelo di oggi – “Quante volte devo perdonare al mio fratello, fino a sette volte?” (v. 21) – rivela che Pietro ha capito che Gesù intende oltrepassare i limiti stabiliti dagli scribi. Ricorda certo quanto è stato detto nel discorso della montagna: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) e “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà a voi; ma se voi non perdonerete…” (Mt 6,14-15). Ha presente anche l’altra affermazione inequivocabile del Maestro: “Se tuo fratello pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17,3-4).

Pietro è sconcertato: il numero sette indica la totalità; non si dovrà per caso perdonare sempre e senza condizioni? Chiede conferma di ciò che comincia a intuire (v. 21).

La risposta di Gesù va oltre ciò che già spaventa Pietro: “Non ti dico che dovrai perdonare fino a sette volte (cioè sempre), ma fino a settanta volte sette (più ancora di sempre)” (v. 22). Il richiamo è alle parole sprezzanti e beffarde di Lamech che si vantava di praticare la vendetta senza limiti. Riprendendole, Gesù vuole insegnare che il perdono deve arrivare all’infinito, come all’infinito era giunta la tracotanza del figlio di Caino.

Per chiarire meglio il suo pensiero racconta una parabola (vv. 23-35).

Fu presentato al re un debitore che gli doveva diecimila talenti. Il talento corrisponde a trentasei chilogrammi d’oro; il suo valore, moltiplicato per diecimila – la cifra più elevata della lingua greca – dà una somma enorme che corrisponde allo stipendio di 200.000 anni di lavoro, 2.400.000 buste paga. Impensabile che qualcuno la potesse restituire.

Alla ventina di immagini usate dalla Bibbia per definire il peccato, negli ultimi secoli prima di Cristo se n’era aggiunta un’altra che aveva finito per prevalere: quella del debito nei confronti di Dio. La gente semplice del popolo si sentiva sempre in arretrato con i pagamenti. Preghiere, sacrifici, offerte, digiuni, opere buone non bastavano mai per compensare le innumerevoli infrazioni della Legge; ci si indebitava sempre di più con il Signore. Solo i farisei erano convinti di avere la contabilità in ordine. Tragica illusione la loro, perché – come dichiara Paolo che pur era vissuto in modo irreprensibile – “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23); di fronte a Dio l’uomo è un debitore insolvente.

Mostrando una generosità senza limiti, il padrone della parabola – che rappresenta Dio – intenerito dalle suppliche del suo servo, condona tutto il debito.

Non c’è alcun peccato che Dio non perdoni, non c’è colpa superiore al suo immenso amore. Anche Paolo ricorre alla stessa immagine: Dio “ha annullato il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli; egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2,14).

Come ha fatto l’uomo ad accumulare un debito così esorbitante? Forse accettando gli innumerevoli doni offertigli dal Signore? Non può essere, perché il dono è gratuito e non rende debitori. Allora si tratta – come pensavano i rabbini – dei peccati, delle trasgressioni? Anche questa interpretazione non soddisfa e ne vedremo la ragione.

Nella seconda parte della vicenda (vv. 28-30) entra in scena un altro servo che deve al primo cento denari, una somma di tutto rispetto – equivalente ad altrettante giornate lavorative – ma irrisoria se confrontata con quella condonata dal re.

Il secondo debitore rivolge al collega la stessa preghiera e spera di ottenere la stessa compassione. Il servo spietato, invece, lo afferra per il collo e comincia a strozzarlo dicendo: rendimi ciò che devi!

Il messaggio centrale della parabola va cercato – è evidente – nella enorme sproporzione fra i due debiti e nello stridente contrasto fra il comportamento di Dio che perdona sempre e quello dell’uomo che invece pretende la restituzione fino all’ultimo spicciolo. L’immagine del soffocamento rende bene l’idea della sudditanza psicologica in cui è ridotto chi ha sbagliato. Come un creditore spietato, l’offeso lo “tiene in mano” e gli può togliere il respiro e la gioia di vivere, con un richiamo, con la semplice allusione alla colpa commessa.

La parabola potrebbe suggerire l’idea che noi siamo responsabili di enormi peccati, mentre dai fratelli abbiamo ricevuto solo qualche sgarbo. Siamo invece sicuri che spesso si verifica il contrario: noi abbiamo commesso solo qualche venialità, mentre gli altri ci hanno arrecato gravi danni.

Non si tratta di fare calcoli sulla consistenza dei torti subiti. A Gesù interessa mettere in luce la distanza immane che esiste fra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo, fra il suo amore e il nostro.

Il peccato non è un semplice errore, ma è la rottura del rapporto di alleanza e di amore sponsale che lega l’uomo a Dio. Se teniamo presente che il discepolo è chiamato a “essere perfetto come il Padre che è nei cieli” (Mt 6,48) è facile intuire che il “debito” nei suoi confronti è abissale (come è insolvibile il debito di diecimila talenti). Al confronto, la distanza che separa il più grande santo da un peccatore è irrisoria e può essere colmata (come è realistica la restituzione di cento denari).

Nella preghiera noi chiediamo al Padre di “condonare il nostro debito”. Le colpe che abbiamo commesso non rappresentano tutto il nostro debito; esse riguardano il passato e non sono infinite, sono soltanto un piccolo segno della distanza immensa che ci separa dall’amore del Padre. Questo è il debito che noi chiediamo a Dio di colmare. La nostra preghiera “Perdona i nostri debiti” non riguarda solo gli errori passati, ma è volta soprattutto all’avvenire.

Cosa si aspetta Dio da noi? La sua stessa “compassione”: vuole che non manteniamo il fratello schiavo del suo passato, pretende che non gli togliamo il respiro, mentre egli tenta disperatamente di risalire dal baratro; Dio ci chiede di aiutarlo “settanta volte sette”, rinunciando a qualunque rivalsa nei suoi confronti. I figli del regno di Dio sono “misericordiosi come il Padre celeste” (Lc 6,36) e hanno capito che “l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito” (1 Cor 13,5-7). Chi ha fatto propria questa nuova logica è disposto a rimetterci, dimentica tutti i propri diritti pur di vedere il fratello nuovamente felice, sereno e libero dal suo peccato.

L’ultima scena è da brivido (vv. 31-35). Di fronte al modo con cui il servo cui era stato condonato il debito tratta il suo simile, il padrone, disgustato, è colto da incontenibile sdegno: lo fa chiamare, gli rinfaccia la sua malvagità e lo mette in mano agli aguzzini che lo devono torturare fino a quando non abbia restituito quanto deve. La conclusione è sconcertante: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Il Signore ripaga dunque con la stessa moneta coloro che sono spietati con i loro “debitori”? Una simile interpretazione smentirebbe tutto il messaggio della parabola che vuole invece presentare un Dio che perdona sempre e comunque l’uomo.

Siamo di fronte ad una storia in cui vengono impiegate immagini drammatiche. I predicatori del tempo di Gesù le introducevano spesso nei loro discorsi, per scuotere i loro uditori e per mettere in risalto l’importanza di un certo messaggio. L’evangelista non sta descrivendo ciò che Dio farà alla fine, ma presenta ciò che egli vuole che l’uomo faccia oggi. Per non falsare il messaggio di Gesù è dunque necessario ripulire la parabola dalle tinte forti di cui l’ha rivestita il linguaggio culturale semitico di duemila anni fa. Considerarla una descrizione del comportamento del Padre che sta nei cieli sarebbe un’interpretazione blasfema.

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