XXV Per annum: Vale chi si fa servo, non chi prevale

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Chi è innamorato è sempre “fuori di sé dalla gioia”. Esce da se stesso, si dimentica perché prova un impulso incontenibile a incontrare l’altro. Anche l’esperienza mistica dell’estasi, dal verbo greco existánai, significa essere fuori di sé e rapiti in Dio.

Chi ama non può rimanere in se stesso, deve uscire e consegnarsi alla persona amata. Capita anche a Dio, amore infinito e quindi interamente “fuori di sé”.

In Cristo ha rivelato la sua estasi, ha lasciato il cielo ed è venuto tra noi: “Sono uscito dal Padre – afferma Gesù – e sono venuto nel mondo” (Gv 16,28). Il suo destino è il ritorno al Padre, ma non lascia gli uomini ai quali lo unisce un amore indissolubile: “Verrò e vi prenderò con me – assicura – perché siate anche voi dove sono io… Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliere la vostra gioia” (Gv 14,3; 16,22-23).

Il Signore che esce da sé e viene tra gli uomini è un invito all’estasi, a uscire da sé per andare verso i fratelli. Incontra Dio chi smette di pensare a se stesso, ai propri vantaggi, all’autoaffermazione e si fa, come il Signore, servo di tutti. “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.

Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1 Gv 4,9-12).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non chi prevale, ma chi si fa servo è grande agli occhi a Dio”.

Prima Lettura (Sap 2,12.17-20)

Dissero gli empi:
12 “Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo
ed è contrario alle nostre azioni;
ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze
contro l’educazione da noi ricevuta.
17 Vediamo se le sue parole sono vere;
proviamo ciò che gli accadrà alla fine.
18 Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà,
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
19 Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti,
per conoscere la mitezza del suo carattere
e saggiare la sua rassegnazione.
20 Condanniamolo a una morte infame,
perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà”.

“Mangiamo e beviamo, poiché domani saremo morti!” (Is 22,13). È questa la proposta avanzata dai crapuloni del tempo di Isaia e ripresa dagli edonisti di ogni tempo, da coloro che, dimentichi di Dio e della vita futura, non trovano di meglio che ripiegarsi sulle realtà di questo mondo e abbandonarsi alle gozzoviglie. Gente così è sempre esistita, ma verso la fine del I secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto era particolarmente numerosa e aggressiva.

Alessandria era la metropoli dei Tolomei, sede della celebre biblioteca che attirava sapienti e uomini di lettere da tutto il mondo, città opulenta in cui, da tre secoli, si era stabilita una numerosa colonia ebraica costituita, secondo stime recenti, da 180.000 persone.

Ad Alessandria gli israeliti avevano le loro sinagoghe dove leggevano, nella traduzione greca, le sacre Scritture; erano guidati dai loro anziani e capi, conservavano la propria identità e potevano seguire le loro tradizioni, ma subivano anche il fascino irresistibile della cultura ellenistica e qualcuno cominciava a cedere alle tentazioni dell’idolatria e alle seduzioni della vita pagana.

È in questo ambiente storico-culturale che va collocata la composizione del libro della Sapienza.

Preoccupato per il pericolo di apostasia che incombe sui suoi correligionari, l’autore espone, in un appassionato discorso posto sulla bocca degli empi, le proposte di vita godereccia dalle quali ogni pio giudeo deve stare in guardia.

“Sragionando, dicono: la nostra vita è breve, siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera. Coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano. Spadroneggiamo sul povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile” (Sap 2,1-11).

Chi erano questi empi che si facevano promotori di idee e progetti così dissennati?

Erano anzitutto le persone facoltose e benestanti della città, poi, gli intellettuali che, ritenendosi i depositari di una cultura superiore, disprezzavano gli israeliti e le loro tradizioni religiose, giudicate arcaiche, obsolete, superate dalle nuove filosofie.

Non erano costoro però gli esponenti più temibili del gruppo degli empi. C’erano alcuni che, più degli altri, si accanivano contro gli ebrei, offendendo, calunniando, compiendo ogni forma di angherie e soprusi. Erano alcuni figli d’Israele che, abbandonata la fede dei loro padri, si erano uniti ai pagani nel perseguitare i loro fratelli di fede.

Ciò che maggiormente infastidiva questi rinnegati era la vita esemplare che, malgrado le opposizioni, molti pii israeliti continuavano a condurre. Questa costituiva un’aperta e ferma condanna della loro corruzione, della loro apostasia e delle loro ingiustizie.

Gli empi non possono convivere a lungo con i giusti; questi sono troppo scomodi, il loro tacito rimprovero diviene presto insopportabile e il livore contro di loro, ad un certo punto, deve esplodere. Se i giusti non si lasciano sedurre, vanno eliminati.

Nel brano di oggi è riferita la risoluzione presa dagli empi: “Tendiamo insidie al giusto… mettiamolo alla prova con insulti e torture… condanniamolo a una morte vergognosa”.

Queste minacce potrebbero essere riferite non solo agli israeliti di Alessandria d’Egitto, ma applicate direttamente a Gesù. Anch’egli è stato perseguitato dai suoi fratelli di fede non perché malvagio, ma perché annunciava un messaggio provocatorio per chiunque si adeguava ai princìpi degli empi.

La persecuzione è un evento ineluttabile nella vita del giusto, colpisce sempre chi sceglie di vivere secondo Dio. Il predicatore che non inquieta, che non mette in causa le strutture di peccato della società in cui vive, che è acclamato e patrocinato da chi detiene il potere, forse ha fatto propria la mentalità degli empi.

Seconda Lettura (Gc 3,16-4,3)

16Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. 17 La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. 18 Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
4,1 Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? 2 Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; 3 chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri.

Due istinti incontrollati dell’uomo – la gelosia e lo spirito di contesa – vengono contrapposti alla sapienza che viene dall’alto (v. 16). Da questi impulsi ha origine ogni sorta di azioni malvage.

L’autore indica poi le caratteristiche della sapienza di Dio: Si manifesta là dove c’è comprensione, bontà, misericordia, pace, generosità, dove non esistono invidie ed ipocrisie. Solo coloro che, guidati da questa sapienza, si impegnano a instaurare relazioni fraterne fra gli uomini, divengono costruttori di pace (v. 18).

Nella seconda parte del brano (vv. 1-2) sono identificate le cause delle discordie che esplodono nel mondo, nella società e anche all’interno delle comunità cristiane. La prima è la bramosia di accumulare beni materiali, da cui nasce l’invidia nei confronti di chi è riuscito a raggiungere prima degli altri questo ambito obiettivo. Le guerre e i dissensi scoppiano perché gli uomini sono egoisti, cercano il dominio sugli altri invece del servizio reciproco, pretendono i primi posti, non gli ultimi, come Gesù ha raccomandato di scegliere.

I cristiani che si adeguano alla “sapienza che viene dall’alto” non dovrebbero in alcun modo lasciarsi coinvolgere in simili contese. Se davvero si impegnassero a fare solo ciò che è gradito ai fratelli verrebbero eliminate alla radice le cause dei conflitti.

Nell’ultima parte della lettura (v. 3) Giacomo richiama alla preghiera autentica.

A volte supplichiamo il Signore, ma non perché si compia in noi il suo volere, bensì perché si realizzino i nostri sogni, capricci, egoismi e passioni. Non ha senso chiedere al Signore un suo intervento per soddisfare i nostri piaceri; da lui si deve impetrare la sapienza, la capacità di comprendere i suoi progetti e la forza per attuarli.

Vangelo (Mc 9,30-37)

30 Gesù e i discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31 Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”. 32 Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
33 Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. 34 Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.
35 Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. 36 E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: 37 “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.

Ci sono molte ripetizioni nei vangeli, ma non sono mai casuali, hanno sempre una ragione. La moltiplicazione dei pani, la disputa fra i discepoli su chi fosse il più grande, la replica del Maestro a queste pretese, l’abbraccio di Gesù ai bambini sono episodi che Marco riferisce due volte. L’annuncio della passione è ribadito addirittura tre volte, sempre accompagnato da una reazione riprovevole da parte dei discepoli, incapaci di capire una proposta di vita che, secondo i criteri degli uomini, appare totalmente insensata.

Nella prima parte del brano di oggi viene introdotto il secondo di questi annunci: “Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato in mani di uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà” (v. 31).

“Sta per essere consegnato”. Da chi? – chiediamo noi. La risposta pare scontata: da Giuda. Invece siamo di fronte a quello che i teologi chiamano “passivo divino”, cioè un verbo al passivo che, nella Bibbia, è impiegato per attribuire a Dio una determinata azione. È il Signore che offre suo figlio, che lo consegna in potere degli uomini.

L’innamorato non ha altro modo per manifestare tutto il suo amore che abbandonarsi fra le braccia della persona amata. È ciò che Dio ha fatto: si è consegnato nella mani degli uomini, pur sapendo che essi avrebbero fatto di lui ciò che avrebbero voluto.

La risposta a questo immenso amore è stata drammatica ed è annunciata da Gesù al futuro: lo uccideranno. Qui il crimine non è attribuito ai sommi sacerdoti e agli scribi, ma agli uomini. Se Dio fosse rimasto in cielo, avrebbe potuto essere dimenticato o, al massimo, bestemmiato, ma, da quando ha deciso di scendere sulla terra e di mettersi nelle mani degli uomini, si è consegnato alla morte.

I discepoli non sono in grado di capire questo amore del Signore, i loro pensieri sono troppo lontani da quelli del cielo e hanno paura di chiedere a Gesù un chiarimento (v. 32).

È facile intuire la ragione della loro ottusità. Il destino che, secondo Gesù, attende il Figlio dell’uomo è inconciliabile con le convinzioni religiose inculcate dai rabbini, è l’opposto delle loro attese non possono accettare l’idea che Dio abbandoni il suo eletto nelle mani di malfattori. Concordano con l’obiezione che il saggio Elifaz ha rivolto a Giobbe: “Quale innocente è mai perito e quando mai furono distrutti gli uomini retti?” (Gb 4,7-8) e con l’affermazione del salmista: “Sono stato fanciullo e ora sono anziano, ma non ho mai visto il giusto abbandonato” (Sal 37,25).

Come mettere d’accordo la giustizia di Dio con la sconfitta o addirittura con la morte del Figlio dell’uomo?

Non c’è da stupirsi che, anche dopo aver udito per la seconda volta lo stesso annuncio, i discepoli non lo abbiano compreso, cioè non siano riusciti ad accettare lo scandalo della passione del messia e non sorprende nemmeno l’annotazione dell’evangelista: essi non osavano porgli alcuna domanda. Avevano ancora ben presente la sua reazione, quasi risentita, quando Pietro aveva tentato di distoglierlo dal cammino della croce. Si rendevano conto che, quando si toccava questo punto, il Maestro diventava duro, intransigente, non voleva essere contraddetto e non accettava suggerimenti.

La mancata sintonia con il pensiero di Cristo conduce inevitabilmente al ripiegamento sulle convinzioni degli uomini. Nella seconda parte del brano (vv. 33-35) l’evangelista introduce un episodio che ne dà la conferma.

I discepoli non hanno capito o hanno volutamente chiuso orecchi e occhi, per non udire le parole del Maestro e non fissare la meta da lui proposta a ogni discepolo.

Continuano a seguirlo verso Gerusalemme, ma, proprio lungo la via che conduce alla croce, coltivano sogni opposti a quelli di Gesù.

Giunti a Cafarnao, il Maestro li interroga: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?” (v. 33). La sua non è una domanda, ma un’accusa. È al corrente dell’accesa disputa nella quale, durante il viaggio, tutti si sono lasciati coinvolgere.

I discepoli tacciono, si sentono smascherati, hanno vergogna, si rendono conto di aver commesso un’insensatezza e sanno che, sull’argomento della ricerca dei primi posti, il Maestro non lascia correre, interviene sempre con fermezza.

Quello delle gerarchie e delle precedenze era un tema molto dibattuto fra i rabbini. A tavola, nelle sinagoghe, per strada, nelle assemblee si poneva continuamente la questione dell’attribuzione dei posti d’onore. Si disquisiva anche sulle classi dei santi del paradiso e si sosteneva che erano sette: a ogni eletto il suo rango, più o meno elevato, a seconda dei meriti. Come i santi del cielo, anche gli abitanti di questo mondo dovevano essere catalogati: ai giusti erano assegnate posizioni di prestigio; la gente impura, i poveri della terra andavano emarginati.

Ci sono argomenti che Gesù non ha direttamente affrontato e su questi si può discutere e anche avere opinioni divergenti, ma su quello delle gerarchie, dei titoli onorifici, delle classi è intervenuto più volte e in modo esplicito.

Marco ricostruisce accuratamente la scena. Mentre i discepoli, imbarazzati, tacciono, Gesù si siede, assume cioè la posizione del rabbino che si appresta a impartire una lezione importante. Poi chiama a sé i discepoli, ordina loro di avvicinarsi, perché li vede distaccati, li sente molto lontani da sé. Infine pronuncia il suo solenne giudizio sulla vera grandezza dell’uomo: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti ed il servo di tutti” (v. 35).

È la sintesi della sua proposta di vita ed è tanto importante che gli evangelisti la riprendono, con sfumature diverse, ben sei volte.

Marco nota che la scena si è svolta in casa e questa casa rappresenta la comunità cristiana. Ogni comunità deve ritenere rivolte a sé le parole del Maestro ed evitare, nel modo più assoluto, di inventare appigli e cercare pretesti per giustificare, al suo interno, situazioni di dominio e sudditanza, che sono invece in netto contrasto con il vangelo. Deve guardarsi soprattutto dalla tentazione di prendere come punto di riferimento gli inchini, gli ossequi e gli omaggi in uso nella società civile. “Fra di voi – ha disposto Gesù – non deve essere così!” (Lc 22,26).

Nella comunità cristiana chi occupa il primo posto deve mettere da parte ogni smania di grandezza. La chiesa non è il trampolino di lancio per raggiungere posizioni di prestigio, per emergere, per ottenere il dominio sugli altri. È il luogo dove ognuno, conforme ai doni che ha ricevuto da Dio, celebra la propria grandezza nell’umile servizio ai fratelli. Agli occhi di Dio, il più grande è chi più assomiglia a Cristo che si è fatto servo di tutti (Lc 22,27).

Per inculcare meglio la lezione, Gesù compie un gesto significativo, narrato nella terza parte del brano (vv. 36-37). Prende un bambino, lo colloca nel mezzo, lo abbraccia e soggiunge: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.

Nel capitolo seguente Marco ricorda un altro episodio in cui sono messi in risalto l’affetto e la tenerezza di Gesù nei confronti dei bambini.

Alcune mamme gli presentarono i loro figli affinché li accarezzasse. Si riteneva, infatti, che il contatto fisico con uomini di Dio comunicasse forza, bontà, dolcezza e il loro stesso spirito. I discepoli non gradirono questo eccesso di familiarità e di confidenza e si sentirono in dovere di sgridare e di allontanare gli intrusi. Al vedere questo, Gesù si indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benedisse (Mc 10,13-16).

In questo episodio i bambini sono presentati come modelli da imitare e Gesù invita a diventare come loro, per entrare nel regno di Dio. Nel brano di oggi invece i bambini sono indicati come simboli dell’essere debole e indifeso che ha bisogno di protezione e cure.

Al tempo di Gesù, come oggi, i bambini erano amati, ma a loro non veniva attribuita importanza sociale, non contavano nulla dal punto di vista giuridico, erano addirittura considerati impuri perché trasgredivano le prescrizioni della legge.

Se si tiene presente questo fatto, risulta subito chiaro il significato del gesto di Gesù. Egli vuole che la comunità dei suoi discepoli ponga al centro delle proprie attenzioni e iniziative i più poveri, coloro che non contano, gli emarginati, le persone impure.

Noi viviamo in una società competitiva. L’insegnante si compiace dell’alunno più diligente e preparato, l’allenatore si gloria del più forte dei suoi atleti, ma la mamma segue criteri diversi, è guidata dall’amore e le sue premure sono dedicate al più debole dei suoi figli.

Discepolo di Cristo è colui che, sull’esempio del Maestro, abbraccia i bambini.

Bambino è colui che dipende completamente dagli altri, non produce, consuma soltanto, ha bisogno di tutto, può anche combinare guai, non ragiona da adulto.

Non è facile abbracciare chi, a quarant’anni, ha ancora bisogno di essere assistito come un bambino, straparla, fa dispetti, è sgarbato, intralcia la vita ordinata degli altri, non si impegna. Abbracciarlo non significa accondiscendere a tutti i suoi desideri, accontentarne i capricci e favorirne la neghittosità, ma educarlo, aiutarlo a crescere, farlo diventare adulto.

Ci sono, in ogni nostra comunità, bambini, persone impure, anzi, in ognuno di noi è presente un bambino. L’abbraccio è il gesto che esprime accoglienza gioiosa, fiducia, stima, disponibilità al servizio reciproco, per questo sentiamo il bisogno di essere abbracciati dai fratelli della nostra comunità.

Il “bacio santo” (2 Cor 13,12) che ci scambiamo durante la celebrazione eucaristica è il segno di questa reciproca e incondizionata accoglienza.

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