XXVI Per annum: Un popolo di profeti

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Per il libro dei Numeri, che riporta il percorso seguito da Israele nel deserto al tempo della sua liberazione dalla schiavitù egiziana, è stata suggerita la seguente struttura: I. Organizzazione della comunità al Sinai (1,1–10,10); II. Il cammino dal Sinai alle steppe di Moab (10,11–25,18); III. La formazione della nuova comunità in Moab (25,19–36,13). Seguendo il percorso geografico di Israele, la seconda sezione può essere a sua volta così delineata: 1) Dal Sinai al deserto di Paran (10,11–12,16); 2) Da Qadesh a Qadesh (13,1–19,22); 3) Marcia da Qadesh a Moab (20,1–25,18).

Incendio e tombe di ingordi

Dopo aver riportato le vicende accadute durante la marcia (10,11-36), l’inizio della seconda sezione del libro (10,11–12,16) si sofferma sulle mormorazioni innalzate dal popolo a Taberà/Tab‘ērāh (“incendio/bā‘ărāh”, cf. 11,3) e a Kibrot-Taavà/Qibrôt-Hatta’ăwāh (“i sepolcri di Taavà”, ma secondo l’eziologia popolare “là seppellirono coloro che ebbero ingordigia/qāberû…hammit’āwwîm”, cf. v. 34). Come ricorda Dinh Anh Nhue Nguyen nel suo commentario, le due località sono menzionate ancora in Dt 9,22, ma la prima viene tralasciata nel riassunto dell’itinerario in Nm 33,16 e rimane sconosciuta, anche se si è proposto di identificarla con Ruweis el-Ebeirig, un luogo a distanza di tre giorni di cammino (cf. 10,33) a nord-est del Gebel Musa, tradizionalmente identificato con il monte Sinai. In 12,1-6 si presenterà, infine, la figura di Mosè, il più umile fra gli uomini viventi sulla faccia della terra (v. 6).

Spento l’incendio a Taberà, la gente raccogliticcia, le persone di varia estrazione etnica e religiosa che stava in mezzo al popolo, “è presa dall’ingordigia/hit’awwû ta’ăwāh” e si lamenta di dover mangiare solo la manna, invece dei buoni piatti a disposizione in Egitto… Mosè sente il popolo piangere e invocare la carne e si lamenta con YHWH, perché non è stato lui a metterlo al mondo ed è troppo pesante per lui portare (l’onere di) tutto questo popolo. Meglio morire che andare avanti così (cf. v. 15).

Onere condiviso

YHWH inizia la sua risposta partendo dal secondo punto. Promette di prendere parte dello “spirito/rûaḥ” che è su Mosè per “porlo su/weśamtî ‘ălêhem” (v. 17), cioè per “donarlo a settanta uomini/wayyittēn ‘al šib‘îm ’îš” (v. 25) che lo aiuteranno a “portare l’onere del popolo/wenāśe’û ’ittekā bemaśśā’ hā‘ām” (v. 17).

Sembrerebbe essere un aiuto che decentralizzi il carico amministrativo e soprattutto giudiziario grazie al principio di sussidiarietà delle istanze giudiziarie inferiori. Questo almeno secondo il racconto parallelo riportato in Es 18,21-26, innescato dal saggio consiglio dato da Ietro al genero Mosè, oberato dal peso delle sedute giudiziarie. La versione riportata nel libro dei Numeri sembra però avere una connotazione diversa.

Quanto alla richiesta di “carne/bāśār” (v. 13), YHWH ribatte che ne fornirà al popolo “piangente/bōkeh”, ognuno davanti alla propria tenda (v. 10), una quantità tale da farlo nauseare, facendogliela uscire perfino dalle narici (v. 20).

Prima di raccontare il segno del dono provvidenziale delle quaglie che cadono stremate sull’accampamento degli israeliti a causa del “vento suscitato da YHWH/werûa‘ḥ nāsa‘ mē’ēt YHWH” durante la lunga traversata intrapresa per la migrazione (vv. 31-35), l’autore ricorda “l’imposizione/weśamtî ‘ălêhem” (v. 17) dello spirito da parte di YHWH, preso in parte da quello di Mosè, su settanta anziani scelti fra il popolo.

Spirito per settanta anziani

Secondo i precisi canoni della teologia sacerdotale responsabile della stesura definitiva del testo, YHWH scende “nella nube/be‘ānān” e parla a Mosè che aveva radunato i settanta anziani attorno alla “tenda/hā’ōhel” della testimonianza. Non viene riferito il contenuto della rivelazione, ma si descrive subito l’azione potente di YHWH.

Egli prese “parte/min” dello spirito che era su Mosè e lo “diede/donò sopra/wayyittēn ‘al” i settanta uomini anziani. Quando lo spirito “si posò/kenôaḥ” su di loro si ebbe come effetto immediato che essi “si misero a profetizzare/wayyitnabbe’û’”, ma in seguito non lo fecero più.

YHWH impartisce lo spirito dimorante in Mosè senza diminuire il suo, ma condividendolo ai settanta anziani che, secondo Es 18,20, devono essere integerrimi e timorati di Dio.

Più che ad una sapienza pratica di natura religioso-giuridico-morale ricavata dalle norme e dalle istruzioni di YHWH spiegate loro da Mosè in vista delle sedute giudiziarie da tenere su vertenze di minore importanza (cf. Es 18,19-23), il dono ricevuto dai settanta anziani si rivela essere di natura estatico-profetica.

Lo spirito/rûaḥ di cui si parla – afferma Dinh Anh Nhue Nguyen nel suo commentario – «si riferisce precisamente allo “spirito di YHWH” o a quello di profezia (cf. vv. 25.29; Nm 24,2; 1Sam 10,10; anche Os 9,7) che Mosè possiede in virtù dell’accompagnamento costante di Dio (cf. Es 3,12; 4,1-12) […] in seguito si menziona di frequente lo spirito di Dio che investe i capi carismatici d’Israele come Giosuè (Nm 27,18, [sic; correggi in;] Dt 34,9), i giudici e re (Gdc 3,10; 6,34; 13,25; 14,6; 1Sam 10,6 e 11,6; 1Sam 16,13), i profeti (1Re 22,24; 2Cr 15,1; 20,14; 24,20) e anche sul Messia (Is 11,1-2).

Occorre però distinguere il profetizzare degli anziani dopo aver ricevuto lo spirito di Dio nel nostro episodio da quello dei profeti (posteriori) che parlano in nome di YHWH, anche se in ambedue i casi il verbo è lo stesso nb’ (cf. vv. 25b.26b). Infatti, il contesto del racconto sembra suggerire di vedere nell’azione del profetizzare da parte delle persone elette non un trasmettere qualche messaggio divino preciso, ma una condizione estatica collettiva, che si esprime, come osservato nei casi simili nella storia di Saul (1Sam 10,5.9-13; 19,20-24), attraverso atti di delirio indescrivibile, di allegria incontenibile e di un parlare incomprensibile».

Dono “inutile”?

Del contenuto di un’eventuale attività di natura profetica da parte dei settanta anziani, circoscritta fra l’altro a un unico episodio, non viene detto alcunché. L’importante è l’universalità (“settanta”) dei destinatari di un dono strabiliante, che non si considera riservato esclusivamente alle guide del popolo, ma donato tendenzialmente a tutti. Un dono gratuito in partenza e anche in arrivo. Un dono “senza contenuto” verbale, didattico o profetico, ma che si esplica in una gioia incontenibile, estatica, “gratuita”. Un giubilo gratuito che sale dal deserto della liberazione e della prova, della sete e della fame. Un giubilo che vince il pianto generale con un grido di gioia tendenzialmente generale. Un dono “inutile”? Così sembra. Come “inutile” è il canto e il giubilo per la presenza provvidente di Dio nella vita degli uomini e dei popoli…

Irregolari

Il numero settanta allude probabilmente in maniera simbolica all’universalità della chiamata. Esso corrisponde a quello delle nazioni della terra (cf. Gen 10,1-32) e dei discendenti di Giacobbe (Es 1,5; Dt 10,22). La presenza di una corte di settanta consiglieri del re è ben attestata inoltre nel Vicino Oriente antico (cf. anche 2Re 10,6).

L’universalità della chiamata è sottolineata anche dall’episodio di Eldad e Medad. Pur essendo iscritti nel numero di coloro che dovevano ricevere il dono dello spirito, non si erano recati – colpevolmente? – alla tenda, luogo deputato alla preghiera e alla recezione dei doni di YHWH in cui normalmente YHWH manifesta la sua gloria, ma erano rimasti nel luogo “laico” dell’accampamento. Una situazione irregolare, fuori della norma. Eppure anch’essi ricevono lo spirito e si mettono a profetizzare.

Un ragazzo avvisa Mosè dell’irregolarità della situazione e del comportamento dei due. L’irruente servitore/attendente di Mosè, Giosuè, gli era stato vicino fin dalla giovinezza, ma mostra rigidità e durezza intransigente. Egli chiede con forza a Mosè: “Impedisci loro [di continuare]/eb. TM kelā’ēm/gr. LXX kōlyson autous” (cf. Mc 9,38.39).

Fosse tutto il popolo profeta!

Mosè si mostra largo di vedute e libero di spirito. “Fosse tutto il popolo di YHWH profeta!/mî yittēnkol-‘am YHWH nebî’îm” (trad. lett.), esclama sereno, «donasse YHWH il suo spirito su di esso» (v. 29). Il sostantivo “‘am/popolo” è un singolare collettivo in ebraico e può essere concordato sia col singolare che col plurale. Un popolo tutto profetico, quindi, un popolo tutto intriso dello spirito di YHWH!

È un sogno che Mosè, largo di cuore e vero “uomo spirituale”, intravede e desidera che si avveri fin da subito. Mosè non è geloso delle sue prerogative, dono di YHWH anch’esse. È felice della democratizzazione dello spirito e proclama un dono de facto quale dono de iure. Molto onesti e corretti i sacerdoti responsabili dell’ultima stesura del testo nel riconoscere e accettare questo “allargamento” di YHWH.

Il profeta Gioele intravede il compimento di questo sogno per gli ultimi tempi. «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito» (Gl 3,1-2).

Asceso in cielo, Gesù risorto ha ricevuto in pienezza lo Spirito e lo ha effuso con larghezza. Questo riconosce Pietro il giorno di Pentecoste: «Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). Il sogno inizia a realizzarsi prima per il popolo eletto di Israele (cf. At 2,1-4.16-21) e poi su alcuni rappresentanti dei popoli pagani (cf. At 10,44-48). «Nella pienezza dei tempi – recita il Prefazio comune VII – hai mandato il tuo Figlio, ospite e pellegrino in mezzo a noi, per redimerci dal peccato e dalla morte; e hai donato il tuo Spirito, per fare di tutte le nazioni un solo popolo nuovo che ha come fine il tuo regno, come condizione la libertà dei tuoi figli, come statuto il precetto dell’amore».

Mosè vide quel giorno e ne gioì (cf. Gb 8,56)…

Volevamo impedirglielo

A livello testuale è appena terminato un profondo insegnamento – e reprimenda allo stesso tempo – rivolto da Gesù ai Dodici circa la loro sete di potere e di primazia nel gruppo (cf. Mc 9,33-37).

Giovanni, però, uno dei due “figli del tuono” insieme al fratello Giacomo (Mc 3,17), manifesta ancora intatta la violenza repressa dell’intransigente che crede di essere l’unico deputato – insieme al gruppo dei Dodici invero – a partecipare (forse, in futuro) della potenza terapeutica ed esorcistica di Gesù (di fatto dimostratasi mancante nell’episodio del ragazzo epilettico raccontato poco prima, Mc 9,14-28, cf. soprattutto vv. 28-29!).

La frustrazione per l’incapacità dei Dodici di guarire il ragazzo epilettico si trasforma in invidia e gelosia per il dono dell’esorcismo goduto invece da un uomo non appartenente al gruppo ed esercitato “nel nome/persona/potenza/en tōi onomati” di Gesù.

Giovanni, quale portavoce anche di altri, afferma che “avrebbero voluto impedirglielo/ekōluomen” (imperfetto de conatu), dal momento che non apparteneva al gruppo istituzionale dei Dodici. Non seguiva il gruppo – “non ci seguiva/ouk ēkolouthei hēmin” –, non seguiva la sua prassi, è la giustificazione apportata da Giovanni per il tentativo inibitorio attuato da lui e da altri, senza aver chiesto nulla in precedenza a Gesù e avendo agito in modo autonomo.

Questo non impedisce che l’uomo potesse seguire Gesù al di fuori del gruppo, ma agendo nel suo nome, credendo in lui, almeno incoativamente.

Gesù comanda di “non impedire/mē kōluete” (cf. Nm 11,28 greco LXX) all’uomo di continuare a fare del bene (“una potenza/miracolo/dynamin”) avvalendosi del nome di Gesù. Gesù impedisce di impedire. Come Mosè nei confronti dell’irruente Giosuè, anche Gesù non cede alla richiesta “violenta” e intransigente di Giovanni e altri. “Impedire” in questo caso ha una forte valenza giuridica. Ecumenicamente, va accolto il bene ovunque e da chiunque sia fatto, e non va impedito se non ciò che è positivamente, volutamente e chiaramente contrario alla persona di Gesù e al cammino della Chiesa.

Con noi, contro di noi

L’azione esorcistica può essere connotata dalla magia e dalla simonia. Si veda l’iniziale atteggiamento magico di Simone il mago in At 8,9-11 e diventato addirittura simoniaco dopo la sua conversione e il suo battesimo in At 8,20-23. Così pure si può avere presente anche il “parallelo” comportamento infido e ingannatore del mago Elimas, punito a Cipro con la cecità da Paolo in vista della sua conversione.

Compiuta in buona fede, con animo retto ed esente da interessi personali, rifacendosi al nome/potenza di Gesù, un’azione esorcistica può essere invece un dono fatto da Dio Padre anche al di fuori del confine istituzionale del gruppo dei Dodici (ed ecclesiale in genere). Ci può essere tensione fra confessione cristologica (anche iniziale) e appartenenza ecclesiale. Ma il gruppo non può “impedire” che l’azione benefica di Dio, tramite quella del nome di Gesù (e dello Spirito) si espanda oltre i confini visibili dell’appartenenza ecclesiale.

Il Nome di Gesù agisce potentemente per il bene anche oltre i confini del gruppo e Gesù non si sente minacciato dall’azione del taumaturgo. Se “fa cose potenti/miracolose/poiēsei dynamin” nel nome di Gesù, non potrà subito dopo “parlare male/kakologēsai” di lui.

Il principio ecclesiologico esposto da Gesù è chiaro: «Chi infatti non è contro di noi, è per noi». A livello ecclesiologico, occorre essere grandi di cuore e di vedute teologiche e spirituali. Il detto, a prima vista parallelo, «chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,30 = Lc 11,23) è centrato, invece, sul Cristo Gesù e «vuole sottolineare l’assoluta radicalità della sua scelta. Il testo di Marco ha più una portata ecclesiologica e, saggiamente, indica la relatività di ogni appartenenza a un gruppo con una determinata pratica» (B. Standaert, corsivo mio). I due detti non si contraddicono.

Certamente, il confine non è sempre facile da discernere. Ironico e sarcastico è lo sbeffeggio che lo spirito cattivo rivolge agli esorcisti giudei che a Efeso tentano fraudolentemente di servirsi del nome di Gesù per operare esorcismi: «Conosco Gesù e chi è Paolo – afferma – ma voi chi siete?» (At 19,15). Non appartengono né a Gesù, né a Paolo e – sembra – nemmeno al principe del male… Non sono di nessuno. Apprendisti stregoni, insignificanti ciarlatani.

Il bicchier d’acqua e lo scandalo

Collegato alla pericope precedente (vv. 38-39) dalla parola-gancio (mot-crochet) “nome/onoma” (vv. 38.39.41), nel v. 41 viene promessa una ricompensa escatologica (“non perderà/mē apolesēi) a chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua (“acqua fresca/psychrou” è meglio, se possibile, precisa Mt 10,42…) a uno dei discepoli in quanto “appartenenti a Cristo” (e quindi al “noi” del v. 40).

Un piccolo gesto di solidarietà – molto apprezzato nella calura asfissiante del Medio Oriente –, anche compiuto da una persona non appartenente al corpo ecclesiale, non andrà perduto ma valorizzato nella vita definitiva.

Segue una pericope intessuta sulla terminologia dell’“inciampo/far inciampare/scandalo/scandalizzare/skandalon/skandalizein (vv. 42.43.45.47) rivolto con severità a quanti pongono ostacoli gravi e fanno inciampare «uno di questi piccoli che credono in me» (v. 42), cioè discepoli di Gesù ancora ai primi passi e con una fede vacillante e debole a causa della loro precedente vita pagana.

I “piccoli” che credono in Gesù (la presenza di “in me/eis eme” è dibattuta a livello di critica testuale), “sono di Gesù” (v. 41), appartengono al “noi” ecclesiale menzionato nei versetti precedente (vv. 38.41). I vv. 42-48 sono quindi strettamente collegati a quelli precedenti (vv. 38-30.41).

Nella difesa dei “piccoli”, le parole usate da Gesù sono durissime, e anche quelle concernenti lo “scandalo/inciampo” che uno può causare a se stesso sono di una radicalità assoluta, anche se chiaramente non interpretabili alla lettera.

A differenza del Vangelo di Matteo, dove ci si rivolge ai “forti” della comunità che disprezzano i “deboli” e che vogliono estirpare con intransigenza prima del tempo la zizzania dal campo del buon grano costituito dal mondo/Chiesa (cf. Mt18,8-9), il Vangelo di Marco fa un discorso più generale, rivolto ad ognuno, anche se in modo sempre più stringente.

Tagliare via per trovare

Colui che scandalizza uno dei “piccoli” merita di essere impiccato a una macina da mulino girata dagli asini e gettato nel “mare”, l’abisso del male a cui appartenere per l’eternità. Oltre ai “piccoli” nella fede, Gesù ha presente senz’altro anche i piccoli tout court. Chi li “scandalizza” non merita davvero pietà.

Il linguaggio si fa quindi più stringente e interpellante (Se il tuo…). Anche chi “scandalizza” se stesso, lasciando che la propria operatività (“mano/cheir”, v. 43), l’impostazione nel cammino della vita (“piede/pous”, v. 45) o la porta visiva attraverso cui il mondo intero entra nel corpo umano (“occhio/ophthalmos”, v. 47) mettano seriamente in pericolo la propria appartenenza a Cristo Gesù, deve essere molto deciso.

Occorre “tagliare via/ekkopson” l’organo interessato alla débâcle ed entrare così, anche mutilato, nella vita in pienezza (“zōē”, non bios, v. 43.45), cioè nel “regno/basileia” (v. 47) di Dio, piuttosto che, integro, andare nella Geenna della vita fallita (vv. 44.46.47), dove il fuoco maligno e il verme vorace divorano per sempre la vita, il suo senso, la sua bellezza, già rovinata con le proprie mani nei giorni terreni.

Non si tratta di mutilare gli organi umani, ma di vigilare strettamente sui sensi spirituali.

Il “piede” non può percorrere la strada ampia ma scivolosa che porta all’autodisfacimento.

La “mano” non può arraffare tutto, trasformando il bello e il buono nella cenere di Narciso.

Il cuore/occhio non può guardare tutto, anche ciò che disprezza la dignità dell’uomo e del creato.

Il cuore/coscienza non può diventare una prateria dove scorrazzano bradi i cavalli di ogni ideologia umana.

Il cuore/mente non può abbracciare tutto e il contrario di tutto, chiamando bene il male e male il bene.

Il cuore/affetto non può diventare una palude stagnante dove marciscono la bellezza del corpo umano, della sessualità, lo stupore che ogni persona umana suscita al suo solo comparire.

Il cuore/desiderio ha sete di verità, di vita piena, di integrazione olistica di tutte le meraviglie che la vita offre nel mondo creato da Dio. Ha sete di affidamento, del luogo in cui far riposare l’“eccedenza” che lo abita.

Il Cristo è “eccedenza” in noi.

Bellezza, via, verità, vita.

È la profezia annunciata ancora oggi dalla Chiesa.

Fosse profeta tutto il popolo di Dio!

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