XXVII Per annum: La vigna dell’Amato

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Spesso YHWH è presentato nella Bibbia come un pastore che ha una grande cura per il suo gregge, il popolo che lo segue fra le svariate vicende della storia con altalenante vigoria della fede (cf. Ez 34; Sal 23). Meno ricorrente è l’immagine della vigna e dell’attività di YHWH come vignaiolo (cf., oltre a Is 5,1-7, Gv 15,1-10, dove però la vigna del popolo è riassunta nella vite vera che è Cristo, i cui discepoli sono i tralci strettamente uniti a lui, unica e indispensabile modalità per portare frutto).

Il canto dell’amore

Il lettore biblico conosce già la decodificazione vigna = Israele, ma deve anch’egli sforzarsi di mettersi in ascolto amoroso dello struggente canto sulla vigna dell’Amato/dôd (lo stesso termine impiegato nel Cantico dei Cantici dall’Amata/fidanzata nei confronti del suo Amato/fidanzato), intonato da un suo carissimo amico, l’amico del cuore (e se fosse una donna l’autrice?).

Il tono è struggente, colmo di ammirazione e di rimpianti, memore di un lavoro assiduo e attento, seguito da un grido trafiggente per una dolorosa sorpresa, da domande inaspettate e laceranti, che non ottengono alcuna risposta.

Cosa non aveva fatto l’Amato per la sua vigna, sua carissima proprietà piantata su un collina appuntita come un corno, con una splendida esposizione al sole intenso della terra di Israele, in un terreno “figlio dell’olio/grasso/fertile/ben-šāmen”? Non si era risparmiato alcun duro lavoro, sotto il sole accecante e sfiancante della terra sua, la Terra del Santo.

L’amico ricorda cinque azioni impegnative dell’appassionato viticoltore. Egli era passato attentamente con l’aratro, metro per metro; aveva sgombrato il terreno dai numerosi sassi che erano emersi dopo questo primo lavoro d’amore, preparatorio. Aveva eliminato i sassi della cecità e della sordità.

Il vitigno scelto

Al mercato aveva comprato vitigni scelti, di primissima qualità (śōreq). Nella fertile Valle di Soreq, che da Gerusalemme scende in direzione sud-ovest verso Gaza bagnata dall’impetuoso torrente Soreq, abitava Dalila, amata da Sansone.

Śōrēqāh è soprattutto la vigna scelta a cui il Messia legherà il suo asinello, secondo la benedizione rivolta da Giacobbe-Israele a Giuda, una benedizione che è poi diventata una profezia messianica: «Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Il vino prodotto da quell’uva è rosso scuro, sangue d’uva scuro, come più scuri di esso sono gli occhi del messia.

La tradizione ebraica vi ha tessuto pagine affascinanti di commento a partire dai particolari consonantici dei termini. Il vino di Soreq era inteso come riservato ai principi e aveva «la proprietà di “accendere il fiacco”, sia rendendo forze allo stanco, sia con indubbie capacità terapeutiche in quanto il vino rosso è particolarmente ricco di polifenoli con note proprietà antiossidanti e antimicrobiche» (A. Conti Puorger). Un vino che fa risorgere i morti, il sangue del Messia…

Non basta piantare e irrigare la vigna dell’amore, occorre anche proteggerla dalla violenza distruttrice degli animali selvatici e dai nemici invidiosi. Una “torre di guardia /migdāl” servirà a questo, mentre la buca del “tino/yeqeb” viene scavata proprio nel suo centro. Non resta che “attendere nella speranza/qawweh” e con pazienza il frutto atteso da tanta cura prodigata e dalla specialità pregiata comprata a caro prezzo al mercato, sulla piazza antistante la porta della città.

Uva di prima qualità sperava l’Amato, acini acerbi (secondo alcuni “cose puzzolenti”) produsse di fatto. La sorpresa è atroce e lacerante. Cosa poteva fare di più l’Amato che non avesse fatto… Le sua parole erano state “de bārîm/parole-fatti”, non pure promesse aleatorie o flatus vocis.

Il rîb dell’Amato

L’Amato non si rassegna, ha bisogno di sfogarsi, di parlare apertamente al popolo. Apre un rîb, una lite giudiziaria bilaterale, che lo metta a confronto con l’accusato. L’intento non è quello tipico di un giudizio forense triangolare, con le due parti che si presentano a un giudice, così da poter arrivare a un giudizio di colpevolezza e di eventuale “distruzione” del reo.

YHWH non vuole distruggere, ma correggere nella verità per ricuperare l’amata vigna alla sua vera natura, perché ritorni a produrre quell’uva meravigliosa che ci si aspetta da vitigni di prima qualità.

YHWH chiama i testimoni a constatare che, da parte sua, ha fatto tutto quello si doveva fare per una produzione eccellente di vino pregiato. Riesprime con una domanda retorica la sua convinzione di estrema correttezza da parte propria. È uno sfogo dell’animo di fronte ad amici, alleati, il popolo. Una presenza testimoniale che inchioderà il popolo stesso alle sue responsabilità, nell’ascoltare dall’Amato le deluse e appassionate parole finali di decodifica apposte al Cantico d’amore.

YHWH espone i suoi propositi di verità nella carità (cf. Ef 4,15: «… agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo»).

Il primo passo della riconciliazione è la presa d’atto degli sbagli commessi, decostruire i percorsi sbagliati che non portano da nessuna parte, desertificare le radici velenose di affetti e di comportamenti distruttivi, “acerbi e/o puzzolenti”.

YHWH ha intenzione di fare “piazza pulita”, desertificare, spianare le macerie, far seccare anche le radici profonde del male “acerbo/puzzolente”. Il terreno va bonificato da scorie radioattive sversate in continuità nel terreno profondo. Non basta bruciare le condotte immonde, bruciare in superficie, aggiungendo danno a danno. Una “terra dei fuochi” fa ammalare ancora di più.

La decodifica sconcertante

La decodifica arriva come un pugno nello stomaco ai testimoni astanti, che credevano che il profeta parlasse di altri nel suo appassionato “Cantico della vigna”.

La vigna fedifraga è il popolo amato che ha deluso profondamente, non ha corrisposto nella verità alla natura del suo DNA e alle attenzioni che sono arrivate perfino a curarlo e a modificarlo nelle sue eliche malate. Esso doveva corrispondere alla “speranza fiduciosa/qawwehda cui “speranza/tiqwāh”, titolo dell’inno nazionale di Israele – dell’Amato.

Egli esprime tutto il suo amore deluso con icastici accostamenti di termini ricchi di assonanze, che sono tante rasoiate al cuore della vigna pregiata e amata. YHWH si aspettava dal suo popolo “diritto/giustizia/mišpā” ed ecco invece germogliare impudente l’acerbo/puzzolente “spargimento di sangue/miśpā”. Si attendeva speranzoso da esso “rettitudine/giustizia/edāqāh” ed ecco invece alzarsi alte le “grida di oppressi/ eāqāh”. Assonanze tragiche, perversioni facili, sempre sveglie dietro l’angolo. «La fede non si spiega, si vive, si mostra», diceva un appassionato arcivescovo. YHWH ha spiegato, vissuto, mostrato, modificato, liberato, condotto, piantato. Non è bastato.

La vigna sono le persone, un popolo. E YHWH desertifica il male, le radici, gli atteggiamenti. Non le persone. Egli compie una “verifica” scarnificante, ma in vista del recupero al buon rapporto di alleanza che da secoli lo lega al popolo della promessa.

Il “Cantico della vigna” è un’appassionata e amara requisitoria veritativa, prima parte – lacerante ma necessaria – di una lite giudiziaria bilaterale amorosa che tende alla pacificazione, nella verità, delle due parti legate da affetto e amore. L’amara requisitoria non è l’ultima parola, ma pur sempre la prima, necessaria, parola. La storia fra YHWH e Israele tornerà a conoscere tempi migliori.

I vignaioli omicidi

Dopo quella del “padre e i due figli dissimili” (Mt 21,28-32) – proclamata domenica scorsa –, ascoltiamo “un’altra parabola” (28,33) rivolta da Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo (ivi) mentre insegnava nel tempio (21,3) dopo la prima delle cinque dispute che dovrà sostenere, quella sulla sua autorità (21,23-27).

Il v. 45 (non letto nella liturgia…!) menziona invece come uditori di «queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei», che comprendono che Gesù sta parlando di loro e per questo iniziano le manovre per cercare di catturarlo. In effetti, la parabola pronunciata da Gesù è “pesante” nei loro confronti, e il modo più spiccio per risolvere i problemi non è quello di cambiare vita, ma eliminare “l’avversario” che ci dice la verità…

Bellissimo il “dialogo” (M. Grilli) continuo tra AT e NT, che va ben oltre le rigide categorie di “premessa-compimento-superamento”. Impossibile comprendere il NT senza un continuo andirivieni con l’AT. Tutte le categorie interpretative sono già predisposte, basta solo essere attenti ai movimenti di avanzamento, di approfondimento e di cambiamento, da incentrare però principalmente nella novità costituita dalla persona e dalla prassi di Gesù, Figlio e Rivelatore del Padre, suo plenipotenziario definitivo e decisivo.

Un uomo affitta [a suo vantaggio] la sua vigna curata a dei contadini e parte per un paese lontano, assente/presente dal nostro mondo attuale. Più che naturale che egli, al “tempo opportuno/denso/decisivo dei frutti/ho kairos tōn karpōn”, mandi i suoi servi a “ricevere/prendere i suoi frutti/labein tous karpous autou”.

I frutti appartengono all’“uomo” partito per un paese lontano. Lui infatti è legittimamente “il signore/padrone della vigna/ho kyrios tou ampelōnos” (v. 40) e di tutti i suoi frutti, fermo restando il giusto compenso – implicito – spettante ai contadini fittavoli.

Con chiara trasparenza alla storia della salvezza Gesù ricorda l’invio costante e premuroso da parte di YHWH dei suoi servi e profeti a illuminare il suo popolo, con esito negativo: «Da quando i vostri padri sono usciti dall’Egitto fino ad oggi, io vi ho inviato con assidua premura tutti i miei servi, i profeti; ma non mi hanno ascoltato né prestato orecchio, anzi hanno reso dura la loro cervìce, divenendo peggiori dei loro padri» (Ger 7,25-26; cf. 25,4; 256,5; 29,19; 44,4; 2Cr 36,15).

La novità sta nel fatto che i contadini fittavoli sperano di ottenere in eredità la vigna maltrattando e uccidendo i servi del loro padrone/signore, arrivando per questo perfino a trucidarne il figlio. Forse era previsto dal diritto che, in mancanza di eredi legittimi, alla morte presunta di un padrone lontano da tempo dai suoi possedimenti, i beni passassero in eredità a coloro che, nel frattempo, ne avevano avuto cura su suo ordine. Ma un conto è la morte naturale – o l’assenza – dei legittimi eredi, un altro è uccidere perfino il figlio del padrone per perseguire i propri scopi illegali e assassini.

Un popolo che fa frutti

Nella parabola il figlio è cacciato fuori della vigna e quindi ucciso. Gesù sarà ucciso fuori della città di Gerusalemme (all’angolo nord-ovest, poche decine di metri al di là del “secondo muro”, passata la “Porta del Giardino”). «… anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città», afferma Eb 13,12. Muore da emarginato perché «(Dio) lo fece peccato in nostro favore» (2Cor 5,21), riscattandoci «dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi» (Gal 3,14).

Muore reietto fuori delle mura, ma ben dentro la propria vigna, la vigna del Padre-Signore, la vigna del Figlio-Signore risorto, la vigna dell’erede/seme “pieno e vero/unico” di Abramo a cui erano state fatte le promesse: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: “E alla tua discendenza”, come a uno solo, cioè Cristo» (Gal 3,16).

I contadini fittavoli fanno un ragionamento sbagliato, probabilmente illogico ed esagerato, certamente iniquo, illegale e omicida. Eppure, con una chiara e voluta ironia narrativa, essi stessi, i “nemici”, affermano “inconsapevolmente” con le loro stesse parole “la verità”. Secondo quelle parole, essi stessi (e non solo i fittavoli del racconto) meriterebbero la morte, secondo la corretta esecuzione della legge del taglione, la lex talionis (subire la stessa sorte/danno inflitta ingiustamente dal reo alla sua vittima).

Con una domanda diretta Gesù “strappa” dalla stesse labbra degli ascoltatori della parabola il giusto giudizio che si meritano i colpevoli dell’azione malvagia compiuta nel racconto da parte di colui che Gesù disambigua ora chiaramente come il “padrone/signore della vigna (v. 40). «I malvagi malvagiamente farà perire/farà andare perduti definitivamente essi/Kakous kakōs apolesei autous»(v. 41a, lett.): questa è la prima parte dell’(auto)giudizio emesso dagli ascoltatori stessi (i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, v. 23; da aggiungere “i farisei” del v. 45, che ben hanno inteso che Gesù si riferiva anche a loro…).

Ancora una volta “l’effetto parabola” (A. Jülicher e R. Fabris) si compie perfettamente, un “effetto” che si può ottenere solo con la parabola, e non con altri tipi di insegnamento.

Segue la seconda parte dell’(auto)giudizio “inconsapevole”: «e la vigna darà in affitto [a suo vantaggio] ad altri contadini che renderanno-di-ritorno a lui i frutti nei tempi opportuni/densi/definitivi di essi» (v. 41b, lett.).

La pietra angolare

Il padrone/signore della vigna darà la sua vigna a un popolo (non “a un altro popolo”!), che gli renderà “i frutti” nei loro tempi”. Sono lo stesso popolo, ma con guide religiose diverse, più attente alla volontà di Dio che si manifesta nel tempo. I frutti sono della vigna, ma vengono in definitiva dal padrone/signore stesso della vigna.

I frutti deriveranno dal compimento più sovrabbondante (cf. Mt 5,20) della giustizia di Dio, cioè della volontà di Dio rivelata da Gesù. Frutti che derivano da una vita di figli di Dio, non dall’osservanza – seppur scrupolosa – della Legge. Il popolo – guidato da altri capi – farà qualcosa di sovrabbondante (cf. Mt 5,47), un compimento qualitativamente diverso della volontà di Dio, cioè della sua “giustizia”.

Gesù riprende nel v. 43 la risposta degli interlocutori, decodificando però i referenti al di fuori del racconto. La vigna è il regno di Dio, la sovranità di Dio che si esercita beneficamente su chi la accoglie, portando riscatto e vita piena. Esso sarà tolto alle guide socio-religiose attuali del popolo della promessa – i capi dei sacerdoti, gli anziani del popolo, i farisei (cf. vv. 23.45) – e dato a un popolo – lo stesso, ma con guide diverse e rinnovato nel profondo – che faccia (in continuità) i frutti di esso (lett. “di essa”, essendo il Regno – he basileia – femminile in greco).

Inserito probabilmente in un momento successivo, il v. 42 riporta la citazione del Sal 118,22-23 che allude al mistero pasquale della «pietra disprezzata dai costruttori», diventata pietra d’angolo per un’opera meravigliosa del Padre.

La pasqua di Gesù renderà feconda la sua vigna in modo paradossale. Il suo sangue/la sua pro-esistenza/la sua vita donata per amore sarà il vino della vigna di Soreq, vino spremuto dalla vigna di Israele, popolo mai rigettato per essere sostituito dalla Chiesa. «Infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili/senza pentimento» afferma coraggiosamente Paolo (Rm 11,29).

La pietra angolare raddrizzerà il popolo prediletto di Israele e i figli credenti del popolo messianico rinnovato (non nuovo!) proveniente dalle genti. Uniti in un solo corpo per formare, dei due, una cosa sola, un solo uomo nuovo, in un solo corpo (cf. Ef 2,14-16), un’unica famiglia di eredi, la famiglia dei figli di Dio.

La vigna ultima e bellissima dell’Amato.

 

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