XXVII Per annum: Utilissimi, ma senza pretese

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Il “basilico” interpella YHWH

«Abacuc è uno dei profeti di cui sappiamo meno» (L. Alonso Schökel). Di lui non si sa l’epoca in cui visse. Le date proposte per la composizione del libro vanno dal 701 a.C. al 330 a.C. Probabilmente visse però nel regno di Giuda al tempo di Ioiakìm (605-598, oppure 608-597), un re odioso e inetto che si rese inviso ai suoi sudditi per la politica dispotica che caratterizzò il suo regno (cf. Ger 22,13-17). Non si sa nulla neppure della città di provenienza e del lavoro da lui svolto. Nel libro viene detto due volte nābî’ (1,1; 3,1).

“Abacuc/Ḥabaqqûq” è un nome unico nell’AT. La forma è simile all’arabo ḥabaqīq (“basilico”) o “ḥabaq/menta acquatica”. Forse, a partire dall’accadico, indica una pianta da giardino. La radice ebraica ḥbq indica invece “abbracciare”. I traduttori greci della LXX hanno avuto difficoltà a comprendere il nome e lo modificarono leggermente in Ambakoum. Un racconto midrashico lo fa l’eroe che visita Daniele nella fossa dei leoni.

In Ab 3,1 si titola la pericope che segue: «Preghiera del profeta Abacuc “sul tono delle lamentazioni/‘al šigyōnôt”». La radice ebraica šgh significa “errare”, “perdersi”, “non camminare diritto”, “commettere un errore”. Il termine šigyōnôt potrebbe allora «riferirsi a cose che sono andate male e che hanno bisogno di essere rese migliori» (Donatella Scaiola, che seguiamo in queste note, è la migliore specialista italiana sul Libro dei Dodici, i cosiddetti “Profeti Minori”, considerati in antichità come un unico libro; cf. il suo commentario a Naum, Abacuc e Sofonia, ed. San Paolo, Cinisello B. 2013 [collana NVBTA 16] e il suo volume di commento a tutti i “Profeti minori”: I Dodici Profeti: perché “Minori?”. Esegesi e teologia [Collana Biblica s.n.], EDB, Bologna 2011).

Le due parti del libro (Ab 1–2 e 3) sono introdotte ciascuna da un titolo (1,1 e 3,1). La prima parte (1,2–2,6a) contiene due dialoghi tra il profeta e YHWH. Abacuc dapprima si lamenta (1,2-4) e poi supplica il Signore (1,12-17). YHWH gli risponde entrambe le volte (1,5-11 e 2,1-4). Segue una serie cinque “guai/hôy” (2,5-20: vv. 6b-8.9-11.12-14.15-17.18-20).

La vedetta aspetta la replica

Dopo il titolo (3,1), la seconda parte (3,2-19) comprende una preghiera, che potrebbe esse stata un’aggiunta al libro originario, ma che è molto importante per la forma finale del libro. «Dopo che Abacuc ha presentato a Dio la sua visione della realtà, nel c. 3 attesta la sua fede lodando il Signore, nonostante gli interrogativi che il dilagare dell’ingiustizia a livello sociale e internazionale pone al credente. Difficile, per Abacuc, come per altri personaggi biblici, è conciliare fede e vita, si potrebbe dire, cioè comprendere il modo in cui Dio agisce (o il motivo per cui non interviene) nella storia» (D. Scaiola).

Abacuc interpella YHWH, senza accontentarsi delle risposte elaborate dalla tradizione. «Tu, che hai gli occhi troppo puri per vedere il male e non puoi guardare l’oppressione, perché stai a guardare i traditori, “taci [taḥărîš]” quando il malvagio ingoia chi è più giusto di lui?», si lamenta il profeta (1,13, tr. Scaiola).

La domanda angosciata è stata lanciata, la sentinella aspetta la risposta: «Voglio stare “al mio posto di guardia [‘al-māṣôr]”, voglio collocarmi “sul luogo di vedetta [‘al –mišmartî < šāmar]”» (2,1, trad. Scaiola). «Solo il dialogo con Dio, la domanda, l’obiezione, l’atteggiamento di fede, la speranza contro ogni speranza costituiscono la via giusta di interpretazione del corso della storia e dei problemi che pone», commenta il grande esegeta spagnolo L. Alonso Schökel.

YHWH, sordo e inerte di fronte alla violenza?

Abacuc è sconvolto nell’intimo dallo scandalo che la sua fede subisce di fronte all’apparente “sordità” di YHWH ai suoi appelli. Il profeta chiede aiuto, perché è stanco di denunciare al suo Dio la “violenza/ḥāmās” che dilaga nel paese, senza che YHWH intervenga a salvare (welō’ tôšîa‘ [< yāša‘])! (cf. Ab 1,2).

La “violenza” è un termine che intende abbracciare ed esprimere tutte le forme del male presenti nel paese, ridotte alla loro radice comune. E il profeta continua la sua accusa a YHWH: «Perché mi fai vedere “l’iniquità [’āwen]” e guardi senza reagire l’oppressione [‘āmāl]? Assisto a rapine e violenze, nascono risse e le discordie crescono» (Ab 1,3, trad. Scaiola).

«Fino a quando, YHWH, chiederò aiuto senza che tu mi ascolti?» è l’attacco della requisitoria che Abacuc rivolge a YHWH subito dopo il titolo del suo libro (Ab 1,1). Egli denuncia l’apparente silenzio, il distacco, l’inazione di YHWH di fronte all’enormità dei mali più vari che distruggono il tessuto sociale del paese.

Un “malvagio/rāšāh” sta travolgendo la vita della gente, intorpidendo la legge, facendo sparire il diritto e intrappolando il giusto (cf. Ab 1,4). Sembra che non si tratti di un popolo straniero, ma degli israeliti intesi in senso collettivo. Un popolo diviso in se stesso, che si scarnifica con parole e azioni violente, dimenticando il dialogo sociale e la giustizia umana minimale stabilita dai codici per proteggere lo svolgersi sereno della vita comunitaria.

Violenza e caos, smarrimento dei riferimenti giuridici minimali, atmosfera di tutti contro tutti, con i potenti che la fanno da padroni. Stravolgimento delle regole del buon vivere, rovina del tessuto di convivenza sociale con violenze verbali, insulti, minacce, ingiustizie sociali ed economiche ingiustificabili e insopportabili…

Un ritratto purtroppo attualissimo, a livello nazionale e internazionale.

Non tarderà!

In Ab 1,5-11 arriva la prima risposta di YHWH al lamento di Abacuc: il malvagio sarà punito. Abacuc però non demorde, e stavolta il suo lamento riguarda la natura oppressiva dei babilonesi (1,12-17). YHWH non fa mancare una seconda risposta (2,1-4): una replica alla sua “recriminazione/‘al-tôkaḥtî” espressa in un soliloquio del profeta che dà voce alle sue parole tra visione e parola scritta.

Il profeta-sentinella deve mettere per iscritto il contenuto della “visione/ḥāzôn” della quale YHWH lo rende partecipe. In antico il profeta veniva chiamato anche “veggente/ḥōzeh”, spesso con significato negativo: cf. 2Sam 24,11: Gad il profeta “veggente” al servizio di Davide; 2Re 17,13: di continuo profeti e veggenti inviati da YHWH avevano scongiurato il popolo – inascoltati – perché si convertisse; Is 29,10: YHWH ha chiuso gli occhi di Gerusalemme – cioè i suoi profeti –, ha velato i suoi “capi/rā’šêkem” – cioè, i suoi veggenti; 30,10; Am 7,12: titolo spregiativo con cui nella cappella regale di Samaria il sacerdote-profeta di corte Amasia etichetta il profeta Amos, invitandolo a tornarsene immediatamente a casa sua e a profetizzare là per guadagnarsi il pane; Mi 3,7: YHWH condanna i profeti/veggenti che emettono i loro oracoli solo quando hanno qualcosa sotto i denti da masticare, cf. v. 5).

Abacuc è invitato da YHWH a metter per iscritto il contenuto della visione, perché essa è puntata verso un “termine preciso/mô‘ēd” e tende “al suo compimento/fine/laqqēṣ”. Il termine qēṣ ha un significato escatologico. Deve ancora compiersi, è imprevedibile nel suo compimento temporale, che può subire una più o meno lunga dilazione. L’impegno di YHWH è però certo nella realizzazione del suo contenuto. Cf. il termine qēṣ in Gen 4,3; 8,6; 41,1; Es 12,41; Ez 35,5.

L’esperienza concreta di Abacuc è dura, sconcertante. Però la «visione non mente, nonostante le apparenze contrarie che potrebbero far sorgere interrogativi circa la sua veridicità…[è] il paradosso della fede: da un punto di vista umano, infatti, la visione sembra ritardare il suo compimento a motivo del lungo intervallo che richiede, ma, dal punto di vista di Dio, la certezza di un tale compimento è assoluta, non può essere messa in discussione» (D. Scaiola).

Il giusto per la sua fedeltà vivrà

Al compimento del contenuto della visione è collegato però strettamente un aspetto antropologico, che riguarda il duplice atteggiamento che l’uomo può prendere come stile di vita di fronte a YHWH e alle sue promesse.

Ci troviamo al detto molto celebre di Ab 2,4, “pescato” anche dall’apostolo Paolo quale prova scritturistica principe della tesi fondamentale che egli espone nella sua Lettera ai Romani (Rm 1,16-17).

Il primo atteggiamento che l’uomo può assumere come stile di vita è quello dell’arroganza.

Ab 2,4a di solito è tradotto: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto» (cf. CEI 2008). Questa traduzione non si basa sul testo ebraico, ma su quello greco della LXX. Invece di tradurre il verbo raro “‘pl/essere gonfio”, che compare solo un’altra volta in Nm 14,34, la LXX ha tradotto l’altro verbo, più comune, “‘lp/venir meno”: hyposteilētai. Scelta voluta o errore scribale, la traduzione si è imposta nella traduzione ebraica e in quella cristiana.

Ab 2,4b è normalmente tradotto: «mentre il giusto vivrà per la sua fede». In questa traduzione il versetto assume la forma di una massima sapienziale che esprime la dottrina tradizionale della retribuzione, secondo la quale l’empio viene punito mentre il giusto riceve vita grazie alla sua onestà.

Dove sarebbe la “novità” dell’oracolo tradizionale di Abacuc? Sarebbe data dal contesto in cui risuona, cioè il problema della teodicea, vale a dire il problema dell’agire storico di Dio che sembra smentire le sue promesse. Poter ribadire la fede tradizionale in tale contesto sarebbe già una novità. Il giusto riceve la ricompensa perché rimane fedele alla Torah e non adotta uno stile arrogante tipico dei furbi, dei violenti, dei forti, dei “rampanti” che invece sono destinati a venir meno (cf. Sal 1,6).

La versione tradizionale mette dunque in risalto il fatto che il giusto vive, mentre l’empio soccombe.

  1. Scaiola suggerisce di tradurre invece Ab 2,4 nei termini seguenti: «ecco, è gonfia di orgoglio, non è retta in lui la sua coscienza/hinnēh ‘uplāh lō’ yāšār napšô bô, ma il giusto per la sua fedeltà/weṣaddîq be’ĕmûnātô yiḥyeh».

Abacuc contrappone «due tipi di persone – commenta la studiosa –: da una parte, chi si gonfia di orgoglio, il presuntuoso, dall’altra, chi obbedisce al Signore e confida in lui. Costui vivrà, anche se apparentemente la sua scelta non riceverà un premio esteriore, non sarà indicata cioè dagli status simbols tradizionali (figli, ricchezza, lunga vita ecc.). Al contrario, questo giusto potrebbe addirittura essere ucciso, senza che Dio intervenga a salvarlo» (Scaiola 2011).

Il giusto vivrà della sua ’ĕmûnāh. Tradotto normalmente con “fede”, il termine ha un significato etimologico più ampio, a partire dal suo significato di “stabilità”.

Lasciando ampiamente spazio alle parole della specialista D. Scaiola si può dire che la ’ĕmûnāh «si identifica con un modo di agire che scaturisce da una stabilità interiore: è, nello stesso tempo, un’attitudine interiore e una condotta esteriore che da essa deriva e che ne diventa espressione, traducendola in un comportamento, caratterizzato da affidabilità, coscienza, sincerità, stabilità. A differenza dell’uomo orgoglioso, l’uomo giusto – il credente – non confida in sé o nelle sue personali risorse per sostenere la sua esistenza ma accetta di affidarsi a Dio, mettendo la propria vita nelle sue mani, confidando nel fatto che Egli le darà compimento. La fede così concepita è connessa alla fedeltà, nel senso che si riferisce a un comportamento stabile, non occasionale; esprime una convinzione che non teme smentite di carattere empirico, storico, e che nemmeno la prova più difficile da superare, quella della sofferenza, riesce a scalfire» (Scaiola 2013).

Lo stile di vita di colui che assume come sentimento intimo e come atteggiamento esterno quello di una fedeltà stabile a Dio è “giusto”, si rapporta cioè in modo corretto con YHWH, al quale è legato da un rapporto di alleanza. La fedeltà all’alleanza è ciò che la Bibbia chiama “giustizia/ṣedāqāh.

Fedeltà di chi?

Il testo ebraico di Ab 2,4 esprime la convinzione che il giusto “per la sua fedeltà vivrà/ be’ĕmûnātô yiḥyeh”.

La traduzione greca dei LXX punta invece sulla fedeltà di Dio alla sua alleanza con l’uomo credente: «il giusto per la mia fedeltà vivrà/ho de dikaios ek pisteōs mou zēsetai» (Ab 2,4LXX).

Nella sua citazione di fondamentale importanza per la sua dimostrazione teologica della Lettera ai Romani, Paolo sopprime l’aggettivo possessivo espresso col pronome personale ed enuncia in tal modo un’affermazione generale nella quale la pistis/fede/fedeltà può essere collegata sia a Dio che all’uomo: «il giusto per la fede vivrà/ho de dikaios ek pisteōs zēsetai» (Rm 1,17).

Dal silenzio la fede

Dalla profondità della storia, da un profeta a noi completamente sconosciuto come Abacuc arriva l’affermazione radicale della fede ebraica e cristiana.

L’urlo di fronte alle ingiustizie storiche, al male compiuto dagli uomini e in ogni caso presente nel mondo si scontra con l’apparente silenzio e inazione di Dio.

Abacuc ha avuto il coraggio – e l’ispirazione (divina) – di urlare la domanda accorata dell’uomo di ogni tempo, ricevendo la risposta “impegnativa” di YHWH. Questa non esautora l’uomo dalla sua più alta dignità, cioè la fede/fedeltà: “il giusto per la sua fedeltà vivrà”.

La vita sgorga dalla fedeltà vissuta dall’uomo che si affida a Colui che gli è alleato fedele in ogni caso, senza se e senza ma.

Aggiungici fede!

Nel commento a Lc 15,1-32 letto nella XXIV domenica per annum C riportavamo la struttura retorico-letteraria proposta da R. Meynet per la sezione 15,1–17,10. In essa la prima sezione 15,1-32 era posta in relazione con l’ultima delle sottosequenze estreme dello schema concentrico, Lc 17,1-10:

Accogliere il fratello peccatore che si pente

Tornato dal lavoro dei campi,

non inorgoglirsi di non aver disobbedito ai comandamenti del padre (15,1-32)

Perdonare il fratello che si pente

Tornato dal lavoro dei campi,

non inorgoglirsi di aver fatto ciò che era comandato (17,1-10).

Va notato però che, mentre nel primo caso i temi evidenziati si mescolano nel testo, in 17,1-10 sono ben distinti: perdonare il fratello che si pente (vv. 1-4), richiesta della fede (vv. 4-5), non inorgoglirsi solo per aver fatto ciò che era stato comandato (vv. 6-10).

Gesù comanda ai discepoli di non procurare scandali/inciampi alla fede dei piccoli, cioè dei fratelli che hanno appena iniziato il cammino della sequela. In ogni caso, è necessario perdonare al fratello che pecca.

Per non cadere nel peccato e nell’orgoglio, per non scandalizzare e, ancora più, per avere la capacità di perdonare il fratello, occorre avere molta fede in Dio, tale da ottenere da lui che un albero sia sradicato (ekrizōthēti) e trapiantato nel mare. Il comando è espresso con un imperativo aoristo passivo (passivum divinum!).

Per perdonare è necessaria una fede carismatica enorme, ben più grande di quella donata a tutti nel battesimo (cf. 1Cor 12,9, inteso però con A. Vanhoye in senso distributivo e non generalizzante): fede carismatica, non puramente battesimale. Non una fede spettacolarizzante, esibizionistica e miracolistica. Gesù ha respinto fin dagli inizi della sua attività pubblica questa duplice grave tentazione diabolica, oltre a quella del potere esercitato in modo oppressivo (cf. Lc 4,1-13). Occorre una fede che ottenga da Dio lo sradicamento e il trapianto non tanto di alberi, quanto dell’orgoglio e della durezza di cuore che impedisce il perdono e causa lo “scandalo/inciampo” per la fede dei “piccoli”.

Gli apostoli percepiscono la necessità che il Signore Gesù aggiunga ulteriore fede a quella limitata da essi posseduta in quel momento: “Aggiungici fede/prothes hēmin pistin”. Espresso con un imperativo aoristo, l’appello accorato degli apostoli chiede al Signore questa azione – questa sola, e non un’altra –, e che egli inizi subito a compiere ciò che viene a lui richiesto con intensità (aoristo ingressivo).

Grazia al servo?

Per perdonare ai fratelli occorre fede gratuita verso il Padre, affidamento estroflesso verso di lui, fonte di grazia e di capacità di perdono.

Per perdonare occorre aver fatto esperienza della grazia preveniente gratuita del Padre. Un’esperienza di fede e di grazia gratuita.

Il breve racconto parabolico di Gesù illumina splendidamente le sue parole.

Il servo che torna a casa dopo il lavoro compiuto nei campi non può pretendere assolutamente che il padrone gli sia grato, che verso di lui “abbia grazia/mē charin echei” – la particella interrogativa richiede tassativamente una risposta negativa –, tanto da invitarlo con tre parole a stendersi immediatamente (a tavola) con lui: “Presto, vieni qui e sdraiati (a tavola)/Eutheōs apelthōn anepese”? Non gli chiederà invece, come sempre, di servirlo prima a puntino per la cena, immediatamente, anche se è appena tornato stanco dal lavoro? Sarà forse tenuto il padrone ad avere un atteggiamento grazioso/grato/gratuito (charin echei) verso il servo solo perché ha fatto ciò che gli era stato ordinato? Assolutamente no!

Il padrone di casa non è tenuto ad alcun atteggiamento di gratuità verso il suo servo stanco del lavoro.

Ma il padrone di casa non è immediatamente uguale al Padre dei discepoli che è nei cieli e nemmeno a Gesù che viene col suo Regno!

Gesù ha già insegnato infatti che alla fine dei tempi lui, il Signore, il Figlio di Dio risorto, passerà a servire i suoi discepoli che gli sono rimasti fedeli e vigilanti: «Si cingerà, e li farà sdraiare (a tavola) e passerà a servirli/perizōsetai kai anaklinei autous kai parelthōn diakonēsei autous» (Lc 12,37).

Le parabole insegnano a cosa può essere assimilato il regno dei cieli, il Padre, Gesù risorto ma insegnano spesso anche a che cosa il Regno/il Signore/Dio non assomiglia assolutamente!

Per perdonare occorre una grande fede piena di grazia di Dio.

A differenza totale dei padroni di questo mondo – non tenuti per nulla a essere grati di alcunché ai propri servi – il Dio di Gesù e dei discepoli è un Dio di grazia che passa a servire i suoi figli, “servi” fedeli e vigilanti del suo figlio Gesù.

Grazia al servo? Si!

In Dio c’è grazia totale.

Senza pretese

Nel discepolo/servo ci deve essere però, da parte sua, un’assoluta gratuità nel servizio, l’assenza totale di atteggiamenti di pretesa di riconoscimento da parte del Padre/di Gesù risorto per il lavoro fatto.

La vita cristiana, il discepolato, la testimonianza missionaria, la grazia ricevuta – vissuta e donata – non dà adito ad alcun atteggiamento di pretesa da parte dei discepoli verso il Padre. Ciò che hanno vissuto nel servizio è consequenzialità vitale del dono filiale e discepolare ricevuto, l’unica risposta possibile e attesa dal Padre alla vita ricevuta dal discepolo per grazia.

Grazia ricevuta, grazia donata.

Dopo aver fatto tutto quello che ci era stato comandato di fare, siamo ancora noi a dover dare grazia a te, o Padre.

Non siamo “servi inutili/douloi achreioi”.

Siamo solo servi/figli utilissimi, ma senza pretese.

Per perdonare occorre fede estroflessa piena di grazia.

Dio Padre dei discepoli di Gesù è fonte perenne di grazia gratuita e immeritata per i suoi servi/figli.

Avvolti da un’aura di grazia, i servi/figli – utilissimi ma fragilissimi – vivono al massimo la vita ricevuta (“tutto ciò che ci era stato comandato/panta ta diatachthenta”; “ciò che dovevamo fare/ho ōpheilomen poiēsai)”.

Nella grazia niente è pretesa, tutto è gratuito.

Perdono, fede, vita filiale.

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