2Cor: apostolato a misura di Dio

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corinti1

Dopo aver fondato la comunità di Corinto nel corso del suo secondo viaggio missionario (50-52 d.C.), Paolo si trova a intessere con essa una fitta e, in parte, travagliata corrispondenza epistolare.

Nell’Introduzione del volume, lo studioso gesuita, Pasquale Basta, docente di Teologia biblica presso la Pontificia Università Urbaniana e docente invitato al Pontificio Istituto Biblico, ricostruisce la trama degli eventi, nel limite del possibile.

La corrispondenza epistolare copre gli anni 52-56 d.C., con punto di partenza variante fra Efeso e la Macedonia. A una lettera andata perduta (A), segue la Prima lettera ai Corinzi (B), quindi una lettera scritta fra molte lacrime (C; cf. 2Cor 2,4), una lettera di riconciliazione (D = 2Cor) e, infine, una lettera polemica (E), che coincide probabilmente con 2Cor 10–13.

La materia del contendere è la correttezza e l’autorevolezza del proprio apostolato che Paolo si trova costretto a illustrare e a difendere di fronte ad avversari non del tutto identificabili con esattezza.

Discussioni si hanno anche sull’unità di 2Cor. Gli studiosi si dividono fra quanti sostengono l’unità dello scritto, chi ne vede il collage di biglietti (da cinque a undici), chi – come Basta – è propenso a vedere due lettere unite insieme (1Cor 1–9 e 10–13).

Il genere letterario è quello della lettera, ma in essa compaiono generi letterari diversi: l’apologia e la difesa di sé la fanno da padrone, ma non mancano polemiche, testi autobiografici, lettera di riconciliazione, di ringraziamento e di congratulazione, diari di viaggio. Campi semantici principali sono: competenza e idoneità riguardo al vangelo; autoraccomandazione; vanto paradossale; fiducia, speranza, coraggio e franchezza. Numerose sono le antitesi: forza e debolezza, vita e morte, dissoluzione e rinnovamento, tribolazione e gloria.

Paolo e la legittimità del suo apostolato

Paolo si sente servitore della nuova alleanza e, costretto dalle circostanze, fa ricorso a un discorso “da pazzo” per tessere l’elogio di sé. Esso consiste nel sottolineare la propria debolezza, in cui si rivela la potenza di Cristo che gli si è rivelato a Damasco e in una rivelazione “al terzo cielo” 14 anni prima.

Paolo difende la purezza del vangelo, che è messa in pericolo da avversari giudeo-cristiani giudaizzanti che si sono infiltrati nella comunità denigrando e delegittimando l’apostolicità e la correttezza teologica di Paolo.

Gli avversari potrebbero essere giudeo-palestinesi, giudei ellenisti, gnostici, sincretisti, giudaizzanti palestinesi legati agli spiritualisti. Basta propende per l’ipotesi di avversari di origine giudaico-palestinese o della diaspora che propugnano il sogno di un panebraismo, coltivato allora in particolare dagli zeloti.

Gli zeloti cristiani pensavano di poter sfruttare l’espandersi della Chiesa attraverso la missione paolina per instaurare un panebraismo anche con toni violenti e aggressivi, per mantenere il movimento paolino entro l’alveo della tradizione mosaica trasmessa in modo letterale e fissista, aggiungendo alla fede in Cristo anche dati della tradizione ebraica (sabato, circoncisione, regole alimentari) come elementi necessari alla salvezza. Essi calunniano e denigrano Paolo in quanto non avrebbe lo statuto di apostolo dal momento che non ha visto il Gesù storico e non lo ha accompagnato nel suo iter terreno fino alla risurrezione.

Paolo difende con circospezione ma anche con forza la legittimità del proprio apostolato in quanto beneficiario di una rivelazione particolare e diretta di Cristo risorto, autorizzato e raccomandato dagli stessi risultati apostolici conseguiti (ad esempio, la stessa fondazione della comunità di Corinto), e dalla capacità, su cui non insiste, di compiere i segni del vero apostolo.

2Cor è davvero la magna carta del ministero apostolico di Paolo. Egli lo illustra e lo difende con toni a volte più distesi, a volte più violenti, costretto dall’aggressività degli avversari che mettevano in pericolo l’autenticità stessa del vangelo di Cristo.

Euloghia nella tribolazione

Lo studioso non intende proporre un commentario a 2Cor ma rilevare le coordinate teologiche principali che sottendono le varie sezioni in cui la lettera può essere suddivisa.

Dopo il prescritto, segue un’euloghia nella tribolazione (1,1-11). Essa anticipa i temi della lettera. Nella tribolazione Paolo è stato consolato e può ricordare il pericolo di morte sperimentato a Efeso e la successiva liberazione ad opera di Dio. Per questo motivo la tribolazione pasquale (= compresenza di sofferenza e di consolazione a causa di Cristo) sofferta da Paolo diventa possibilità di consolare coloro che si trovano in ogni genere di tribolazione.

Il calunniatore di Corinto

In 2Cor 1,12–2,17 si ricorda l’incidente del calunniatore di Corinto che ha offeso personalmente Paolo e che egli ha già perdonato, come invita a fare anche alla comunità. A livello individuale l’offensore può far parte della cerchia vasta degli avversari di Paolo menzionati in 2Cor.

Paolo non affronta un fatterello di cronaca, ma lascia intravedere dietro l’“offensore” un possibile esponente gnostico che insiste più sulla conoscenza che sulla carità. Un fattore deflagrante per la comunità. Forse Paolo veniva accusato anche di essere autoreferenziale e presuntuoso, di essere un uomo interessato alla gestione del potere. Qualcuno lo identifica con l’incestuoso di 1Cor 5, ma l’“offensore” in 2Cor appare un personaggio di discreta influenza, accreditato e ascoltato.

Più che ricercare l’identificazione precisa di quel personaggio, per Basta è meglio osservare il metodo paolino di ricuperare le persone e le situazioni leggendole alla luce della fede e guardando oltre, per ricomporre l’unità della comunità cercando la sua edificazione.

2Cor 1–2 illustra il metodo di azione con cui Paolo intende respinge le calunnie, il pregiudizio umano, la maldicenza che tendono a vanificare la vocazione e la missione dell’Apostolo, nullificando ciò che egli ha costruito negli anni con il lavoro e la passione.

Qualcuno vede in 2Cor 1,12-14 l’esposizione sintetica del tema della lettera, la cosiddetta proposito. Ad essa segue comunque in 1,15–2,17 una narratio biografica.

In 2Cor 2 Paolo può vantarsi in base alla testimonianza della sua coscienza, in quanto la sua vita è stata improntata alla semplicità e alla sincerità, un agire trasparente. I cambiamenti di itinerario non sono dovuti a oscillazione e ambiguità, ma alla volontà di non amareggiare ulteriormente la comunità, alla quale egli ha già scritto una lettera fra molte lacrime e che ha già mostrato di aver ripreso in modo adeguato l’offensore dell’Apostolo.

Da parte sua, Paolo lo ha già perdonato e ora ringrazia Dio di poter partecipare al trionfo di Dio in Cristo e della diffusione del profumo evangelico di vita per quanto lo vogliono accogliere. Per chi lo rifiuta esso diventa odore di morte.

Il ministero della nuova alleanza

In 2Cor 3,1–4,6 Paolo illustra in modo pacato il ministero della Nuova Alleanza che sta attuando. Sono pagine di teologia impegnative e, nei secoli, sono state lette come un manifesto antigiudaico.

Paolo procede per contrapposizioni. Innanzitutto sottolinea che le sue lettere di raccomandazioni non sono umane ma sono costituite dalla stessa comunità di Corinto ministerializzata da lui ma scritta con l’inchiostro dello Spirito.

Circa l’Antica Alleanza si menziona: non con inchiostro, tavole di pietra, ministri non della lettera, la lettera uccide, ministero della morte, ministero della condanna, effimero, velo sul cuore.

Della Nuova Alleanza si afferma per contrapposizione: con lo Spirito, tavole di cuori umani, ministri dello Spirito, lo Spirito dà vita, ministero dello Spirito, ministero di giustizia, duraturo, viso scoperto.

Paolo compone un midrash sul velo di Mosè raccontato in Es 34. Da un lato, c’è un confronto tra Paolo e Mosè, dall’altro, tra Cristo e Mosè. Dio ora si è manifestato nella carne degli uomini, nelle tavole dei cuori umani. Le lettere di Cristo sono state scritte nel cuore dei credenti. La contrapposizione non va, però, portata fra Mosè che si copre col velo, mentre Paolo non lo fa, oppure fra i giudei “velati” e il “noi” di Paolo e dei credenti in Cristo che si sarebbero svelati.

Con un taglio molto originale, Basta legge queste pagine non come un manifesto antigiudaico o di opposizione fra Antico e Nuovo Testamento, ma in stretto riferimento ai capitoli precedenti, all’opposizione incontrata da Paolo nella figura dell’“offensore”. Il velo rimanda a oscurità, produce un vivere nell’ombra, al buio, senza vedere. Quanti offendono e calunniano Paolo vagano nell’ombra, mentre egli cammina nella luminosità e nella chiarezza. Paolo e quanti credono in Cristo camminano nella chiarezza della luce di Dio e non portano alcun velo.

Il discorso è ampio e si riferisce al rapporto tra forma e sostanza. Fra i corinzi vi è una grande attenzione verso aspetti periferici e non centrali della fede, mentre Paolo ricalibra le cose insistendo sulla sostanza: la carità più della scienza, il rapporto tra carismi e lo Spirito, tra le membra e il corpo. Paolo difende l’unità della comunità nella carità.

Egli non sta scrivendo contro i giudei, ma, molto probabilmente, «contro alcuni giudeo-cristiani di marca ipermosaica che si stavano riattaccando a vecchi formalismi. Di fronte ad avversari ombrosi, che si muovono in maniera oscura, Paolo ribadisce con forza la non necessità di raccomandazioni esterne, perché l’unica presentazione di cui si ha veramente bisogno è quella dei cuori, e quindi di uomini e donne, che parlano bene di noi. Che senso hanno, allora, le lettere di raccomandazione? Nessuno! Perché i veri scritti da far circolare sono i cuori dei credenti. Di conseguenza, occorre dire un “no” netto alle lettere di raccomandazione, all’autoreferenzialità e alla vanità che si cela dietro ad esse» (pagg. 54-55).

Gli avversari «si muovono nell’ombra, non rendono gloria a Dio, ma hanno ripreso a gloriare se stessi e la propria visione di fede. Essi manipolano le parole di Paolo, ma in definitiva finiscono per manipolare il Cristo, facendosi portavoce di tendenze che non vanno più nella direzione del bene spirituale comunitario, ma che difendono piuttosto interessi di parte, di fazioni, con raccomandazioni di sé stessi e del proprio gruppo. Insomma, sono personaggi molto provinciali impigliati all’interno di alterchi campanilistici» (p. 55).

Il metodo di risposta di Paolo è quello di alzare lo sguardo verso ciò che è situato più in alto, recuperare un punto di vista teologico e cristologico, senza cadere in personalismi e localismi vari.

L’attacco degli avversari non è solo contro l’uomo Paolo di Tarso, ma più profondamente si rivolge contro la visione di fondo che egli stava cercando di proporre con grande passione e a livelli altissimi di intelligenza teologica, cristologica ed ecclesiologica.

In tutta la sezione 3,1–4,6 l’apostolo mira ad esortare, in modo indiretto. Egli invita a vedere oltre, a rifarsi all’evento di Damasco in cui egli è stato accecato riguardo alla sua vecchia visione e ha cominciato a vedere Dio in maniera radicalmente diversa rispetto a come lo intendeva prima. Il cambiamento è avvenuto senza mediazione umana ed è un’esperienza sempre presente in Paolo.

Paolo vi ritorna perché gli avversari sono attenti ad aspetti formali più che sostanziali e piegano le Scritture alla loro particolare visione. Paolo ha un modo diverso di annunciare, basato sullo Spirito del Dio vivente da imprimere sulle tavole dei cuori umani. In molti non si lasciano coinvolgere dalla luce di Cristo, ma preferiscono restare legati alle regole. Quando la regola diventa dio, ecco che il male comincia a essere all’opera.

Gli avversari sono fatti prevalentemente di carne, con poco Spirito. Si muovono ancora in una zona d’ombra, di velo, di tenebra. Dietro alla guerra mossa a Paolo «si nasconde in definitiva la ricerca del prestigio e del comando, e non la nobile missione di scrivere Spirito Santo nel cuore dei nuovi credenti» (p. 57).

Un tesoro in vasi di creta

Dopo l’euloghia e la narratio biografica, segue in 2Cor 4,7–5,10 e fino a 7,4 la continuazione dell’argomentazione sul ministero della Nuova Alleanza. Il discorso si allarga per concatenazione a temi riguardanti l’antropologia e l’escatologia. Paolo si interroga su chi è l’uomo e su come esso è fatto, ma prolunga la riflessione sino a considerare il destino ultimo dell’essere umano.

Nella sezione che parla di un tesoro in vasi di creta dominano i cataloghi peristatici o delle avversità, con l’elencazione delle fatiche che l’apostolo ha dovuto sostenere a causa del vangelo. Egli porta sempre con sé la nekrosis, il morire, di Gesù, perché negli altri trionfi la vita. Sono pagine che – secondo Schweitzer – illustrano la mistica di Paolo (cf. 2Cor 4,10 con Gal 6,17 sulle stigmate portate dall’apostolo).

Dopo gli aspetti gloriosi dell’apostolato descritti in precedenza, ora si sottolineano gli elementi di fatica che accompagnano il ministero.

Paolo usa metafore. Il thesauros è il vangelo di Cristo o Cristo stesso, mentre il vaso di creta, fragile, rimanda al corpo terreno dei ministri, in tutta la carica della loro debolezza.

Nel ministro del vangelo coesistono due principi: una realtà spirituale profonda ed eterna, che sopravvive alla stessa vita dell’uomo. È il vangelo o la vita di Cristo in noi. L’altra realtà è il corpo terreno, una parte degradabile, soggetta al decadimento e alla morte.

Il discorso sul ministero si intreccia con i livelli dell’antropologia e dell’escatologia. Il processo spirituale procede sempre in avanti fino alla comparsa di fronte al tribunale di Cristo. Questi compenserà tutti, secondo la misura del bene compiuto. Non condanna nessuno, ma ricompensa in maniera diseguale a seconda dell’intensità della vita spirituale attuata nelle opere. La tesi esposta in 4,7 ricomparirà nella probatio che segue.

Il catalogo peristatico impiegato varie volte da Paolo non è segnale di vanteria superba, ma trova la sua ragione nella consuetudine degli oratori dell’antichità di ricordare le avversità superate per giungere al loro stato attuale ed essersene da esse raccomandati. Se ne doveva fare un uso discreto. Le prove del discorso dell’oratore dovevano toccare il nous, sollecitando la mente; dovevano toccare e muovere i sentimenti dell’uditorio (pathos) e fornire, infine, le prove etiche che richiamassero alla testimonianza della vita (ethos).

Seguendo questa consuetudine, Paolo si accredita con un primo catalogo peristatico (3,1-6). Sono tutte le prove e sofferenze patite e superate per grazia di Dio per annunciare il vangelo di Cristo. Le traversìe hanno rasentato il livello di guardia dell’annientamento, ma non lo hanno mai raggiunto.

Le avversità di Paolo rimandano a quelle sofferte dal popolo di Israele. L’Apostolo vuole però sganciare gli ascoltatori dall’idea etnocentrica di territorio e di nazione, per condurli verso l’universalismo proposto da Gesù e propugnato già dai profeti.

Paolo è molto umano, perché si rivolge ad etnico-cristiani e a giudeo-cristiani come fratelli che sono tentati di territorializzare anche la fede in Cristo. Al contempo, Paolo è spirituale in quanto invita tutti ad aprirsi alla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo, consapevole della fondatezza del suo vangelo e dotato di una visione molto profonda nei suoi livelli di teologia, cristologia, ecclesiologia, antropologia ed escatologia.

L’antitesi morte/vita mostra come la vicenda di morte e vita di Gesù sia ormai iscritta nel corpo stesso dei suoi ministri. C’è una coppia polare morte/vita in riferimento al corpo di carne. Esiste una struttura biologica degradabile, ma «il processo di svilimento non è totale, perché la vita di Gesù tocca in qualche modo il noi degli apostoli e il voi dei beneficiari del loro ministero» (pagg. 67-68). La risurrezione è la testimonianza suprema che si vivrà per sempre, nonostante si abiti all’interno di un corpo di carne che non dura in eterno. Paolo si preoccupa e spera che il fatto e la grazia della risurrezione tocchino il numero maggiore di uomini.

La nekrosis di Paolo, il suo morire, lo rende vicino alla morte di Cristo ma lo rende anche partecipe della vita del Cristo morto e risorto, con tutte le ricadute ecclesiologiche ed etiche che ciò comporta. È il nucleo della mistica paolina. L’apostolato di Paolo è impegnato totalmente nella formazione di Cristo nei credenti, finché essi non ne raggiungano la statura e la maturità.

Non va dimenticata, inoltre, la linea teologica riguardante qui Paolo come grande teologo della riconciliazione.

Assorbiti dalla vita. Vestito e casa

La polarità vaso di creta/tesoro si ripresenta con la metafora dell’uomo esteriore e dell’uomo interiore. Non sono elementi separati nell’uomo, ma elementi interagenti in modo molto intenso.

L’uomo interiore va rafforzato, fissando lo sguardo sulle realtà invisibili e non su quelle visibili, ad avere cioè fiducia, non basandosi sulle certezze umane, a perseguire la logica di chi è votato al confezionamento del vestito spirituale dell’uomo interiore.

La metafora del vestito si mescola con quella della casa. La risurrezione inizia nel momento in cui il credente mette mano alla realizzazione del vestito di gloria, impregnato dello Spirito Santo, prima che gli venga messo addosso l’abito della risurrezione. Questo è come un indumento che Dio innesta sull’uomo interiore e spirituale.

«Tale processo comincia già in terra con il dono dello Spirito che è la caparra, l’anticipo in vista della pienezza di quanto sarà dato solamente nel momento in cui si sarà rivestititi del corpo risorto, che è un corpo spirituale. L’intervallo vita è il tempo in cui confezionare il vestito realizzato a partire dalla caparra dello Spirito, donato nel battesimo, il cui richiamo è qui evidente. Sarà sulla base dell’abito che ciascuno è stato in grado di realizzare che si riceverà, alla fine, una ricompensa nel bene e nel male. Anzi il metro della ricompensa si misurerà a partire dalle fattezze del vestito con cui si comparirà di fronte a Cristo» (p. 73).

In 5,1-10 si va oltre: «L’uomo interiore su cui lavorare è colui che ha ricevuto il seme dello Spirito, la cui pienezza verrà conferita nella risurrezione, momento in cui il credente sarà rivestito di un’abitazione celeste, cioè di un corpo spirituale» (p. 74). Paolo si augura che questa possibilità non sia negata a nessuno.

Alla fine, ciò che è mortale verrà assorbito dalla vita eterna. La casa celeste non si basa su una territorialità etnica, legata alle tradizioni di un popolo (come sostenevano gli avversari di Paolo di taglio giudaico e ipermosaico). Paolo non è preoccupato di territori etnici, perché per lui la casa, l’abitazione, la tenda, tutto il lessico legato al territorio, rimanda ormai alla patria celeste.

Antropologia ed escatologia

Il cammino terreno del discepolo avviene nella fede, nella fiducia nel confezionamento del vestito già sulla base della caparra, come anticipo rispetto al saldo finale. Camminare nella fede significa nutrire un’aspettativa di vita eterna.

Paolo usa una inversio molto bella: la condizione attuale di chi abita in un corpo mortale corrisponde all’esilio lontano dal Signore, mentre viceversa l’esilio dal corpo mortale significa abitare presso il Signore. Si va dall’esilio di questa vita all’abitare presso il Signore, col corpo assorbito dalla vita.

Paolo non menziona mai un’opposizione anima-corpo. La sua antropologia rimane profondamente ebraica nel momento in cui evidenzia un’interazione strutturale e continua tra l’interiore e l’esteriore. L’importante è che già in questa vita si possa confezionare, in virtù della caparra donata nello Spirito e della fede, il vestito celeste che permette di non arrivare nudi di fronte al Cristo. Ognuno può comparire a testa alta di fronte a lui, con l’atteggiamento responsabile di chi ha confezionato in vita il suo vestito.

Il tribunale di Cristo non condanna. Ricompensa in proporzione al vestito confezionato. Paolo usa solo il verbo “compensare”. Un tribunale non compensa mai il male! Forse c’è in ballo una sorta di proporzionalità. La giustizia di Cristo non è forense. Il tribunale «va letto in maniera spirituale e simbolica, come un momento in cui il Signore pondera la ricompensa e stabilisce che tipo di vestito ciascun uomo è riuscito a costruirsi o se, al contrario, si è fatto trovare in parte o addirittura completamente nudo. È il tema della proporzionalità, su cui Agostino ha prodotto pagine di un acume grandioso» (pp. 77-78).

Dio ha posto nell’uomo il suo Spirito. Occorre rinforzare l’uomo interiore anche con le tribolazioni che capitano, volgendole a vantaggio, facendo sì che il mortale diventi immortale. «È il tema della risurrezione che assorbe la vita, con il corpo mortale che approda nella dimora eterna sulla base di un’opera non realizzata da mani d’uomo, ma direttamente da Dio. A patto, però, che l’uomo, durante il viaggio esodale che compie su questa terra con il suo corpo esteriore, sia anche in grado di far crescere l’uomo interiore e di fabbricarsi un vestito, così da non correre il rischio di comparire nudo davanti al tribunale di Cristo» (p. 80).

Circa l’escatologia di questa sezione ci si interroga se, per Paolo, esiste un tempo oltre il presente terreno, in cui sarà ancora possibile e concesso «di mettere ancora qualche pezza per riparare il vestito spirituale. La prossemica dei cieli e la dilatazione dei tempi altro non è che la speranza cristiana dilatata» (p. 82).

Paolo ha esperienza del rapporto intercorrente tra morte e vita eterna, e si presenta molto umano verso i corinzi e molto spirituale in quanto percepisce profondamente ciò di cui discorre. Egli si premura «di portare quante più persone possibili verso l’abitazione eterna costruita da Dio, dopo che la tenda di questo corpo sarà divelta» (ivi).

La parusia in 2Cor è percepita ancora come imminente, ma in maniera già più sfumata. È incombente e bisogna prepararsi bene, facendosi trovare vestiti e non nudi. Paolo ha una fede incrollabile nella risurrezione di Cristo, ma col tempo dilaziona il ritorno di Cristo. Su questi punti probabilmente non vi era molta chiarezza nella Chiesa primitiva. Paolo parla per suggestioni apocalittiche ed escatologiche.

La parola della riconciliazione

In 2Cor 5,11-21 l’Apostolo tesse un discorso riguardante la parola della riconciliazione, a partire dal vocabolario dei trattati di pace. La riconciliazione tra Dio e l’uomo ha una portata cristologica.

Sfruttando una figura di pensiero ebraico, Paolo sottolinea che l’effetto prodotto da un singolo si ripercuote su tutti. C’è solidarietà tra discepolo e maestro. La riconciliazione è legata all’etica, perché va incarnata nella vita della comunità. Paolo esorta a questo.

Non va dimenticato che i suoi contestatori usavano una tattica menzognera per screditarlo: origine umana e non divina del suo apostolato; contenuto del messaggio non ricevuto direttamente da Cristo.

Secondo Basta, gli avversari di Paolo sono figure secondarie, non imparentate in modo stretto con gli apostoli. L’Apostolo rompe con il giudaismo cristianizzato di marca territoriale che intendevano imporre: panebraismo e territorialità della fede non sono accettabili da Paolo.

Il brano sulla riconciliazione ha anche un sapore “politico”, nel senso che la comunità è invitata a seguire le ragioni del Cristo. La risoluzione del conflitto va risolta muovendosi su base cristologica.

Paolo è accreditato a chiedere la riconciliazione perché accreditato per primo a Damasco a ricercare e a perseguire quella riconciliazione che altro non è se non un nuovo modo di vedere.

Come affrontare le difficoltà

In 2Cor 6–7 l’Apostolo illustra un’altra volta la modalità da seguire per affrontare le avversità. In queste pagine si trovano ulteriori cataloghi peristatici, che dimostrano le fatiche sopportate da Paolo per annunciare il vangelo, assieme a elenchi di virtù che descrivono le qualità da lui mostrate nell’esercizio del ministero.

Segue una pagina dal linguaggio molto particolare, forse non di origine paolina, che ricorda l’impossibilità della comunione tra Cristo e Beliar – il diavolo, mai così chiamato da Paolo altrove –, cioè tra il puro e l’impuro.

Paolo conclude con un’esortazione in cui gioisce della consolazione nella tribolazione, perché ha chiarito le conflittualità con i corinzi e menzionato il fatto di non aver danneggiato o sfruttato alcuno. L’Apostolo ha di che vantarsi dei corinzi e ne è felice.

Basta dedica ancora alcune pagine alla modalità della comunicazione di Paolo tramite lettere e il suo metodo “politico” e strategico di costruire la pace attraverso il confronto franco e costruttivo con le controparti.

La colletta

2Cor 8–9, che, per Basta, conclude la lettera prima della parte polemica dei cc. 10–13 che sembra essere un’altra lettera, è incentrato sulla colletta. Paolo ha sempre avuto cura di aiutare i poveri, come gli era stato chiesto da Giacomo, Cefa e Giovanni al termine dell’assemblea di Gerusalemme (cf. Gal 2,9-10).

L’Apostolo si rivolge prima ai macedoni e poi ai cristiani di Acaia invitandoli al servizio sacro, alla “diaconia”, alla “liturgia” dell’aiuto economico verso i fratelli cristiani, “i santi”, che a Gerusalemme soffrono per la carestia. Occorre fare equità fra le comunità più prospere dei credenti e quelle più povere, ricambiando i beni spirituali ricevuti dalla Chiesa madre con i beni materiali di cui esse possono disporre.

Paolo ricorda il fondamento cristologico e biblico della solidarietà fraterna, in quanto Cristo ha arricchito gli uomini mediante la sua povertà, il dono della sua stessa vita. L’equità e l’eguaglianza richiesta è rafforzata dal motivo biblico della manna.

Si ricorda che la colletta non è elemosina, un baratto, ma possibilità di godere dei motivi spirituali della gioia, della generosità del cuore, della comunione fraterna, della lode moltiplicata a Dio per il bene fatto e ricevuto.

La comunione dei beni è molto sottolineata negli scritti del NT e la colletta possiede anche delle valenze strategico-politiche in quanto rafforza i legami di comunione fra la Chiesa madre giudeo-cristiana e le comunità etnico-cristiane fondate da Paolo.

La lettera polemica

2Cor 10–13 contiene quella che comunemente è chiamata “la lettera polemica”, che – secondo Basta – costituisce una lettera originariamente a sé stante. Il registro cambia e il linguaggio si fa aspro e a tratti molto violento.

Paolo si rivolge ai suoi avversari, definiti “super apostoli”, che gli contestano la debolezza della presenza fisica, il valore dimesso del suo eloquio, il suo interesse per il potere, la mancanza di accreditamento del suo ministero apostolico.

Paolo vede messa in pericolo la verità del suo annuncio evangelico e della centralità di Cristo rispetto alle norme mosaiche periferiche. Trova davanti a sé il movimento panebraico di stampo zelota che, avvalendosi dell’appoggio di personaggi autorevoli (forse di Gerusalemme), contestano e delegittimano Paolo.

Contro la sua volontà l’Apostolo si vede costretto a un vanto paradossale, a un “autoelogio immoderato”. Fa un discorso “da pazzo”. Lo fa solo per difendere la verità del vangelo da lui annunciato e la sua legittimità di apostolo supportata dall’imponente serie di avversità affrontate e superate grazie a Cristo (elenco peristatico) e dalle rivelazioni avute quattordici anni prima al “terzo cielo” (= piena comunione con Dio), i cui contenuti non sono da Paolo comunicabili.

Egli sciorina tutte le attestazioni di supporto alla legittimità del suo ministero apostolico. Esse comprendono la sua biografia, il catalogo delle peristasi, l’evento di Damasco e le rivelazioni avute “al terzo cielo”.

L’apostolo, però, non vuole vantarsi di questi elementi gloriosi, ma piuttosto della potenza di Dio che si manifesta proprio nella sua debolezza a livello umano. Paolo combatte una partita a tre fra lui, gli avversari e la comunità.

Vanto paradossale. Potenza e debolezza

Secondo Basta, la struttura rinvenibile in 2Cor 11–12 può essere delineata con uno schema concentrico (cf. pp. 135).

In 11,1-21 (A) Paolo indossa i panni del pazzo, scendendo sul medesimo campo del vanto tanto caro ai suoi oppositori; in 11,22–12,10 (B) Paolo motiva il suo vanto elencando con dovizia di particolari tutte le situazioni di onore e di gloria che hanno costellato la sua vicenda apostolica, soffermandosi però in maniera paradossale soprattutto sulla sua debolezza, l’unica realtà di cui davvero si vanta. In 12,11–13,10 (A’) Paolo ricorda di aver indossato i panni del pazzo, ma solo perché costretto dai corinzi.

L’Apostolo rigetta l’accusa di debolezza, pronto com’è a far vedere di presenza tutta l’energia che si dovesse mostrare necessaria. Respinge inoltre l’accusa di non aver accettato denaro perché non amava i corinzi. In concreto Paolo rifiuta lo statuto giuridico del patronatus e dei clientes che reggeva l’impero romano.

Dietro la sua “follia” si nasconde la volontà di Paolo di essere paraninfo delle nozze fra la Chiesa di Corinto – vergine casta – e il Cristo, suo unico sposo.

All’argomentazione caratterizzata dalla follia (11,1-21) succede quella del vanto paradossale a cui si è accennato (11,22-33), incentrato sul catalogo peristatico.

Paolo ricorda poi una singola situazione di gloria che lo ha visto protagonista (12,1-10) ma di cui non vuole vantarsi: un momento di visione e di rivelazione divina goduta “al terzo cielo”. Non si riferisce all’evento di Damasco, ma a un fatto accaduto quattordici anni prima, fra il 40 e il 42 d.C.

Nella cosmologia giudaica il primo cielo era pensato destinato agli uomini, il secondo alle potenze intermedie sia positive che negative, il terzo è l’altezza suprema, destinato solo all’Altissimo. Paolo lo chiama anche “paradiso”.

Dio ha rapito Paolo portandolo in un posto vicino a sé, dicendogli parole non ripetibili da parte dell’Apostolo. Egli però non intende vantarsi di questo fenomeno, ma della propria debolezza in cui si manifesta appieno la potenza di Dio e di Cristo. Nella sua fragilità umana, illustrata con quattro elementi peristatici, si manifesta il fatto che Paolo soffre a causa di Cristo e permette al Cristo di porre “la sua tenda” nella sua debole carne umana.

La “spina nella carne”

In questo contesto Paolo accenna a una “spina nella/alla carne” che lo tormenta – attribuita a un inviato di Satana per mantenerlo nell’umiltà – e dalla quale ha chiesto tre volte di essere liberato.

Gli studiosi hanno pensato a una malattia fisica con possibili aspetti ributtanti: forte emicrania, epilessia, problemi oculari, retinite oculare con eruzioni di pus di color giallognolo (dovuto alla sabbia del deserto). Altri parlano di febbri malariche periodiche, lebbra, artrite, sciatica, sordità, balbuzie.

Va ricordato, però, che Paolo dimostra comunque una vigoria fisica impressionante, testimoniata dai suoi lunghi ed estenuanti viaggi apostolici.

C’è chi pensa a una malattia psichica di depressione, susseguente al momento di estasi. Alcuni ipotizzano tentazioni sessuali, fondandosi sulla traduzione sbagliata di Girolamo (stimulus carnis). Paolo non soffre dello stimolo della carne, ma “alla carne/nella carne” (skolops en tēi sarki).

Chi pensa ad assalti del demonio si fonda su una letteratura esterna alla Bibbia che attesta vessazioni sataniche nella vita di molti mistici. Teoria che non ha base nella lettera paolina.

Certo, non si può pensare che gli avversari siano demoniaci, ma Paolo afferma: «Questi tali sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce» (2Cor 11,13-14).

Basta identifica la “spina nella carne” con gli imprecisati avversari di Paolo che delegittimano, screditano e contrastano il suo ministero apostolico. Più che a un gruppo preciso, lo studioso spiega la “spina nella carne” con il mancato riconoscimento dell’origine del vangelo di Paolo e del suo apostolato. Si pensi al dolore provato da Paolo per il mancato riconoscimento della messianicità di Gesù da parte del suo popolo (cf. Rm 9,1-3).

L’allusività del simbolo usato fa quindi intravedere che all’Apostolo importava meno la natura precisa della spina, quanto piuttosto il suo significato.

Paolo e i superapostoli

Basta dedica un capitolo del suo volume alle ragioni di uno scontro epico tra Paolo e i superapostoli, ricuperando dati già emersi nel corso del libro.

Paolo è pioniere di territori inesplorati e combatte gli avversari che subentrano nel suo campo deligittimando il suo lavoro e inquinando la vita delle comunità. Si difende cercando di chiarire i dubbi su di lui e sul riconoscimento del suo statuto apostolico (Paolo ha sempre avuto difficoltà a farsi riconoscere come apostolo).

Nonostante i criteri interni ed esterni presenti nei testi biblici per riconoscere i veri profeti, in definitiva solo chi ha lo Spirito può riconoscere il vero apostolo dal falso.

L’evento di Damasco rimane centrale, con la rivelazione personale di Gesù Cristo risorto a Paolo. È evidente la difficoltà degli avversari ad accettare questo criterio di discernimento. L’Apostolo adduce comunque vari motivi di accreditamento: successi apostolici, peristasi sofferte per Cristo e superate grazie alla sua potenza, immedesimazione a Cristo con tutta la sua persona.

Basta conclude il capitolo tracciando un interessante identikit fisico, biografico e spirituale di Paolo.

Conclusioni

Nelle Conclusioni del libro l’autore ricorda vari temi: lo scetticismo che ha sempre circondato Paolo, il sogno panebraico di stampo zelota già ricordato, il paradigma luterano classico che vede nella giustificazione per fede il centro della teologia paolina, mentre la New Perspective degli studi su Paolo (Sanders, Dunn ecc.) è attenta a una più equilibrata valutazione del complesso variegato del giudaismo e del suo fondamento sulla fede e non sulle opere.

Basta sottolinea come Paolo non combatta il giudaismo, ma l’attaccamento a una religiosità territoriale ed etnica non aperta all’universalismo già propugnato dai profeti. In Paolo c’è anche la tensione apocalittica, un’urgenza ad annunciare il vangelo prima della parusia di Cristo.

Si rammentano infine il ricordo dei segni del vero apostolo – anche Paolo è capace di compiere segni e miracoli –, l’annuncio della terza visita e il poscritto epistolare con l’invito al “bacio santo” (forse un forte abbraccio di natura interclassista che doveva meravigliare la società greco-romana).

Il saluto finale è di taglio trinitario: al Signore Gesù Cristo viene attribuita la grazia, al Padre l’amore e allo Spirito Santo la comunione. Una trilogia molto originale, un unicum all’interno dell’epistolario paolino, che sarà ripreso nelle formulazioni liturgiche più antiche.

Il volume di Basta analizza con originalità di prospettiva molti aspetti della non semplice Seconda lettera ai Corinzi (si pensi solo al c. 3 col suo possibile uso antigiudaico e alla complicata ma appassionante trattazione dell’antropologia e dell’escatologia). Decisivo rimane sempre avere presente la ragione retorico-argomentativa dei vari brani paolini, pena attribuire all’Apostolo caratteristiche negative immeritate e false.

Lo studio dell’introduzione e del capitolo conclusivo può favorire già fin dal principio l’inquadramento generale delle problematiche affrontate e far gustare la grandezza umile di Paolo, un gigante – forte nella sua debolezza – dell’amore per Cristo e della diffusione del suo vangelo.

Il linguaggio dell’autore – che abbiamo potuto sentire esporre questa materia in un convegno a Camaldoli – resta sempre accessibile e il contenuto molto utile a studenti di teologia, catechisti, guide di gruppi biblici e appassionati della Bibbia, soprattutto dei testi non sempre semplici dell’apostolo Paolo.

  • PASQUALE BASTA, Seconda lettera ai Corinzi. Un apostolato a misura di Dio (Biblica), EDB, Bologna 2021, pp. 200, € 20,00, ISBN 9788810221907.
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