Apocalisse

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Antonietta Potente, religiosa domenicana, è teologa, docente e scrittrice. Ha recentemente rilasciato la seguente intervista nell’itinerario di presentazione del suo ultimo lavoro: Il miele e l’amaro. Lettura mistico-sapienziale dell’Apocalisse (Paoline editoriale libri).

  • Antonietta, perché hai scritto questo tuo libro sull’Apocalisse?

Ho sempre subito il fascino di questo libro. Anche in America Latina lo leggevo, perché L’Apocalisse non parla dei tempi futuri. A me ha sempre parlato della storia e della vita presente. Rileggendolo e approfondendolo – in questi tempi – sempre più mi sono convinta che parla a me, a noi, di oggi.

  • Perché oggi?

È un libro essenzialmente profetico. Se potessi ricollocarlo nella Bibbia lo metterei tra i libri profetici. È un libro di visione che invita alla visione.

In questo momento storico che sembra così difficile, invita a guardare più intensamente e a non distogliere lo sguardo dalla realtà presente, per quanto sfigurata questa possa apparire. Nell’Apocalisse la luce va e viene insieme con le tenebre: proprio come nella realtà presente. Oggi.

  • L’Apocalisse parla alla Chiesa di oggi?

Sì. Le sette lettere alle sette Chiese costituiscono un testo per le comunità credenti: non parlano soltanto a quelle sette Chiese dell’Asia Minore, bensì a tutte le comunità nei secoli, rappresentando un modo – uno stile – per essere comunità in cui si vive insieme per sperimentare qualcosa di vitale.

Tutti i commentari dicono che il grande problema della Chiesa dell’epoca era sopravvivere all’Impero di Roma. L’Apocalisse è stata scritta infatti attorno all’anno 90 d.C. C’erano violenze e persecuzioni. D’accordo.

Ma io ho spostato l’attenzione sui problemi interni alle comunità, di allora come di oggi. Erano già passati tanti anni dall’avvento di Gesù e dalle prime formazioni cristiane. Le comunità del tempo dell’Apocalisse non erano più le stesse comunità di prima. Non c’era più nessuno che avesse vissuto le primissime esperienze.

Il vero problema riguardava dunque le comunità stesse, al loro interno e nel loro rapporto reciproco di ‘struttura’. Secondo me – inoltre – c’era un problema del femminile, ossia del ruolo delle donne in quelle comunità, diverso da quello che sappiamo essere stato nelle primissime comunità. Le forme originarie erano, almeno in parte, già state, in qualche modo, tradite.

Perciò i rimproveri che noi oggi leggiamo nell’Apocalisse riguardano prevalentemente il ‘potere’ e la necessità di cedere ‘potere’ da parte delle chiese, al loro interno come nei loro rapporti reciproci, appunto. È un problema che abbiamo ben presente anche noi, oggi.

Contropelo
  • Nel tuo libro inviti a leggere l’Apocalisse ‘alla rovescia’: cosa vuol dire?

Leggere e scrivere libri ‘alla rovescia’ è un po’ il mio stile. Dipende dal mio pensiero che gira intorno e procede in maniera simile a una ‘spirale’. Perciò si può iniziare a leggere i miei libri in qualsiasi punto. Anche dalla fine.

Mi pare che l’Apocalisse si presti molto bene a un tal genere di lettura e poi di scrittura. Negli ultimi capitoli ci dà le visioni più ‘belle’, con cui possiamo leggere e rileggere tutto il resto, sino ad incontrare appunto le profonde difficoltà vissute dalle comunità, dall’intera umanità e persino dal cosmo – dalla natura – nella sua interezza. Iniziare dalla ‘fine’ è una chiave di fede: l’accusatore è già stato precipitato!

Ho dedicato perciò il mio libro “a tutti coloro che fanno fatica ad innamorarsi della realtà” perché ho pensato che l’Apocalisse ci aiuta a non perdere mai il nostro innamoramento per la realtà, pur noi restando nella realtà con tutto noi stessi: con tutto il nostro corpo, con tutta la nostra mente o con tutta la nostra anima… con tutto!

  • Nel sottotitolo, hai definito la tua lettura dell’Apocalisse mistico-sapienziale: ossia?

Non ho evidentemente fatto una lettura esegetica. Non sono biblista. Peraltro, non mi interessava, se non nel limite di interpretazione di qualche particolare versetto. Ho preferito – e sempre preferisco fare – una lettura che possano fare tutti.

Per mistica intendo quindi ‘semplicemente’ una lettura fatta in profondità. Per sapienziale intendo una lettura che si lascia guidare dalla Sapienza – ossia dalla Sophia. Innamorarsi di questi testi – e quindi della realtà – significa proprio lasciarsi guidare, lasciarsi andare: le parole, le immagini, i pensieri lavorano dentro e poi vengono da sé alla luce. Per me scrivere un libro sull’Apocalisse è stata una esperienza, in questo modo, molto forte e molto bella.

  • Si tratta di acquisire o di riacquisire un linguaggio simile a quello dell’Apocalisse?

Ne va della nostra salute mentale e non solo. Il linguaggio del sistema in cui viviamo ci porta soltanto a distrarci da noi stessi e dalla realtà. A restare in superficie. Per guardare e dire la realtà profonda ci serve un altro linguaggio.

C’è un diverso sguardo e c’è un nuovo – o antico – linguaggio da coltivare. Questo vuol dire anche rinunciare a dire tutto, a spiegare tutto, a risolvere tutto. Ci sono momenti nel testo dell’Apocalisse in cui tutto sembra crollare mentre l’umano non può farci nulla. Poi di nuovo tutto si riprende: al buio totale si alterna il chiarore, con mille sfumature di luce. Ecco, la Divina Presenza! Si intravvede. Si percepisce. Nell’Apocalisse ci sono tracce ovunque. Perché non anche ora? La realtà è la stessa!

  • Il tuo libro ha titolo “il miele e l’amaro”: quanta parte hanno i cinque sensi nella percezione?

L’Apocalisse è un canto alla vita. E nella vita – anche la più semplice e quotidiana – sono attivi tutti i nostri sensi e forse più dei soliti cinque. Tutta la nostra vita è piena di colori, di sapori, di odori, di suoni, di sensazioni tattili. Ogni giorno reca in noi il risveglio dei sensi. Cercare il divino attraverso tutti i nostri sensi – e più – è molto importante.

Il divino non sta nella ragione o solo nella ragione: vi sta troppo stretto. Ci sono tante altre vie predisposte per cogliere, per percepire la Divina Presenza. Siamo dotati di sensi ancora più sottili che ci consentono di percepire gli angeli e ciò che non è visibile agli occhi. L’Apocalisse usa tutti questi sensi. In questo modo appare come un testo molto ‘liturgico’: è una liturgia di gloria, di riconoscimento e di lode della Divina Presenza.

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Letteratura giovannea
  • L’Apocalisse è un testo giovanneo anche nel senso di un forte contrasto, quasi ‘dualistico’?

Non sono convinta che la letteratura giovannea – a partire dal vangelo – abbia una visione ‘dualistica’, nel senso che accentui il contrasto tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male. Io penso che ‘Giovanni’ spesso sia stato interpretato in tal modo perché è più semplice interpretare così. ‘Giovanni’ è complesso per la sola ragione umana: è più facile quindi trovare un modo per semplificare. Penso peraltro che il dualismo abbia fatto – e ancora faccia – parecchio male alla Chiesa.

Direi piuttosto che ‘Giovanni’ o chi per lui o per lei – in una accezione più vasta di una comunità di donne e di uomini che scrive – non vede mai in ‘bianco’ e ‘nero’, non divide mai il buono dal cattivo. Esattamente come avviene nella realtà: questa divisione netta non è mai possibile. Basta conoscere noi stessi.

La nostra vita è piena di sfumature. E l’Apocalisse è appunto piena di sfumature, non di dualismi. Anche quando c’è la rappresentazione di una lotta tra due, c’è sempre una terza possibilità, non violenta, in cui non c’è uno che vince e un altro che perde. Andiamo a leggere ad esempio il capitolo 12: c’è una terza possibilità ed è la donna del capitolo 12, appunto.

  • Cosa trovi di così ‘femminile’ nell’Apocalisse?

I ‘titoli’ che sono attribuiti al divino non sono mai chiari, ossia non sono maschili piuttosto che femminili. Vedere ovunque Cristo e la Trinità è, secondo me, una forzatura. Siamo stati abituati ad interpretare in quel modo ‘dogmatico’ e tendiamo a proseguire così. Ma l’Apocalisse è molto più aperta a tantissime interpretazioni. E mi pare proprio che il verso dell’apertura sia il verso del femminile. Tanto più oggi. Nella Chiesa c’è una ‘terza’ possibilità e siamo noi donne.

In questo mio libro uso quasi mai il termine Dio: preferisco Divina Presenza, oppure Sapienza o Sophia, al femminile. In ogni caso nell’Apocalisse non si sa chi sia Dio. Resta sempre nella nube del Mistero. Il maschile e il femminile appartengono alla nostra lingua. Non sappiamo quale siano il termine e il genere adatto per dire ‘Dio’.

Generati dalla vita

Cos’è la nostalgia di cui parli nel tuo libro?

Io penso che, prima di nascere, in questa storia, siamo nati nelle profondità della vita, siamo nati nel Mistero. Perciò, camminando in questa storia e in questa vita, sentiamo sempre che ci manca qualcosa. Questa è la nostalgia che ci portiamo dentro. Ci sono momenti ed eventi in cui questa nostalgia più prepotentemente affiora.

Pensiamo alla donna nel giardino che va alla tomba di Gesù: si avvicina e vorrebbe prenderlo, trattenerlo, perché la nostalgia della Presenza in quel momento è in lei molto forte. Ma poi la Presenza sfugge. È presenza e assenza. Da credenti, sappiamo: per noi, per la nostra fede, ciò che si prova non è altro che la nostalgia innata di una origine, di un principio che riposa nella Divina Presenza. A ben vedere, è una nostalgia che hanno tutti nel cuore – che si dicano credenti o non credenti – che hanno pure tutti gli esseri viventi e, in qualche modo, l’intero cosmo che partecipa della stessa origine.

La nostalgia è preziosissima nella vita. Preserva, tra l’altro, dalle false certezze, dai dogmatismi, dai moralismi. Nell’Apocalisse c’è molta nostalgia, come in un paesaggio immerso nella nebbia.

  • L’Apocalisse è piena di immagini di paesaggi, di animali, di vegetazione, di natura e di catastrofi naturali…

L’Apocalisse è popolata da infinite presenze: sono tutte creature quali vie che conducono al Mistero. Nell’Apocalisse hanno la loro casa sia le grandissime catastrofi naturali, sia l’albero della vita, sia gli alberi dalle foglie medicinali e che danno frutti tutto l’anno.

Questa è precisamente la nostra realtà naturale! Il profeta che ha scritto l’Apocalisse non ha inventato nulla. Ha ‘semplicemente’ guardato a fondo ‘dentro’ la nostra realtà naturale: questa ha una dimensione – direi – corporeo-spirituale, perché esiste nella stessa materia di cui noi esistiamo.

  • Torniamo alla Divina Presenza: da dove viene questa definizione?

Non l’ho inventata io. È la traduzione del termine usato dalla letteratura rabbinica: è la Shekhinah. Nella Bibbia non c’è, ma c’è la radice della parola e, soprattutto, il concetto, la percorre tutta. La Divina Presenza è in tutta la realtà e noi siamo fatti per accorgercene. Desideriamo incontrarla, saperla riconoscere. Tutto quello che facciamo in fondo è rivolto a un tale incontro: anche in ciò che sembra più lontano dalla Divina Presenza, ossia, ad esempio, la politica.

La Teologia della liberazione – in particolare Carlos Mester – lo aveva ben intuito. L’attività politica può essere intesa come ricerca della Divina Presenza nella giustizia per i poveri, oppure divenire la negazione della Divina Presenza, provocando fame, violenza e morte dei poveri. La stessa cosa si può dire oggi dell’approccio della politica alla natura: può andare alla ricerca della Presenza nella conservazione della stessa, ovvero negarla e distruggere tutto.

Certamente non è facile. La Divina Presenza sta in silenzio e sta nascosta.

  • C’è la Divina Presenza?

A me sembra proprio che ci sia. La realtà non è tutta quella che sembra. C’è tanto altro. Bisogna saper guardare in profondità.

  • E il Cristo? Come è presente nell’Apocalisse?

Cristo è certamente ben presente: è l’incarnazione della Divina Presenza. A seguire Cristo resta chi percepisce la Presenza, chi coglie la Sapienza o la Sophia nel vivere. Non ritengo tuttavia che l’Apocalisse costituisca un testo ‘cristologico’ nel senso tradizionale della definizione. C’è questa Presenza incarnata forte, molto forte, ma non è molto sviluppata nel verso del Cristo esplicito.

Nel mio libro cito un passo de la Legenda aurea di Jacopo da Varazze. Ebbene in quel passo – con evidente riferimento all’immagine simbolica della Apocalisse – non si parla solo dell’Agnello-Cristo, bensì anche dell’Agnella-Maria.

Voglio dire che spesso si fa di Cristo un dato di fatto o una formula quasi matematica che dovrebbe risultare perciò chiara ed evidente a tutti e una volta per tutte: un ‘apriori’. Ma non è così. L’incarnazione della Divina Presenza – Cristo – va continuamente cercata nella realtà, nella nostra realtà. In questo senso – ma solo in questo senso – l’Apocalisse è anche un testo ‘cristologico’.

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