Il Crocifisso-Risorto nei Vangeli apocrifi

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apocrifi

Il termine “apocrifo” (dal greco nascosto, a causa della sua preziosità o a causa del suo contenuto riprovevole, o di origine ignota) designava una volta quei libri che erano destinati ad una cerchia particolare di lettori, i cosiddetti iniziati, una sorta di élite del pensiero antico, un po’ come erano presso i romani i libri sibillini e lo jus pontificum.

Da un certo periodo, i cristiani cominciarono a designare con apocrifo tutto ciò che era sospetto di eresia, cioè non conforme all’insegnamento ufficiale, quindi il termine designava uno scritto poco raccomandabile, da escludere, non solo dalla lettura liturgica ma anche dalle mani dei fedeli.[1]

Nel tempo, gli scrittori cristiani antichi si servirono di questo termine (apocrifo) per significare qualsiasi dottrina gnostica dandole un senso negativo. Così per Ireneo, vescovo di Lione, apocrifo è sinonimo di “falsificato”, per Tertulliano di “falso”. Apocrifo, perciò, è da contrapporsi a “canonico”.

I vangeli canonici sono i quattro vangeli accolti dalla Chiesa come ispirati e ispiranti. Molti studiosi concordano per la definizione di apocrifo dicendo che «gli apocrifi del Nuovo Testamento sono quegli scritti che non fanno parte del canone biblico del NT ma che dal titolo, dalla presentazione, dal modo con cui trattano l’argomento e da altri elementi interni (stile, genere letterario ecc.) ed esterni, si presentano come testi canonici, tacitamente o espressamente rivendicano un’autorità sacra pari a quelli del canone o intendono sostituirli o completarli».[2]

Gli apocrifi più antichi, quelli risalenti al II sec d.C., intendevano imporsi come norma di fede e di vita completando la nascente letteratura ufficiale della Chiesa. Abbiamo così la nascita di un variegato mondo degli apocrifi distribuito in vangeli, atti, epistole e apocalissi.

Ireneo è contrario a questa letteratura apocrifa perché sembra sostituire l’autorità degli apostoli: «[…] certuni hanno la temerarietà di affermare, blaterando con boria di essere essi i revisori degli apostoli […] Se qualcuno non aderisce al loro insegnamento, disprezza coloro che hanno parte con il Signore, disprezza lo stesso Cristo Signore, disprezza il Padre e si condanna da se stesso… come fanno gli eretici» (Ireneo, Adv Haeres. 3,1).

Il grande Origene, sulla linea di Ireneo, dice di conoscere questi scritti numerosissimi, appartenenti alle sette gnostiche, dice anche di averli letti, per non apparire ignorante dinanzi agli altri, per concludere che «tra tutti questi scritti noi non approviamo altro, se non quello che la Chiesa approva» (Origene, Omelia su Luca).

Eusebio, vescovo di Cesarea Marittima, riporta, nella sua Storia Ecclesiastica (terminata nel 326 circa), le opere eretiche allora conosciute che intendono sostituire gli scritti canonici e si fregiano perciò con il nome di apostoli. Tra queste, il vescovo di Cesarea cita: il vangelo di Pietro, di Tommaso, di Mattia, gli atti di Giovanni ed altri: «Tutti questi sarebbero fra i testi controversi, che è stato necessario elencare per distinguere le opere autentiche […] Il carattere con cui sono composti questi scritti, di gran lunga differente da quello apostolico, ma anche il pensiero e la dottrina in essi esposti, lontanissimi dalla vera ortodossia, espongono fatti che sono stati composti da eretici. Pertanto, non devono essere annoverati neppure tra le opere non testamentarie, ma rigettati come completamente insensati ed empi».[3]

Papa Innocenzo I, nel 405, in una lettera confermava il ripudio di alcuni scritti apocrifi dicendo che, «non soltanto si devono ripudiare, ma devono essere condannati».

Come sorge la letteratura apocrifa

Queste opere sorgono per gli stessi motivi della letteratura canonica, hanno le stesse fonti e tradizioni. Gli scritti apocrifi più antichi del II secolo sono meno “pittoreschi” e mitici di quelli più tardivi a significare il carattere a volte apologetico e catechetico.

Un motivo dell’origine e della moltiplicazione degli apocrifi fu il desiderio, legittimo, di scrivere detti e fatti della vita di Cristo, in particolar modo circa i tempi e gli avvenimenti non descritti dai vangeli e a cui la gente poneva tanta curiosità.

Prendiamo, ad esempio, i vangeli dell’infanzia di Matteo e Luca, che sono molto “asciutti” nel descrivere gli inizi della vita di Cristo. Il loro vuoto è stato colmato, ad esempio, dal Protovangelo di Giacomo, che abbonda di particolari circa la nascita e la crescita di Gesù fanciullo.

Questi dati stuzzicavano la curiosità non solo dei cristiani ma anche dei pagani. Ad esempio, l’educazione di Maria e la sua verginità, la vita d’oltre tomba, la sorte dei morti prima di Cristo, la storia degli apostoli e, in particolare, di qualcuno più legato ad una determinata Chiesa; sapere se e come la divinità di Gesù fu sempre così stranamente nascosta o se invece non si sia manifestata subito. Tutto questo non viene messo da parte al sorgere degli scritti canonici, ma la curiosità e il voler conoscere i lati nascosti della vita del Salvatore, della Vergine e degli apostoli, ha sempre richiamato l’attenzione del popolo.

Gli scritti apocrifi, inoltre, ebbero un compito letterario di notevole importanza: «Prepararono e in parte fissarono i generi e le forme letterarie della prima letteratura cristiana per la predicazione evangelica».[4]

I libri canonici hanno determinato la fisionomia della Chiesa, tuttavia nei primi secoli non tutte le comunità erano uguali e non tutte le comunità avevano le stesse esigenze. Da qui il fiorire di molteplici tradizioni, traduzioni e idee. Nei primi secoli dobbiamo pensare che questi scritti apocrifi circolassero normalmente tra le comunità. Solo dopo che si erano affermati i libri canonici e si stringevano di più i vincoli dell’unità, la letteratura apocrifa comincia a svanire e ad essere messa da parte.

Se si leggono questi testi apocrifi, echeggia tutta la letteratura canonica, alcuni passi sembrano una sorta di commento con aggiunte di diverso colore.

Non c’è dubbio che la letteratura apocrifa, che comincia a sparire dal IV secolo in poi, soprattutto in occidente abbia “donato” molto materiale per lo sviluppo e la diffusione della pietà popolare circa la vita di Cristo, della Vergine e degli apostoli.

Dagli apocrifi noi sappiamo i nomi dei genitori della Vergine Maria: Gioacchino e Anna, venerati dalla Chiesa come santi; la presentazione al tempio della Vergine; la nascita di Gesù in una grotta e la presenza del bue e dell’asino; i tre re magi e i loro nomi; i nomi dei due ladroni crocifissi assieme a Gesù, Dima e Gesta; il nome del soldato che colpì Gesù con la spada, Longino; la storia della Veronica; la morte di san Giuseppe…

L’influsso che questi testi hanno avuto sull’arte è particolarmente ampio e vistoso: fin dagli inizi l’arte palestinese e quella delle catacombe romane, così come l’arte bizantina, sono state “catturate” dai racconti degli apocrifi.

Un fatto strano: a soli trent’anni dalla condanna degli apocrifi fatta da Innocenzo I (405), sotto papa Sisto III i mosaici di Santa Maria Maggiore si arricchivano di scene la cui descrizione è contenuta nei vangeli apocrifi dell’infanzia.

Questi testi hanno avuto un influsso sulla letteratura in occidente, pensiamo alla Legenda aurea di Giacomo da Varazze (Jacobo da Voragine), alla fine del XII secolo, e lo Speculum historiale di Vincenzo Beauvais, nella seconda metà del XII secolo (due opere di sintesi della letteratura apocrifa), che estesero la loro influenza a tutto il medioevo tanto nella letteratura quanto nell’arte.

Gli apocrifi contribuiscono alla conoscenza delle correnti religiose, delle dottrine, delle tendenze spesso eterodosse esistenti tra i cristiani dei primi secoli. Questa letteratura rivela la fede semplice del popolo come le ansie e le curiosità. Non tutto ciò che vi è scritto è frutto di fantasia ma contengono qualcosa, come una scintilla, di autentico e prezioso.

Il vangelo di Gamaliele

È un apocrifo in lingua copta, databile tra il IV e il VI secolo. Il testo è ricco di scene e di particolari i cui contenuti non si trovano nei vangeli canonici.

Lo scritto è attribuito a Gamaliele il vecchio, allo scopo di far parlare una personalità che poteva essere stata presente ai fatti e “simpatica” agli altri. Negli Atti degli apostoli Gamaliele è presentato come «stimato da tutto il popolo» (At 5,34). Gamaliele, dottore della legge e maestro di san Paolo, della scuola di Hillel (I sec a.C.), rappresenta la corrente moderata del giudaismo. Una tradizione dice che si sarebbe convertito al cristianesimo.

Il vangelo apocrifo di Gamaliele lo possiamo dividere in quattro momenti:

  1. La figura di Maria negli ultimi eventi della missione di Gesù,
  2. La cecità e l’odio accanito delle autorità ebraiche contro Gesù,
  3. Le prove irrefutabili della risurrezione,
  4. Le fede di Pilato che dalla Chiesa copta è ritenuto un santo.

Maria, presentata come la madre addolorata, accoglie il rinnegamento di Pietro per l’intercessione di Giovanni. Questi tratti umani della madre di Dio ci aiutano a comprendere quanto abbia sofferto la morte del figlio ma anche la forza della madre nell’accogliere e nel vivere momenti di intenso dolore. Maria piange con Giovanni il tradimento di Pietro. Scrive l’apocrifo: Giovanni disse alla Vergine: «O madre mia, non piangere perché Pietro ha rinnegato il nostro Signore. Su di lui non grava l’accusa che grava su Giuda, che l’ha tradito […], mia signora e madre, non piangere sul padre Pietro, poiché il suo rinnegamento sarà il pentimento dei peccatori. Egli stesso ha smentito la sua parola e ha dovuto credere alla parola del Signore» (Gamaliele, 1,57.59).

Il dolore e la tristezza di Maria sono consolati anche dalle pie donne: Giovanna, moglie di Cusa, Maria Maddalena e Salome, mentre le donne ebree ingiuriano la Vergine santa: «Per colpa tua il nostro grembo rimase senza figlio, due anni dopo che tu lo generasti» (riferimento alla strage dei bambini innocenti) (Gamaliele, 2,28).

Lo scritto narra nella congiura che le autorità ebraiche preparano contro Gesù e Pilato. Il procuratore romano è presentato come colui che vuole liberare e salvare Gesù. Pilato cade nelle trama feroce degli ebrei che vogliono a tutti i costi la condanna a morte di Gesù. Di Pilato e di sua moglie il vangelo di Gamaliele ha questa espressione: «Pilato e sua moglie amavano infatti Gesù come se stessi. Egli lo aveva fatto flagellare, per compiacere i cattivi ebrei, e il loro cuore si disponesse più favorevolmente e lo lasciassero andare senza condannarlo a morte» (Gamaliele, 2,31).

La morte di Gesù è presentata come un dramma per tutta Gerusalemme. La città è sconvolta da scosse della terra, da segni e da miracoli. Questi segni – secondo l’apocrifo – fanno capire a Maria la morte del figlio. Tutto il popolo, all’unanimità piange la morte di Gesù in croce. Tra i piangenti il vangelo annovera Pilato e il capitano delle guardie.

Dopo la morte di Gesù, Pilato convoca i capi degli ebrei e li rimprovera aspramente: «Voi, lupi e volpi, avete bevuto il suo sangue nell’iniquità! Guardate ora la morte del Nazareno sull’albero della croce! Il suo sangue ricada su voi e sui vostri figli! Quelli però si impettirono e dissero arroganti: Per mille generazioni il sangue di questo rinnegato ricada su noi e sui nostri figli» (Gamaliele, 3,2-3).

Nel lungo colloquio tra Pilato e Caifa emerge l’odio degli ebrei verso Gesù presentato come un mistificatore e un mago. Il procuratore romano, però, è dalla parte di Gesù, così, dopo le parole velenose di Caifa, «Pilato si alzò dalla sedia, colpì la sua pelle rugosa, strappò la barba dalle sue guance e lo frustò, dicendo: Con il tuo odio vuoi portare l’ira sulla terra!» (Gamaliele, 3,12).

Gesù viene sepolto per la pietà di Giuseppe d’Arimatea, mentre gli ebrei chiedono al procuratore le guardie per la custodia della tomba nuova scavata in una grotta, dicendo: «Staremo a vedere fino al terzo giorno» (Gamaliele, 3,20).

La prima donna che va al sepolcro – per Gamaliele – è Maria, la madre di Gesù. Il vangelo sottolinea come, allo spuntare del sole del giorno di domenica, mentre Maria è nel sepolcro sente un intenso profumo di aromi: «Pareva il diffondersi del profumo dell’albero di vita […] La vergine si voltò e, in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste» (Gamaliele, 5,2-3). L’apocrifo in questo segue il vangelo di Giovanni, sostituendo alla Maddalena, Maria madre di Gesù.

Nel vangelo di Gamaliele Maria è consolata dal Figlio risorto: «Ora egli ti consola con la sua risurrezione prima di tutti gli altri […]. Nessuno ha portato via il mio cadavere, bensì sono risorto per volere di mio Padre, o madre mia. Oggi sei venuta alla mia tomba, mentre ho tratto dagli inferi quelli che erano in catene e ho salvato quelli che erano caduti in peccato. Udite queste parole, il cuore della vergine si colmò di forza e consolazione […] e le fu concesso di guardare e di contemplare la sua divinità» (Gamaliele, 5,12-13). La madre di Gesù diventa la prima testimone della risurrezione ed è chiamata ad annunciare l’evento ai discepoli.

A Pilato, in sogno, Gesù rivela la sua risurrezione, gli dice di andare al sepolcro e contemplare le fasce mortuarie: «Gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli […]. Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno» (Gamaliele, 7,8-9).

Sulla scia di Mt 28,11-15 circa la falsa testimonianza delle guardie ebree e della loro corruzione, il vangelo apocrifo di Gamaliele fa di Pilato colui che smaschera la falsa deposizione dei soldati.

Pilato, assieme alle autorità ebraiche, si reca al sepolcro e constata che è vuoto; in esso ci sono solo le bende mortuarie senza il cadavere. Rivolgendosi ai capi degli ebrei, dice: «Voi odiate la vostra vita! Se il cadavere fosse stato rapito, sarebbero state portate via anche le bende mortuarie» (Gamaliele, 7,23). Pilato ricordandosi poi di quello che gli aveva detto Gesù in sogno, entra nel sepolcro prende le bende, chiama il capitano delle guardie che era “monocolo”, gliele avvicina al volto e gli dice: «Non senti fratello il profumo delle bende? Non è odore di cadavere, ma porpora regale impregnata di soavi profumi» (Gamaliele, 7,36). Mentre Pilato fa la sua professione di fede nella risurrezione di Cristo, l’occhio del capitano delle guardie viene sanato: «Fu come se Gesù avesse posto su di lui la sua nano, come era avvenuto per il cieco nato» (Gamaliele, 8,3). Il capitano guarito, rivolto alla folla accorsa, dice: «Si è proprio dimostrata la potenza di Gesù Cristo, poiché è veramente Dio. È figlio di Dio! Io avevo creduto, ma la mia fede nella risurrezione dai morti si è accresciuta. E ora, mai più servirò un re terreno, ma solo il mio Dio Gesù Cristo» (Gamaliele, 8,8-9).

Per gli ebrei, Gesù è uno stregone che compie magie strane con l’aiuto degli spiriti cattivi per trascinare molti in errore.

I capi degli ebrei avevano falsamente dichiarato che il corpo di Gesù era stato nascosto e buttato in un pozzo. Pilato ordinò a Giuseppe e a Nicodemo di tirare dal pozzo il cadavere di un uomo. Nel pozzo vi era il cadavere del ladrone crocifisso con Gesù.

È Pilato che avvolge il cadavere del ladrone con le bende di Gesù risorto e lo pone nel sepolcro sigillandolo con la pietra. Lo stesso procuratore, poi, ricordando le parole di Gesù, prega per la risurrezione di quell’uomo: «Signore Gesù, risurrezione e vita e dispensatore di vita a tutti i morti, credo che tu sei risorto e mi sei apparso. Non mi condannare, Signore, poiché non ho fatto questo per timore degli ebrei. Non sarà mai che io neghi la tua risurrezione» (Gamaliele, 9,5).

Il ladrone, risuscitato da morte, dà la sua testimonianza e dice: «Oggi, quando mi sono alzato dalla tomba di Gesù, tu Pilato mi hai aperto la porta della sua tomba come egli mi aveva aperto la porta del paradiso. Aspira questo amabile profumo che viene dall’albero del paradiso ove la mia anima si è ristorata» (Gamaliele, 11,5).

Il vangelo termina con l’annuncio della risurrezione da parte di Pilato che, con le bende di lino del Risorto torna a casa: «Recatosi al palazzo del sommo pontefice, Pilato devastò la sinagoga e il popolo saccheggio tutto quanto essi possedevano» (Gamaliele, 11,10).

Il vangelo di Gamaliele sottolinea fortemente l’evento della risurrezione, anche in modo eccessivo. Colui che lo aveva condannato a morte in nome dell’imperatore ora diventa il suo annunciatore. Inoltre, lo scritto si pone in aperta polemica con i capi degli ebrei mistificatori e ingannatori.

La figura di Maria si impone come la donna, la madre, la vergine che beneficia per prima della risurrezione.


[1] L. Moraldi (a cura), Apocrifi del Nuovo Testamento, I, Utet, Torino 1971, 9.
[2] Moraldi, 12.
[3] Eusebio, Storia Ecclesiastica, 3,25.
[4] Moraldi, 23.

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