Dieci parole per vivere

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DecalogoPer André Wénin, sessantaseienne docente di Greco, Ebraico biblico ed Esegesi a Lovanio e alla Gregoriana, la cupidigia/bramosia è il veleno mortale che insidia il cuore dell’uomo e delle società. Le Dieci Parole (o Decalogo) vogliono essere un antidoto a questa deriva che insidia la sopravvivenza dell’uomo a livelli decenti di libertà e di umanità.

Presenti in due versioni nella Bibbia (Es 20 e Dt 5), le Dieci Parole sono analizzate dallo studioso nella loro versione deuteronomica. Un struttura in tre parti (Dt 5,6-11.12-16.17-21) mette in risalto, al centro del centro, la parola sullo shabbat, molto più lunga delle altre.

Lo scopo fondamentale del Decalogo sembra essere quello di combattere l’idolatria, che si presenta sotto varie forme. Sedotto dal serpente che porta in sé, l’uomo non accetta il limite.

Lo vede come una castrazione della propria libertà, mentre esso non vuol esser altro che la misura inventata da YHWH per permettere all’uomo di non essere onnivoro, incapace di lasciare spazio all’alterità divina e umana.

Lo shabbat

L’uomo che brama di cupidigia non percepisce il creato e la vita come un dono e quindi non sarà portato a vivere nella comunione e nella bontà verso il prossimo. Tenderà a strumentalizzare Dio per i propri bisogni, volendo controllare la divinità tramite idoli concreti o verbali. Idoli che possano esse manipolati, controllati, previsti nelle loro richieste.

La parola sullo shabbat è una forte indicazione a porre un limite alla propria cupidigia quanto al lavoro e al tempo, cosicché l’uomo rimanga libero e non diventi schiavo inconsapevole e triste di se stesso. Paura di sé da sé.

Secondo Es 20, nella celebrazione del sabato l’uomo replica il riposo di Dio che lo ha creato a sua immagine e vuole che evolva verso la sua somiglianza. Nella versione di Dt 5 il sabato viene invece motivato con la memoria da parte di Israele della liberazione ricevuta da YHWH. Tale liberazione deve permanere sia nei confronti di se stessi sia verso le persone e gli animali che di sabato devono poter godere la liberazione dalla schiavitù grazie a un giusto riposo.

Interessante l’interpretazione della parola sull’“appesantire” il padre e la madre. Non si tratta di un comando banale di onorarli obbedendo loro (e rispondendo alle loro attese, alle loro frustrazioni…), ma di “appesantirli” facendo sì che non scarichino le loro responsabilità sui figli, imponendo loro attese e comportamenti a causa della propria incapacità di adulti di portare il peso delle mancanze e delle perdite. Wénin lo dimostra con la posizione di Giuda nei confronti del padre Giacobbe che non intende lasciar partire Beniamino.

I genitori vanno in ogni caso “appesantiti” con l’onore a loro dovuto perché da essi i figli ricevono la vita, la Legge che interpreta e dà senso alla vita, e, dopo la loro morte, la terra. Si spiega così la lunga motivazione messa in coda a questa parola: così si potrà essere felici, godere di lunga vita, possedere la terra.

I comandi che i testi legislativi elencano in liste articolate dalla particella di coordinazione “e”, sono espressi nei racconti da storie che mostrano i collegamenti tra una trasgressione di una parola e l’altra. La cupidigia porterà all’invidia, all’omicidio e alla falsa testimonianza.

Le ultime parole del Decalogo ricordano che occorre non solo evitare di commettere atti esterni malvagi di cupidigia, ma di sorvegliare e reprimere i sentimenti soggettivi interni di “rapina” che portano a porre in essere la bramosia di case, donne, beni del proprio prossimo.

Legge e narrazione

Wénin spiega le disposizioni del Decalogo tramite l’esame di racconti biblici. Quando, ad esempio, YHWH minaccia la punizione fino alla terza e quarta generazione, si deve intendere con questo l’annuncio della sua “visita ispettiva” (verbo pqd), che può concludersi sia col giudizio che con il perdono. Pqd non significa “punire” ma “visitare”, “ispezionare”. È indubitabile, però, che questa minaccia intende esprimere solo il fatto che le trasgressioni dovute alla cupidigia comportano sempre conseguenze tragiche e pesanti strascichi intergenerazionali. Questo è ben dimostrato dal racconto della fraternità infranta e ritrovata in Gen 37-50, dovuta in partenza ai genitori e alla loro incapacità di integrare la “perdita” e la “mancanza”.

Elemento primario per un accostamento corretto alle Dieci Parole è quello di non dimenticare la prima di esse. Chi parla e chiede l’osservanza di queste parole impegnative che sono percepite dai credenti come vincolanti in quanto date da Dio è colui che ha liberato Israele dalla schiavitù del faraone d’Egitto, facendo uscire le persone attraverso la via stretta e umida della libertà: una seconda nascita come persone e come popolo libero (passaggio del Mar Rosso).

Liberati della schiavitù, gli uomini devono poter rimanere liberi e collegati al loro Dio, YHWH, che è un Dio di alleanza, come egli ha rivelato a Mosè dal roveto ardente. Le Dieci Parole sono parole di liberazione e di libertà per rimanere liberi e alleati. Per rimanere liberi dalla cupidigia onnivora e fusionale, liberi e grati di essere “limitati” per poter accogliere l’altro, il creato e il futuro.

L’ultima legge del Deuteronomio (Dt 26,1-15) è sulle primizie e sulle decime. Il senso del testo è che gli uomini sono liberi perché recettori di un dono che deve farsi riconoscenza verso Dio (“primizie”) e solidarietà verso il prossimo che versa in povertà (decime).

Le Dieci Parole non vogliono creare degli schiavi minorenni e succubi del potere (divino, dei genitori, delle attese della società), ma rendere persone e comunità libere dalla cupidigia/bramosia in vista dell’accoglienza di una vita non idolatrica. Una vita che accetta il limite, aperta quindi alla comunione e alla condivisione.

Bel libretto, potente e avvincente come potenti sono le Dieci Parole di libertà commentate da Wénin, più che mai valide anche per il mondo onnivoro e narcisista dei nostri giorni.

ANDRÉ WÉNIN, Dieci parole per vivere (Lapislazzuli s.n.), EDB, Bologna 2019, pp. 112, € 10,00, ISBN 978-88-10-55943-7.

 

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