E subito sparì

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In questo momento particolare desideriamo condividere con i lettori e le lettrici di SettimanaNews un pezzo del nostro percorso condiviso di amicizia e fede, fatto di dialogo, preghiera e sana dialettica fra un teologo e un vescovo. Insieme immaginiamo e lavoriamo per una Chiesa capace del Vangelo e dei vissuti umani che la generano sempre di nuovo.

Permetteteci di iniziare con una confessione personale: siamo consapevoli che, se c’è un luogo in cui possiamo metterci entrambi e riconoscere il compito della fede che spetta a ciascuno di noi, esso è quello dei due discepoli all’inizio della scena evangelica – per strada mentre «conversano l’un l’altro».

L’amicizia che sostiene

E come loro anche noi ci ritroviamo a parlare di «tutte le cose che sono accadute»; cose che, come ogni uomo e donna del nostro tempo, ci hanno toccato – talvolta colpito. Cose, comunque, che ci sembrano sopravanzare le nostre capacità ma che non possiamo, e non vogliamo, non cercare di prendere in mano. Quando queste cose iniziano a circolare nei legami dell’amicizia diventano meno gravose, si sentono accompagnate e sostenute nel farle diventare un pezzo di strada percorsa insieme. «Ciò che è accaduto» rimane tale, non possiamo riscrivere la storia; ma possiamo portarla alla parola, esporla alla percezione dall’altro.

pasqua

Discorrendo l’un l’altro si apre un pertugio affinché parole altre possano intrufolarsi nel nostro discorso – parole cariche della forza di alterarlo, di spiazzarci proprio come siamo stati spiazzati da tutte «queste cose che erano accadute». Queste parole che interrompono il nostro discorso sono salutari, ne abbiamo bisogno, e ci piacerebbe diventarne i destinatari. Solo questo allargamento del dialogo ci consente di esporre alla critica i nostri pensieri; e di scoprire la nostra assuefazione al sistema che pensiamo di poter sovvertire condividendo tra noi pratiche di vita e sensibilità della fede proprie a ciascuno.

Dio altrove

Certo, le «cose successe» hanno costretto anche noi a lasciare la città dove regna socialmente l’evidenza religiosa di Dio; ci hanno fatto uscire dai confini istituti e regolati per autorità di quel culto a Dio che, comunque, vogliamo continuare a rendere. Quelle mura apparentemente sicure sono oramai irrimediabilmente alle nostre spalle. Perché proprio lì, in quella città in cui la presenza di Dio sembrava essere assicurata per sempre, è successo qualcosa che ha dislocato la presenza divina altrove.

Non sappiamo dove, sappiamo solo che non è più dove essa sembrerebbe essere così evidente da finire per diventare qualcosa di scontato. E Dio, se uno ne esiste, è tutto tranne che scontato; è tutto tranne qualcuno/qualcosa che può essere religiosamente addomesticato e tenuta a guinzaglio dalla mano di una fortezza istituzionale.

Quello che così è successo ha messo in questione la nostra fede, ha scosso in radice il nostro acquietarci abituale a Dio – pensando che le nostre rappresentazioni di lui coincidessero con il suo desiderio di essere fra noi, umani che abitiamo questa fragile terra. L’incanto della narrazione di Luca è che per provare la gioia sorprendente della sua chiusura devi sempre rimetterti nella posizione di inizio della storia che racconta.

Pensare che il testo si chiuda su di sé, senza riportarci continuamente in posizione di inizio, vorrebbe dire scambiare l’incanto del riconoscimento, e la letizia dell’assenza che esso genera, con l’inebriamento del possesso e del dominio. Costringendo così di nuovo l’apertura ariosa e azzardata della narrazione evangelica dentro le mura della fortezza inespugnabile.

L’attrazione fatale

Se sempre ci troviamo a confabulare tra di noi, storditi per quello che «era successo», se l’assicurazione dell’evidenza religiosa di Dio è oramai alle nostre spalle, sentiamo anche di essere esposti a quella forza di gravità che spinge la perdita di quell’evidenza verso l’attrazione della potenza del potere e della violenza. Verso i luoghi che ci ricordano che un tempo abbiamo pur sempre vinto noi, in nome di Dio e a costo di sterminare gli altri.

Pasqua

Diventata inabitabile per la fede la città che rende Dio un’evidenza scontata, la grande tentazione per la devozione religiosa verso Dio è quella di lasciarsi attirare dalla potenza del potere, di scambiare l’affermazione di quest’ultimo con il servizio reso a Dio nella storia umana.

Emmaus è questo polo di attrazione della tentazione, che rischia di risucchiare anche la più genuina devozione per Dio.

Sappiamo di esservi esposti anche noi: esserne consapevoli è l’unico strumento che abbiamo nelle nostre mani e nei nostri cuori per non lasciarci trascinare nel gorgo del suo vortice ammaliante.

Questa consapevolezza che frena, davanti all’attrazione sostitutiva della potenza del potere, è la condizione necessaria per trovarsi in quella posizione di inizio che introduce all’incontro evangelico col Risorto; e quindi apprendere proprio da qui, ogni volta di nuovo, cosa voglia dire essere discepoli e discepole del Signore.

Le molte narrazioni e i loro intrecci

Nei vangeli Gesù appare ai suoi, riconoscendoli così come quelle donne e quegli uomini abilitati a costituire la comunità credente che verrà. Questa è la posizione che dovrebbe assumere la Chiesa che celebra settimanalmente la memoria della Pasqua.

Il racconto lucano dei «discepoli di Emmaus» è costruito intorno all’intersecarsi di tutta una serie di narrazioni (interessante che in molte lingue questi due siano passati alla storia per un luogo che non hanno mai raggiunto, perché qualcosa è successo che ne ha frenato la caduta nella potenza del potere dopo aver vissuto la disillusione della perdita di evidenza sociale della religione istituita).

La narrazione fuori campo dell’evangelista, che costruisce la scena e intreccia i vari livelli narrativi. Poi quella dei due discepoli, che discorrono tra loro e di cui sapremo qualcosa solo quando entra in scena l’estraneo che li provoca a raccontare «le cose avvenute in Gerusalemme» e quelle «riguardanti Gesù il Nazareno». Solo a questo punto fa capolino la narrazione dell’ignoto, fulminea nel suo rimprovero ai due per poi agganciarsi subito ad un’altra narrazione, quella della tradizione religiosa che aveva oramai perso ogni significato reale per i due viandanti. Infine, la narrazione di costoro che arresta ogni movimento, ogni lento scivolare, e apre il tempo affinché l’ordine della parola possa farsi gesto conviviale.

Dopo questa interruzione si riannoda il filo della narrazione, che confessa di una genesi nascosta dell’affezione della fede e riprende a ritroso il cammino verso la città oramai vuota di ogni presenza evidente di Dio.

Come dicevamo, il racconto funziona nella sua forza generatrice di una comunità che verrà solo se questa sarà disponibile a trovarsi, sempre di nuovo, nella posizione del suo inizio – ossia in quella scomoda della consapevolezza della perdita definitiva dell’evidenza religiosa come architettura complessiva della città degli uomini e delle donne.

Il farsi della parola

Proviamo a seguire il filo di queste molte narrazioni e degli slittamenti l’uno sull’altro dei loro piani. Per non vivere con risentimento la perdita irrimediabile bisogna trovare compagni/e di via, perché solo così la sensazione di sconfitta e marginalità, in condizione di confino nell’esteriorità rispetto al cuore pulsante delle nostre città, può diventare parola. Parola che cerca di darsi ragioni, che desidera trovare argomenti che siano capaci di sostenere la marginalità e l’esteriorità in cui ci si trova e, allo stesso tempo, di elaborare argomenti validi e plausibili che possano essere detti proprio nella città abitata da tutti.

Questo è lo stato d’animo dei due viandanti, di cui uno rimane completamente anonimo così che ogni lettore/lettrice possa identificarsi con lui. L’anonimo tiene aperto lo spazio per l’entrata in scena di chiunque. Mentre questa narrazione è ancora in corso, l’arte letteraria di Luca pone accanto a loro «addirittura lo stesso Gesù»; come se il portare alla parola la fine di un ordinamento istituito della relazione religiosa con Dio generasse la prossimità e il camminare insieme del Signore risorto. Ed è proprio come un ignoto non riconoscibile, estraneo a tal punto da non sapere nulla di ciò che in verità lo riguarda direttamente, che il Risorto percorre la via degli umani insieme con loro.

Presente nel non essere riconosciuto

La presenza si accende proprio nel più profondo del non riconoscimento – questo accade quando il desiderio di Dio non è che quello di essere uno tra gli altri: pronto quindi a pagare il prezzo di essere esattamente uno come gli altri.

Pasqua

La narrazione del Risorto, ignoto agli ignari, inizia con una domanda rivolta ai due, inizia concedendo loro la parola; grazie al terzo viene aperto lo spazio chiuso di una narrazione che rimbalza sulle reciproche conferme che si possono dare l’un l’altro.

Ma è così che si realizza la prossimità ignota di Dio: chiedendo di far parte della narrazione del vissuto umano lo libera dal gioco di specchi del doppio chiuso in se stesso. È in questo modo che tutti, anche i due viandanti, vengono a sapere realmente cosa è successo e possono portare alla parola le loro speranze e attese spezzate dal corso degli eventi del vivere.

Il rimprovero del Risorto non riconosciuto rimane, alla fin fine, sospeso a mezz’aria: «quanto era accaduto» poteva essere letto anche in altro modo. Ma qui Gesù si rende subito conto che la chiave per leggere altrimenti gli eventi semplicemente non funziona più, non ha alcun senso davanti all’effettività dei vissuti concreti con i quali cammina insieme. Quella chiave di lettura possibile deve essere riattivata, deve diventare narrazione che faccia senso addirittura per coloro che sanno di essa, figuriamoci per tutti quelli che ne sono ignari.

La narrazione del Risorto è esattamente quella che riattiva una tradizione religiosa inerte, incapace di far fronte agli eventi del vivere, così da renderla pertinente per coloro che quegli eventi devono pur sempre attraversarli. E qui non si riesce bene a capire se l’inerzia di quella storia oramai inutile viene riattivata in sé, o se è piuttosto l’inedito di una narrazione del tutto inattesa che ne mette in circolo le forze residuali, rendendola significativa per coloro a cui essa è rivolta.

Quello che ci sembra certo è che senza un filo narrativo che sa impattare sull’oggi della vita, quella storia, da cui si dipana anche l’inedita narrazione della presenza senza riconoscimento, sarebbe semplicemente materiale da archivio che registra un tempo che fu e non è più il nostro.

Sentendosi i destinatari di questo intreccio di piani narrativi, di riattivazione e di inedito, i due trovano in sé stessi la forza di interrompere la narrazione dell’estraneo e lo invitano a dimorare con loro. L’abitare insieme un tempo condiviso deve essere ciò a cui la narrazione mira, ben sapendo che in questo tempo la parola non può trovare spazio alcuno. Perché l’abitare è fatto di gesti, di pratiche, di sfioramenti; è insomma un ordinamento ben diverso da quello della parola.

Come se…

«Andare oltre», questa è la grande tentazione di Dio: quella di concedersi l’illimitatezza dei cieli piuttosto che l’angustia di abitare con gli umani. Ma il Risorto, nella sua ignota estraneità, è esattamente la strenua resistenza di Dio davanti a questa tentazione. Il senso della risurrezione è quello di un Dio che si lascia persuadere all’abitare con e tra noi, ed «entra per dimorare» con chiunque lo inviti a sostare in un tempo senza parole. O meglio, in un tempo in cui l’ordine della parola si deve fare gesto per accendere una narrazione che non sarà più la sua.

Pasqua

Questo è quanto accade alle porte di Emmaus, a un passo dall’ingresso nella tentazione della potenza del potere. L’invito alla sosta e al dimorare-con è ciò che ferma Dio stesso dall’abbandonarsi alla potenza del potere e lo fa entrare in una dimensione totalmente altra: quella della convivialità vespertina, del cibo condiviso, della tavola a cui ci si siede per fare cena insieme.

Entrato in questa dimensione il Risorto viene riconosciuto e immediatamente diventa l’assente. Non può essere altrimenti, se ciò che la narrazione vuole evitare è esattamente il riprodursi di una presenza (di Dio) nella forma dell’evidenza sociale, che si impone con la sua potenza architettonica dominando su tutta la città degli uomini e delle donne. Non così dovrà essere della comunità a venire che si accende nella luce del tramonto di quel giorno.

È proprio dall’assenza, e dalla mancanza di ogni evidenza, che scaturisce la nuova narrazione dei due viandanti, nel momento stesso in cui essi ripercorrono sul filo degli affetti il tratto di strada fatto insieme all’estraneo, per cogliere in quei passi di compagnia ignota i germi di una sensazione di cui il cuore sapeva già ben prima di ogni parola.

Riconoscimento e assenza

Introdotti dalla scomparsa di Gesù, che coincide con il loro riconoscimento, i due riaccedono alla parola: quella che sa ripercorrere il filo della genesi degli affetti e riconosce che l’assenza è l’unico registro possibile per dimorarvi con letizia. Si accende qui la grammatica minima di una gioia che non può essere contenuta nella privatezza dell’esperienza personale; e inizia così il lieto cammino verso la convivialità dei sensi sulla quale edificare la comunità che verrà.

La fede pasquale è quella che riesce a (sop)portare l’assenza e il toglimento, non come delusione e sconfitta, ma come apertura di un tempo che sfugge alla pianificazione e alla progettazione avanzando lietamente verso di esso – ben sapendo che solo la disponibilità a trovarsi sempre di nuovo nel punto di inizio della narrazione può dare la forza di sostare nella sua chiusura aperta su ogni domani dell’umanità e della fede.

In questo giorno di una Pasqua diversa ci sembra che il racconto dei «discepoli di Emmaus» possa offrire la plasticità di una grammatica minima per la generazione della Chiesa come comunità che verrà. La declinazione culturale e quella istituzionale di questa scena degli affetti (degli uomini e di Dio) è compito che spetta a tutta la comunità cristiana; ed è solo all’interno di essa e insieme a lei che anche il teologo e il vescovo possono venire istruiti sul modo giusto di esserne parte. È la Pasqua che ci auguriamo per noi e per la Chiesa – desideravamo solo estendere questo augurio a tutti voi.

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3 Commenti

  1. Luca Fiandri 14 aprile 2020
  2. Davide Baraldi 14 aprile 2020
  3. Anna Maria Parente 13 aprile 2020

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