Gerusalemme al tempo di Gesù

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Pubblicato per la prima volta nel 1969 dal grande esegeta (1900-1974) che aveva vissuto molti anni a Gerusalemme prima di insegnare in varie università tedesche, questo classico era stato editato dalle EDB nel 2000 e ora riprodotto nella collana Reprint che raccoglie opere il cui valore supera il tempo della loro prima comparizione per essere giunte a costituire punti di riferimento imprescindibili nelle ricerche teologiche.

Nonostante gli anni trascorsi, che hanno comportato nuove metodologie di ricerca, nuovi dati più aggiornati o meglio precisati, l’opera di Jeremias continua a rivestire un’importanza destinata a durare ancora nel tempo.

Le sue due ricerche di storia economica e sociale costituiscono le due grandi parti dello studio. Nella prima parte (pp. 15-142) egli esamina la situazione economica di Gerusalemme al tempo di Gesù, mentre, nella seconda parte (pp. 143-563), si sofferma sulla situazione sociale.

La situazione economica

Jeremias parte dallo studio dei mestieri presenti a Gerusalemme e dalla loro organizzazione. Esamina quindi il tema del commercio e il movimento degli stranieri. Su ciascun tema fa seguire alcune note sull’influsso di Gerusalemme in forza della sua peculiarità.

Egli esamina i mestieri di interesse generale che riguardano gli articoli per la casa (tappeti, coperte, tessuti, unguenti, resine profumate…) che prevedevano l’attività di tessitura, di follatura, l’industria del cuoio.

L’alimentazione richiedeva tra i prodotti alimentari innanzitutto l’olio, la produzione del pane e l’attività dei macellai. Gli articoli di lusso (unguenti e resine) venivano prodotti e venduti a Gerusalemme. Ne sono testimoni anche i vangeli. La corte erodiana assorbiva molti oggetti di lusso. E opere dovute all’artigianato di opere d’arte.

Altre occupazioni erano la fabbricazione di sigilli e il lavoro dei copisti. Importante era l’attività dell’edilizia, molto alimentata da Erode il Grande con le sue numerose imprese edilizie, la costruzione del nuovo tempio in primis. L’autore passa in rassegna le costruzioni, gli operai dell’edilizia per la costruzione ordinaria (cavapietre), le costruzioni artistiche e la manutenzione degli edifici. Altri mestieri artigianali erano quelli dei medici, barbieri, lavandai, cambiavalute.

Dopo aver descritto la disposizione della città e la sua non felice posizione geografico-economica, illustra l’organizzazione interna delle singole professioni, dislocate nei punti più adatti delle vie e delle piazze (le botteghe di artigiani sulle strade, i sarti alle porte, i mestieri d’arte nella parte alta della città, dove si trovavano anche i follatori pagani). «Per questo lo sputo di un abitante della città alta era considerato impuro» (p. 43).

L’organizzazione dei mestieri era connotata da un raggruppamento locale e da una natura corporativa. Corpi di mestieri destinati alla costruzione del tempio erano gli operai (si stima fossero 18.000, disoccupati al termine del lavoro…): tagliapietre, carpentieri, lavoratori dell’oro, dell’argento e del bronzo. Per il culto occorrevano coloro che allestivano i pani della proposizione e i profumi da ardere, chi curava le cortine del tempio, gli orafi, il fontaniere capo, il medico del tempio, i barbieri… Jeremias descrive l’organizzazione in corporazioni delle maestranze del tempio, privilegio di alcune famiglie.

Lo studioso analizza quindi l’influsso di Gerusalemme sui mestieri in considerazione della sua peculiarità. Oltre alla pietra, c’era poco di disponibile: argille di cattiva qualità, poca acqua. Il tutto non favoriva lo sviluppo dei mestieri o la presenza di alcun prodotto tipico della città.

Il commercio

La città aveva importanza politica e religiosa. Aveva 25-30.000 abitanti ai tempi di Gesù. Occorreva il commercio per l’importazione delle merci. Per finanziare il commercio c’erano gli immensi introiti del tempio, gli affari occasionati dalla presenza di stranieri, i redditi di imposta per i periodi dei sovrani indipendenti.

Gerusalemme calamitava i possessori di grandi capitali: grossi negozianti, esattori d’imposta, ebrei della diaspora arricchiti, che talvolta vi si stabilivano per sempre per convinzione religiosa. «Da tutto ciò risulta quindi un’immagine singolare: è vero, la situazione della città era del tutto sfavorevole allo sviluppo dei mestieri; tuttavia certi mestieri prosperavano in forza della sua importanza economica, politica e religiosa» (p. 57).

L’esemplificazione data per questo paragrafo fa intuire la ricchezza della ricerca di Jeremias, confortata da fonti bibliche, rabbiniche e altre.

Gli stranieri

Il terzo capitolo della prima parte (pp. 101-142) si sofferma sui movimenti degli stranieri a Gerusalemme e l’influsso che la città aveva su di esso a motivo della sua peculiarità. Lo studioso fornisce dati su come poteva avvenire il viaggio a Gerusalemme (generalmente a piedi per i viandanti), i preparativi, le strade in cattivo stato, dove si poteva trovare alloggio. Ricorda anche i movimenti degli stranieri provenienti da paesi lontani (cf. At 2,9-11!): Gallia e Germania, Roma, Grecia, Cipro, Asia Minore, Mesopotamia e regioni ad est di essa, Siria, Arabia (Regno nabateo, Egitto, Cirene, Etiopia. Era però la circolazione interna della Palestina a costituire la maggior parte di traffico verso Gerusalemme, in specie la Giudea (pellegrinaggi, commercio con carovane…) La situazione geografica della città a proposito del commercio vale anche per il movimento degli stranieri.

Gerusalemme aveva una grande importanza politica e religiosa. Era l’antica capitale, la sede dell’assemblea suprema, il tempio attirava pellegrini, era centro politico che divenne città romana dopo il 6 d.C. Era un centro ragguardevole per la formazione degli ebrei e importante per le correnti religiose. Soprattutto ospitava il tempio, e quindi era «la patria del culto ebraico, il luogo della presenza divina sulla terra» (p. 127). Ci si recava per pregare, in pellegrinaggio nelle tre feste più importanti, si portavano le primizie, le madri si purificavano, vi si inviava da tutto il mondo l’imposta per il santuario, vi si recavano a turno le varie sezioni di sacerdoti, leviti i israeliti; «qui, tre volte ogni anno, affluiva l’Ebraismo del mondo intero» (p. 129). Per le feste arrivavano anche i pellegrini della diaspora.

A Pasqua gli ebrei si dividevano in tre gruppi per entrare nel tempio a immolare i sacrifici. Calcolando lo spazio disponibile del tempio, Jeremias ipotizza 18.000 vittime Pasquali. Una tavola comune poteva avere in media 10 commensali. Sottratti i 55.000 abitanti di Gerusalemme (Jeremias varia poi la cifra) si può ipotizzare la presenza di 125.000 pellegrini, cifra che, secondo l’autore, può essere dimezzata o raddoppiata. Alle pp. 141-142 Jeremias fa un epilogo datato 1966 e rifà i conti proponendo di dimezzare le cifre. Gerusalemme aveva 20.000 abitanti dentro la cinta delle mura, 5-10.000 all’esterno. Il limite massimo di abitanti di Gerusalemme sembra essere 25.000. Forse troppo alta la cifra di 6.400 persone per ciascuno dei tre gruppi di offerenti (che porta a 180.000 il numero dei pellegrini). «Un fatto comunque è certo: durante la Pasqua, l’afflusso dei pellegrini che giungevano da tutto il mondo era imponente; il loro numero superava più volte quello della popolazione di Gerusalemme.

La situazione sociale

La Parte seconda del volume, molto più ampia della prima, è dedicata alla situazione sociale di Gerusalemme. La trattazione è suddivisa in due grandi sezioni: A) Ricchi e poveri (pp. 145-234); B) In alto e in basso della scala sociale (pp. 235-563).

Le informazioni che Jeremias fornisce sono impressionanti per numero e interesse, sempre documentate dalle fonti. Spulciamo qua e là.

Nella prima sezione della Parte seconda, Jeremias esamina in quattro capitoli il gruppo dei ricchi, quello della classe media, la fascia dei poveri e, infine, i fattori determinanti per lo sviluppo delle condizioni economiche degli abitanti di Gerusalemme al tempo di Gesù.

I ricchi e la classe media

I primi appartengono alla corte o alla classe ricca, benestante. La servitù della corte comprendeva 500 persone. Ci sono i funzionari del re, il segretario del re, il tesoriere, i precettori dei principi reali. C’è l’entourage dei re: intimi, «cugini e amici», c’è l’harem. Di fondo, la corte conservò connotazioni orientali. Vige la poligamia. Jeremias ricorda che la Legge lo consentiva, la Mishnah concede fino a 18 mogli, il Talmud parla di 24 o 48…

C’erano anche corti più piccole, quelle dei principi reali. Anche con 1.000 talenti di introiti Erode non poteva far fronte a tutti gli impegni e saccheggiò il patrimonio di vari ricchi dopo averli fatti giustiziare. La classe ricca viveva nel lusso, fra banchetti che dettavano legge. Si accenna alle cerchie abbienti dei funzionari o del problema del matrimonio leviratico. Le doti per le figlie erano forti somme e non mancavano a Gerusalemme le grandi dame (ad es., Marta vedova del sommo sacerdote R. Yoshua).

Fra i rappresentanti della classe ricca vanno annoverati i detentori del capitale nazionale: i grossi negozianti, i grandi proprietari fondiari, gli esattori d’imposte e i reddituari. La nobiltà sacerdotale faceva parte della classe dei ricchi (Anania, Anna, Caifa…) che abitavano nella città alta. Un grande lusso regnava delle famiglie dei sommi sacerdoti, che traevano dal tesoro del tempio redditi regolari (oltre a possedere alcuni delle proprietà fondiarie). I sacerdoti ordinari erano in una «situazione miserabile» (p. 164). Sfrenato era il nepotismo nelle nomine alle cariche più lucrative dei funzionari più influenti del tempio, come i tesorieri e i sorveglianti.

La classe media era formata dai piccoli commercianti, gli artigiani, nella misura in cui sono proprietari di officine e non lavorano presso altri come salariati. Non esistono fabbriche. «I dati precisi sulla situazione finanziaria di queste categorie sono assai rari. A certe esagerazioni non bisogna dare credito» (p. 167). «Queste categorie venivano a trovarsi in situazione economica ottimale, quando aveva a che fare con il tempio e con i pellegrini». A dare impulso all’attività alberghiera erano quasi esclusivamente i pellegrini. Nelle feste con pellegrinaggio e quando venivano portate le primizie era obbligo dormire a Gerusalemme. Si formò così la “Grande Gerusalemme”, inglobata nel distretto di Betfage. Una prescrizione vietava di affittare le case della città perché erano proprietà comune di tutto Israele.

Sembra che tutti i pellegrini consumassero il pasto Pasquale nella stessa Gerusalemme. I pellegrini arricchivano i commercianti di derrate e gli addetti all’approvvigionamento (si pensi al necessario per offrire un sacrificio al tempio e per il pasto Pasquale). Era obbligatorio spendere a Gerusalemme il denaro della seconda decima. A Pasqua si facevano regali alle mogli e si acquistavano souvenir.

I sacerdoti facevano parte della classe media. Il clero, sparso nel paese, era organizzato in 24 classi. Quelli residenti in città erano persone colte e agiate (cf. Giuseppe Flavio). Circa i proventi dei sacerdoti, occorre distinguere nettamente fra prescrizione e prassi. Solo di alcuni proventi si è sicuri del pagamento, pur ignorando in che misura venisse pagato: porzioni delle vittime, primizie dei prodotti raccolti, la decima dei prodotti della terra (di questa però non si fa menzione nei compendi dell’epoca). Essi si basano infatti esclusivamente sulla legislazione mosaica e non sulla prassi. La decima dei sacerdoti è attestata, ma non si sa fino a quando fu versata (forse l’abolì il sommo sacerdote Giovanni Ircano). Larghi strati di popolazione non pagavano o pagavano in modo insufficiente le tasse ai sacerdoti, e l’indifferenza della gente li spingeva alla povertà.

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I poveri

II poveri erano costituiti dagli schiavi e dai giornalieri. Si incontrano schiavi soprattutto in città e sono schiavi domestici. I liberti vanno considerati almeno come proseliti. I giornalieri erano molto più numerosi degli schiavi. Guadagnavano un denaro al giorno, più il vitto. Alcuni poveri vivevano cacciando piccioni, guadagnando quattro tortore. Ne offrivano ogni giorno due al tempio, rimanendo con un guadagno di 1/4 di denaro, guadagno ritenuto notoriamente esiguo.

C’erano parti della popolazione che vivevano di aiuti. Per gli scribi era vietato farsi pagare per la loro attività. Sembra che ai tempi di Gesù alcuni esercitassero un mestiere, un’attività profana (Hillel fu un giornaliero, Paolo lavorò durante la sua missione). Gli «scribi vivevano soprattutto di aiuti» (p. 187), in primis quelli dei loro alunni. Persone agiate potevano provvedere ai bisogni del maestro (cf. le donne al seguito di Gesù). Prima del 70 d.C. non si constata l’esistenza di collette per i dottori.

«È dubbio che al tempo di Gesù esistessero a Gerusalemme molti scribi ricchi» (p. 189). Una parte degli scribi erano sacerdoti e godevano di introiti fissi. Tuttavia «gli scribi appartenevano in maggioranza alla classe povera» (p. 190). Rabbi Aqiba e la moglie dormivano sulla paglia e il famoso maestro non aveva denaro sufficiente per offrire una parure alla moglie.

Già «ai tempi di Gesù la città era diventata un centro di mendicità» ed «era soprattutto la distribuzione delle elemosine, considerate particolarmente meritorie se fatte nella città santa, ad alimentare tale mendicità» (p. 192). C’era chi si fingeva cieco, sordo, idropico, zoppo. La mendicità era concentrata attorno ai luoghi santi. C’erano «persone oziose» che si dedicavano solo alla partecipazione al culto. Persone come queste formarono delle bande che terrorizzarono Gerusalemme e scatenarono la guerra civile.

Jeremias analizza infine i fattori determinanti per lo sviluppo delle condizioni economiche degli abitanti di Gerusalemme al tempo di Gesù. Egli prende in considerazione la situazione economico-geografica, la situazione politica e il ruolo della religione e del culto (pp. 197-234).

Vengono studiati il costo della vita nei tempi ordinari e nei tempi di calamità. Tutto costava molto di più che in campagna (la frutta, da tre a sei volte) e nei periodi di calamità (siccità, uragani, terremoti, epidemie) i prezzi salivano alle stelle per la penuria di derrate. Si faceva sentire la sfavorevole situazione economico-geografica di Gerusalemme. Nel 64 a.C. un uragano devastò i raccolti e il prezzo del grano aumentò di sedici volte. Durante la carestia sotto Claudio, Flavio Giuseppe riporta come i prezzi si ritrovarono moltiplicati per tredici.

La situazione politica è connotata dalla dominazione romana. Jeremias studia il tema delle tasse e della loro riscossione, oltre al fenomeno delle lotte e dei saccheggi.

Uno dei temi importanti legati alla religione e al culto è quelli della beneficienza. Meritorie erano l’elemosina e la carità fatta nella città santa. Intermediaria tra beneficienza privata e pubblica c’era quella delle comunità religiose (cf. esseni). Nella comunità cristiana vigeva la comunanza dei beni, volontaria, che si estendeva anche alla proprietà fondiaria. Due corrispondenti istituzioni ebraiche erano il tamḥûy («scodella dei poveri»), con distribuzione giornaliera di pane, fave e frutta ai poveri di passaggio, e la qûppah («paniere dei poveri»), settimanale distribuzione di cibo e vestiti ai poveri della città. I cristiani aiutavano i poveri in varie maniere, anche con collette.

La beneficienza pubblica prevedeva l’anno sabbatico, la decima dei poveri, i diritti normali dei poveri durante i raccolti, altre prescrizioni sociali segnalate nel Talmud e risalenti, a quanto si sostiene, a Giosuè (tagliare legna e far pascolare in campi altrui…). In casi particolari, il culto al tempio prevedeva facilitazioni per i poveri.

La mobilità dei pellegrini era una fonte di reddito fondamentale. Il pellegrino doveva spendere a Gerusalemme la seconda decima, la decima del bestiame e dei prodotti degli alberi e delle viti di quattro anni. «Il culto costituiva la principale fonte di reddito per la città» (p. 224).

Riassumendo, la situazione finanziaria degli abitanti di Gerusalemme era connotata dall’importanza degli strati della popolazione che vivevano di carità, dalla tensione determinata dalla compresenza di strati poveri, della corte e della nobiltà sacerdotale e, infine, dal fatto che la città doveva la sua prosperità alla sua importanza religiosa.

In alto e in basso della classe sociale

Nella Prima sezione di questa parte (pp. 235-410) Jeremias studia le classi alte. Si tratta del clero, della nobiltà laica e degli scribi. In un’Appendice si sofferma sui farisei.

Il clero. L’autore passa in rassegna le vari categorie: il sommo sacerdote, i capi dei sacerdoti e i capi dei leviti; l’aristocrazia sacerdotale; i sacerdoti «comuni»; i leviti («clerus minor»). Si sofferma infine sul carattere ereditario del sacerdozio.

Una seconda classe alta è costituita dalla nobiltà laica. Il gruppo degli anziani presenti nel Sinedrio sono i capi delle famiglie laiche più influenti, chiamati con vari nomi nei Vangeli e da Flavio Giuseppe: «i primi della città», «i notabili», «i potenti», «i capi del popolo», «i potenti e i notabili del popolo». Il trattato Ta’an IV,5 elenca nove famiglie privilegiate, autorizzate a porta la legna per l’altare del tempio. Queste famiglie privilegiate erano originariamente famiglie di proprietari terrieri. Al tempo di Gesù la nobiltà laica comprendeva soprattutto famiglie ricche. Il procuratore seguiva i funzionari delle imposte tra gli anziani.

Flavio Giuseppe ragguaglia sulla posizione intellettuale e religiosa della nobiltà laica: per lo più sono sadducei, «i primi in dignità». Dei sadducei facevano parte anche i capi dei sacerdoti. «La “teologia” sadducea è istruttiva per conoscere la posizione conservatrice della nobiltà laica. Essa si atteneva strettamente al testo della Torah, in particolare ai precetti sul culto e sul sacerdozio; si trovava quindi in netta opposizione con i Farisei e con la loro halakah orale che dichiarava obbligatorie, anche per i gruppi dei laici devoti, le prescrizioni sulla purità relative ai sacerdoti» (pp. 357-358).

Influenti nella vita nazionale, alla fine della guerra del 66-70 la «nuova e potente classe superiore, quella degli scribi, aveva scavalcato in ogni campo l’antica classe della nobiltà sacerdotale e laica fondata sul privilegio della nascita» (p. 359).

Una terza classe alta era costituta dagli scribi, organizzati in corporazione. Vi facevano parte sacerdoti di rango elevato, semplici sacerdoti e persone di tutti gli strati sociali, che costituivano la maggioranza. Il potere degli scribi derivava dal sapere, appreso da un maestro. Lo scriba diventava «dottore non ordinato» (talmid ḥakam) e a 40 anni, con l’ordinazione (semikah), poteva diventare «dottore ordinato» ed entrare nella corporazione con il diritto di farsi chiamare Rabbi. Essi trasmettevano ed elaboravano la trazione derivata dalla Torah che, «secondo l’insegnamento farisaico impartito alla massa del popolo, era posto su un piano di parità con la Torah, se non al di sopra di essa» (p. 366).

Oltre ai capi dei sacerdoti e dei membri delle famiglie patrizie, «lo scriba era l’unica persona che potesse entrare nell’assemblea suprema, il Sinedrio; il partito farisaico del Sinedrio era composto totalmente da scribi» (ivi). L’influsso dominante degli scribi sul popolo si deve sia alla conoscenza delle tradizioni e al fatto di detenere i posti chiave nella società, ma anche «per il fatto di essere detentori di una scienza segreta, ossia della tradizione esoterica» (pp. 367-368), fatto poco sottolineato dagli studiosi, a detta Jeremias.

A Gerusalemme confluivano giovani ebrei da tutto il mondo per diventare alunni di maestri famosi. Si dice che solo Hillel avesse 80 alunni. Il popolo venerava gli scribi quali detentori della sacra scienza esoterica. Agli scribi obbedivano soprattutto i farisei, che formavano la maggioranza di questa classe. Jeremias cita varie prove che attestano il prestigio degli scribi sulla gran massa del popolo: saluto sulla strada – spesso evidenziato con l’alzarsi in piedi –, appellativi come «Rabbi», «Padre», «Maestro», primi posti nelle sinagoghe, posizione con le spalle volte all’arca della Torah, di fronte all’assemblea, visibili a tutti.

Farisei e sadducei

Sociologicamente parlando i farisei («separati» – cioè i santi –, la vera comunità di Israele) appartenevano alla classe superiore. In maggioranza erano persone del popolo e non possedevano la formazione degli scribi, con cui avevano stretti legami, tanto da rendere difficile, secondo Jeremias, una netta separazione fra i due gruppi. Formavano comunità farisaiche (ḥabûrôt) a Gerusalemme. Importante era la «santa comunità di Gerusalemme».

I farisei erano molto attenti al compimento delle opere supererogatorie e alle opere buone. Praticavano la beneficienza, e le comunità farisaiche di Gerusalemme avevano regole precise per l’ammissione dei membri. Erano comunità chiuse. Flavio Giuseppe parla di 6.000 farisei durante il regno di Erode. Jeremias parla di 25-30.000 abitanti di Gerusalemme, di cui circa 18.000 fra sacerdoti e leviti e 4.000 esseni. È difficile distinguere accuratamente scribi e farisei, spesso citati insieme. I rimproveri di Gesù agli scribi (Lc 11,46-52; 20,46) e quelli rivolti invece agli farisei (Lc 11,39-42.44) possono chiarire alcune caratteristiche proprie di ciascun gruppo.

I farisei non erano in quanto tali degli scribi. Per Jeremias è un’idea totalmente falsa. Lo erano invece sicuramente i capi e i membri influenti delle comunità farisaiche (cf. p. 391). Solo una parte degli scribi conformavano la loro vita alle prescrizioni farisaiche (ad es. forse Hillel; Nicodemo). Anche «un gran numero di sacerdoti erano farisei» (p. 394). Coloro che facevano parte della comunità farisaica «erano soprattutto mercanti, artigiani e contadini» […], piccoli plebei, persone del popolo prive della preparazione degli scribi, seri e pronti alla dedizione. Solo che troppo spesso si dimostravano duri e orgogliosi nei confronti della grande massa […] che non osservavano come loro le prescrizioni delle leggi religiose degli scribi farisei e nei confronti dei quali i farisei si consideravano come il vero Israele» (pp. 397-398).

Le regole di purità richieste dai farisei anche ai laici portò allo scontro con il partito dei sadducei, che sostenevano invece che il diritto sacerdotale fosse limitato ai soli sacerdoti e al culto. In ogni caso, «religiosamente e socialmente, i farisei costituivano il partito del popolo; essi rappresentavano la massa di fronte all’aristocrazia, tanto dal punto di vista religioso che sociale» (p. 408). «Il modo incondizionato con cui la popolazione seguiva i farisei ha qualcosa di sorprendente» (ivi).

I farisei si opponevano ai sadducei e si distinguevano dalla grande massa quale vero Israele, con un certo disprezzo perché essa evadeva gli obblighi della decima. «Generalmente, tuttavia, il popolo continuò a considerare i farisei, che si obbligavano a praticare volontariamente opere supererogatorie, come i modelli della pietà e i realizzatori dell’ideale di vita concepita dagli scribi, gli uomini della scienza divina e della scienza esoterica. Da parte di Gesù, fu audacia senza pari, derivante dall’onnipotenza che gli veniva dalla coscienza della sua sovranità, rivolgere, pubblicamente e senza timore, anche a queste persone l’appello alla penitenza. Tale audacia lo porterà sulla croce» (p. 409).

La purità del popolo

Nella Seconda sezione di questa parte (pp. 411-563) Jeremias tratta della purità del popolo come un valore da conservare.

Egli tratta di seguito i gruppi della comunità del popolo, gli israeliti di origine pura, i mestieri disprezzati e gli «schiavi» ebrei; gli israeliti illegittimi (segnati da macchia leggera o da una macchia grave); gli schiavi pagani; i samaritani.

In Appendice tratteggia la situazione sociale della donna (pp. 539-563).

Secondo Jeremias (cf. p. 412) la ripartizione dell’insieme dell’ebraismo al tempo di Gesù fu guidata dall’idea fondamentale della purezza del sangue nel popolo. I sacerdoti vigilavano sulla legittimità delle famiglie sacerdotali, ma anche la comunità del popolo era ripartita secondo la purezza della propria origine. «Solo gli israeliti di origine legittima formavano l’Israele puro» (ivi). «Venivano escluse le famiglie nella cui origine era possibile individuare qualche contaminazione. Come per i sacerdoti, la ragione era di ordine religioso: la nazione era considerata come un dono di Dio e la sua purezza come volere di Lui; le promesse della fine dei tempi valevano per il nucleo puro del popolo» (ivi).

Un problema notevole era costituito dai pagani che si convertivano all’ebraismo. «Senza dubbio essi non facevano parte del nucleo puro del popolo israelitico, ma erano certamente accolti nella sua comunità più ampia e avevano diritto a sposarsi con israeliti di origine pura, non sacerdoti. Anche in questo caso la ragione era di ordine religioso: l’appartenenza alla comunità religiosa vale più dell’origine» (ivi).

Un solo accenno ai mestieri disprezzati. A p. 460 l’autore riporta quattro liste ricavate dai trattati della Mishnah e del Talmud babilonese. Essi sono (con ripetizioni): asinaio, cammelliere, marinaio, vetturale, pastore, bottegaio, medico, macellaio, raccoglitore di escrementi di cane, fonditore di rame, conciatore, orefice, pettinatore di lino, tagliapietre per macine, venditore ambulante, tessitore (e sarto), barbiere, sbiancatore, capo dei bagni, conciatore, giocatore di dadi, usuraio, organizzatore di concorsi di piccione, mercante di prodotti durante l’anno a maggese, pastore, collettore di imposte, pubblicano.

Jeremias tratta poi anche degli «schiavi» ebrei.

La donna

La donna non partecipava alla vita pubblica, almeno nelle famiglie ebraiche fedeli alla Legge. La ragazza doveva stare in casa. La situazione della donna in casa corrispondeva all’esclusione dalla vita pubblica. L’autore parla dei doveri delle ragazze, del rapporto con la patria potestas (fino a dodici anni e mezzo il padre aveva ogni potere), del fidanzamento e del matrimonio che veniva celebrato ordinariamente un anno dopo il fidanzamento.

Con esso la donna passava sotto il potere del marito e andava ad abitare nella casa dello sposo, a cui obbediva come a un padrone. Si parla della vita coniugale e dei doveri della sposa (che si riassumevano in quello di occuparsi soprattutto della casa). La poligamia era consentita, il divorzio era prerogativa esclusiva dell’uomo.

Le donne erano esentate da molte prescrizioni religiose (ad es. pellegrinaggi, studio della Torah). I loro diritti religiosi erano limitati. Jeremias cita come sintesi della situazione della donna nella legislazione religiosa una formula corrente: «Donne, schiavi [pagani] e figli [minorenni]; come lo schiavo non ebreo e il minorenne, la donna ha sopra di sé un uomo come padrone, e questo limita la sua libertà anche nel servizio divino. Perciò risulta inferiore all’uomo dal punto di vista religioso» (p. 561).

Spesso la donna era disprezzata e la nascita di una bambina era accompagnata per lo più da indifferenza e non dalla gioia. Jeremias fa notare come su questo sfondo si possa valutare appieno la novità liberante assunta da Gesù nei confronti della donna. Si lascia accompagnare da delle donne e prende posizione su norme del matrimonio: ricorda la monogamia e vieta il divorzio.

Per un fruttuoso accostamento ai testi biblici

Chiudono il volume gli Indici: Gli scribi di Gerusalemme (in particolare quelli che esercitarono la loro attività a Gerusalemme negli anni immediatamente precedenti il 70 d.C. o che vi studiarono verso il 70 d.C.) (pp. 567-568); i sommi sacerdoti dal 200 a.C. al 70 d.C. (pp. 569-570); indice biblico (pp. 571-586), apocrifi (pp. 587-588); scritti di Qumran (p. 589), la Mishnah (pp. 590-597), la Tosefta (pp. 598-601), il Talmud babilonese (pp. 602-608), il Talmud di Gerusalemme (pp. 609-611), trattati extracanonici (p. 612); Midrash Rabbah (pp. 613-615), Giuseppe (pp. 616-625), Filone (p. 626), indice dei nomi e delle materie (pp. 627-642).

Il volume di Jeremias è un classico della ricerca socio-economica applicata a un test importante, opera sempre utile da consultare per un approccio proficuo ai testi biblici e alla società e religiosità ebraica del I sec. d.C., il tempo di Gesù, dal punto prospettico privilegiato di Gerusalemme, con la sua particolare e non privilegiata posizione geografico-economica, ma connotata da un’importanza religiosa fondamentale.

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