Le parole della Bibbia in chiave francescana

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Fra Francesco Patton, frate minore e custode di Terra Santa, ha pubblicato di recente un libro dal titolo Abbecedario biblico con prefazione di Pierbattista Pizzaballa, anche lui frate minore e, da qualche settimana, patriarca latino di Gerusalemme. Abbiamo chiesto a fra Patton di parlarci in merito a quest’ultima pubblicazione.

– Come è nata l’idea di un “abbecedario” biblico?

È nata qualche anno fa, dal desiderio di approfondire il senso di alcune parole che fanno parte della nostra vita quotidiana e che nella Bibbia acquistano un significato particolare, per offrire queste piccole riflessioni ai fratelli e alle sorelle dell’Ordine Francescano Secolare.

Mi ha sempre incuriosito sia il senso delle parole, sia le cose che fanno parte del nostro mondo, sia il significato della Parola con la “P” maiuscola, cioè la Parola di Dio.

Avendo poi avuto per molti anni anche impegni pastorali e anche di assistenza spirituale e condivisione con il Terz’Ordine Francescano, ho sempre cercato di fare una lettura esistenziale della Parola di Dio, che ci aiuti a trovare un senso nella vita e, al tempo stesso, ho sempre cercato di interpretare e aiutare a interpretare la vita alla luce della Parola.

Proprio nella Regola del Terz’Ordine Francescano c’è un’espressione molto bella, che costituisce anche una chiave di lettura della vita e della Parola. Si dice che bisogna «passare dal Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo» (Regola OFS 4).

Pizzaballa, nella prefazione, ammonisce di non lasciarsi ingannare dalla «mole ridotta del libro»: è stata una scelta ben precisa non allargare troppo il discorso e limitarsi a 96 pagine?

La scelta è stata quella di limitarsi a una sola parola per ogni lettera dell’alfabeto e di non proporre riflessioni troppo lunghe e specialistiche. In fondo, san Francesco nella Regola ci esorta a «predicare con brevità di discorso, poiché il Signore fece una parola abbreviata sulla terra» (Regola bollata IX,4: FF 99).

Il minimo è l’essenziale

Nella selezione delle parole poi ho scelto tra varie possibilità: con la lettera A ho scelto di riflettere sull’acqua, avrei potuto riflettere sull’agnello. Con la lettera S ho scelto di riflettere sulla scala, avrei potuto riflettere sul sangue. Con la lettera T ho scelto di riflettere sulla tromba, avrei potuto proporre invece una riflessione sulla parola tenda. E così via.

Poi, le riflessioni che propongo sono un invito a fare questo stesso esercizio con altre parole e con altri elementi simbolici della realtà, che vengono illuminati dalla Parola. Ognuno può farlo come esercizio di meditazione personale ed esistenziale a partire da ciò che sta vivendo o da ciò che lo colpisce nel mondo, nell’esperienza, nella Bibbia. Oggi, ad esempio, ognuno potrebbe esercitarsi su parole come distanza/presenza, salute/sofferenza e molte altre.

– Sarà anche l’ordine alfabetico, ma il libro si apre con la parola “Acqua”, un elemento naturale che san Francesco ha citato anche nel suo Cantico: cosa ha significato il rileggere le parole della Bibbia con spirito francescano?

La sensibilità francescana mi ha probabilmente allenato a cogliere nel creato ciò che «porta significazione» del Creatore. I primi biografi di san Francesco dicono che per lui il creato era un libro aperto nel quale leggeva ciò che Dio gli diceva, era anche una scala che lo facilitava nella contemplazione della bontà di Dio e nella lode a Lui. Infatti, se le creature «portano significazione», dicono cioè qualcosa dell’altissimo, onnipotente e bon Signore ogni elemento del creato, animato o inanimato è anche un messaggio di Dio e qualcosa che ci può aiutare a intuire qualcosa di Dio.

Ricordo un “esperimento” fatto con un gruppo di bambini della catechesi durante un campo scuola. Ero stato invitato a parlare di san Francesco e avevo spiegato questa idea, presente nel Cantico di Frate Sole, che le creature «portano significazione» di un Dio che è altissimo, onnipotente e buono. Ho chiesto loro di andare a spasso e raccogliere qualcosa che, secondo loro, ci poteva aiutare a comprendere qualcosa di Dio.

Quando sono tornati, ognuno aveva portato qualcosa e diceva brevemente la sua spiegazione. Un bambino di terza elementare ha portato una tegola e ha detto: Dio è come questa tegola, ci protegge. Un altro ha portato una lumaca e ha detto: la lumaca va piano e quindi ci insegna a essere pazienti e che Dio è paziente con noi. E via di questo passo. Erano bambini delle elementari, ma avevano capito qualcosa di fondamentale. Del resto nel Vangelo Gesù dice che i misteri del Regno sono rivelati ai piccoli (cf. Mt 11,25; Lc 10,21).

Il deserto

– “D come deserto”: tante volte si ricorda come la Bibbia sia stata scritta in un preciso momento storico e in un preciso ambiente. Già il vivere alla Custodia di Gerusalemme avvicina allo spirito della Scrittura, ma il deserto per voi a Gerusalemme è proprio di casa. Come vive il deserto uno che è nato e vissuto fra le montagne di Trento?

In realtà, il deserto della Terra Santa è fatto di montagne brulle, di roccia più che di sabbia. Tra i tanti luoghi che custodiamo ce n’è uno – il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo in Giordania – che è il luogo dal quale Mosè avrebbe visto la terra promessa e dove poi sarebbe morto. Quel monte è un deserto e sovrasta il deserto che si stende sottostante e scende giù fino al Sinai.

Il deserto ha un grande fascino. Un collaboratore israeliano mi dice che, quando lui ha una giornata libera, va a trascorrerla nel deserto perché lì, più che sentirsi solo, si sente libero.

Quando io salgo sul Nebo, dall’alto vedo alla sera gruppi di beduini che si radunano su spiazzi di roccia e terra nuda e accendono fuochi per parlare tra di loro e alla fine si ritirano sotto una semplice tenda per passare la notte e penso che doveva essere così anche ai tempi di Abramo.

Inoltre, il deserto rende acuti i sensi. Del resto, un paesaggio di montagna, d’inverno, è paradossalmente molto simile al deserto, una natura spoglia e un deserto di neve.

– Nel libro i richiami al mondo naturale sono tanti e così la scelta delle parole, spesso legate al mondo vegetale. L’erba, il fico, la nuvola, l’olio, la radice, l’ulivo… Si può dire che l’occhio abituato a “vedere” come Francesco è stato capace di scoprire nuovi aspetti del mondo naturale?

Io sono nato in una famiglia contadina, il mio DNA è legato alla terra. Fin da piccolo sono stato a contatto quotidiano con campi, prati, boschi e animali. Il mondo contadino è uno dei più allenati ad osservare la natura. Non per niente moltissimi proverbi sono nati in ambito contadino e sono frutto di una lunga osservazione e anche del saper trasmettere una conoscenza e una sapienza di generazione in generazione.

Credo che questo retroterra culturale sia una facilitazione quando si tratta di cogliere certe immagini che la Parola di Dio utilizza per parlarci di Dio ma anche per parlarci di noi. Se uno non ha mai visto crescere una pianta, potrebbe pensare che i pomodori e le mele appaiano improvvisamente sugli scaffali del supermercato.

Se, invece, sa cosa vuol dire seminare o piantare, e poi coltivare col proprio sudore, attendere e, infine, raccogliere, può capire meglio il senso di qualche parabola, metafora e similitudine che si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Se uno non ha mai gustato l’acqua che sgorga da una sorgente, farà fatica a comprendere il simbolismo dell’acqua viva di cui parlano sia i profeti dell’Antico Testamento sia lo stesso Gesù nei Vangeli.

Verso il Natale

– Una delle ultime parole è “volto”: siamo in Avvento e, nel Natale, contempleremo il volto del bimbo di Betlemme. Lei parla di un “percorso” per riconoscere e accogliere Gesù in ogni volto. In che senso?

Nel senso che il volto è ciò che immediatamente ci rimanda all’altro che ci sta di fronte. Senza il riconoscimento del volto dell’altro, non riusciamo neanche a raggiungere la consapevolezza della nostra identità personale. Ciò che vediamo quando apriamo gli occhi è un volto, il volto di nostra madre e, in modo irriflesso e inconsapevole, percepiamo di essere voluti e accolti.

Un grande filosofo del ’900, Emmanuel Lévinas, ha sviluppato gran parte del suo pensiero filosofico proprio riflettendo sul volto come la manifestazione dell’altro e anche dell’Altro con la “A” maiuscola, cioè di Dio.

Riconoscere e accogliere Gesù in ogni volto significa prendere sul serio quello che ci viene narrato in quello straordinario affresco che è la parabola del cosiddetto giudizio finale nel capitolo 25° del vangelo secondo Matteo. Lì Gesù dice esplicitamente che lui si identifica in tutta una categoria di persone che sono i piccoli, i poveri e gli esclusi. In questo modo Gesù ci dice che si identifica in ogni persona e, in special modo, in quelle in cui noi facciamo più fatica a riconoscerlo.

Ecco allora il “percorso” che inizia con l’apertura degli occhi per poter riconoscere nel volto di ogni persona il volto di Gesù, poi dev’esserci l’apertura del cuore per poter in certo qual modo sentire ciò che sente l’altro, infine, dev’esserci l’apertura delle mani per poter abbracciare, cioè accogliere, l’altro nella sua situazione. Se riusciamo a percorrere questo itinerario, cambia il gusto stesso della vita.

È l’esperienza che ha fatto il giovane san Francesco di fronte ai lebbrosi, un’esperienza che gli ha cambiato il gusto della vita, gli ha fatto scoprire la presenza del Cristo nella sua vita e lo ha aiutato a scoprire qual era il senso della sua vita, ciò che lui era chiamato a fare.

Un altro itinerario possibile è quello suggerito da papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, al capitolo secondo, lì dove riflette sulla parabola del Buon Samaritano.

Con parole che ci spronano papa Francesco ci interpella: «Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente» (Fratelli tutti, 64). Tutto comincia con uno sguardo che sa riconoscere l’altro.

– I proventi del libro saranno utilizzati per le Opere francescane in Terra Santa: in questi mesi sono diminuiti e di molto i pellegrinaggi, come procedono invece le Opere?

I pellegrinaggi non sono diminuiti, si sono azzerati. Da fine febbraio non ci sono pellegrini in Terra Santa e, probabilmente, sarà così ancora per diversi mesi, forse fino a giugno e oltre. In questi mesi è perciò continuata ininterrottamente la più importante delle nostre opere, quella che ci è stata affidata ufficialmente da papa Clemente VI nel 1342, cioè l’opera di vivere nei santuari e di pregare per tutta l’umanità.

Essendo noi una fraternità internazionale, abbiamo sentito il grido di sofferenza di tutta l’umanità e abbiamo cercato di trasformarlo in preghiera nei luoghi santi che portano la memoria del mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e della nostra redenzione.

Poi sono continuate le opere sociali: le scuole, le case per le famiglie, la vicinanza alle popolazioni provate dalla guerra in Siria.

In questo ultimo periodo abbiamo cercato di intensificare anche gli aiuti ai poveri. A Betlemme, ad esempio, i nostri cristiani possono vivere del proprio lavoro quando ci sono pellegrini; in questi ultimi 10 mesi la maggior parte di loro sono rimasti senza lavoro, in un contesto in cui non esiste una forma di assistenza sociale pubblica e organizzata e, di conseguenza, la Caritas parrocchiale si trova a cercare di fare il possibile per aiutare la gente soprattutto per pagare i medicinali, i generi di prima necessità, le spese scolastiche per i figli.

Queste sono, di fatto, le opere che con grande sforzo e impegno cerchiamo di portare avanti in questo tempo. Ma la radice delle nostre opere sta nella nostra relazione con Dio e nel fatto che questa relazione la condividiamo in fraternità.

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