Il libro di tutti i libri

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Il 29 luglio è morto Roberto Calasso, presidente e direttore editoriale di Adelphi. Nel medesimo giorno sono usciti in libreria i suoi due ultimi lavori, entrambi connotati da una chiave autobiografica: Bobi e Memé Scianca. Per l’occasione riproponiamo alle lettrici e lettori di SettimanaNews la recensione del volume di Calasso Il libro di tutti i ilibri, scritta da p. Gian Paolo Carminati – biblista dehoniano.

L’uscita nell’ottobre 2019, per i tipi di Adelphi, dell’(allora) ultima fatica di Roberto Calasso (Il libro di tutti i libri, pp. 555. € 28,00, EAN 9788845934179) andava ad arricchire lo sterminato affresco che l’autore da anni compone, osservando e raccontando da angolature differenti quel mirabile caleidoscopio che è l’elaborazione culturale dell’intera umanità.

L’impresa, quasi titanica in riferimento all’oggetto, e comunque impressionante quanto alla realizzazione, ha visto la produzione di oltre dieci titoli, per un totale di quattromila pagine, elaborati in circa quarant’anni di lavoro.

Abbiamo «nell’ordine: La rovina di Kasch (1983), un’antropologia del Moderno, dove Talleyrand è il maestro di cerimonie; Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), che narra della Grecia antica e dei suoi miti; Ka (1996), che attraversa i miti indiani, dai Veda al Buddha; K. (2002), su Franz Kafka; Il rosa Tiepolo (2006), intorno a Giambattista Tiepolo; La Folie Baudelaire (2008), costellazione di storie della «Parigi capitale dell’Ottocento», che si diramano da un sogno di Baudelaire; L’ardore (2010), che indaga la metafisica implicita nei rituali vedici; Il Cacciatore Celeste (2016), storie intrecciate di dèi, di animali e di uomini, dal Paleolitico alla macchina di Turing; L’innominabile attuale (2017), sulla scena rovente e sfuggente che oggi ci circonda, e Il libro di tutti i libri (2019)».[1]

Un programma ambizioso…

Il lavoro di Calasso va certamente valutato per la vastità del progetto e il merito di attirare l’attenzione del più ampio pubblico dei lettori su settori della cultura mondiale assolutamente degni di nota, alcuni dei quali, per la loro peculiarità, finiscono spesso per essere ignorati o sottovalutati dai non specialisti. Così anche tradizioni illustri, ma forse ai più estranee, ricevono una qualche attenzione e riconoscimento, se non altro quello della comune appartenenza e dell’originale contribuzione al patrimonio comune.

È forse anche questo il motivo dell’interesse che l’opera ha destato anche fuori dei nostri confini, se è vero che «i libri di Roberto Calasso sono tradotti in 26 lingue e 27 Paesi».[2]

Da una pur breve incursione fra i titoli che la compongono, l’idea di Calasso, per quanto complessiva, non può che risultare parziale, e personalissima, non solo nella scelta dei campi di volta in volta messi a fuoco, quanto anche e soprattutto nella prospettiva da cui ciascuno di essi viene raccontato. È in un certo senso tutto il guadagno di una tale operazione, ove il gusto e l’erudizione dell’autore per così dire “acconciano” per il lettore momenti letterari selezionati tra molti altri che sarebbero a disposizione.

Credo siano invero pochi i lettori in grado di seguire con occhio accorto ed esercitato le mille inquadrature fornite da Calasso nell’insieme della sua impresa, e ancora di meno quelli che possono vantarsi di una reale competenza in tutti e singoli i campi rappresentati in questa sorta di ciclopica epitome della cultura umana. Ci accontentiamo anche noi, come forse la maggior parte dei lettori, di sondare quell’angolo più familiare e consueto, che ci consenta di apprezzare e criticare con maggior cognizione di causa le scelte di volta in volta adottate dall’autore.

Un fausto evento?

È degno di nota che in questo affresco compaia anche un’incursione nel testo biblico che, a giudicare dal numero delle pagine, non si vuole né affrettata, né banale.[3] È un segnale di attenzione da parte di quell’importante settore della cultura italiana che si è formato sui classici (e di riflesso anche da parte della nostra editoria), a quello che, a ragione, è stato identificato come «il grande codice» della cultura occidentale.[4]

Così, Il libro di tutti i libri riprende almeno nel titolo l’idea che si abbia a che fare con un testo affatto importante. In esergo al volume, infatti, Calasso pone la frase di Goethe con la quale il sommo poeta tedesco indica nella Bibbia il dono, il retaggio per tutte le generazioni, come «un secondo mondo in cui poterci cercare e perdere, illuminare e formare».[5]

L’espressione di Goethe ricalca il modo dell’ebraico biblico di creare i superlativi, com’è evidente nel titolo del Cantico dei cantici e fa, immagino, il verso al titolo proprio e tradizionale con cui il tardo ellenismo ha trasmesso questa raccolta di scritti giudaici e cristiani a tutte le lingue del mondo: tà bìblia, «I libri (per eccellenza)».

Di primo acchito, d’accordo con i più benevoli fra i suoi recensori, siamo portati a salutare con favore il lavoro di Calasso e auspicare che possa servire da stimolo a un rinnovato interesse alle Scritture ebraiche e cristiane, anche al di fuori dell’ambito strettamente religioso. Infatti, il suo lavoro richiama certamente la necessità di colmare lo iato prodottosi da poco più di un secolo nella cultura italiana, con l’uscita delle facoltà di teologia dall’ordinamento universitario nazionale, con impoverimento reciproco nella complessità di visione e in particolare, dalla parte cosiddetta “laica”, un’effettiva distanza e progressiva estraneità dai temi e dalle formule del sapere teologico.

Uno degli effetti di questo distanziamento è il fatto che la Scrittura, che il Novecento ha visto ricuperata anche in campo strettamente cattolico nel pre- e post-concilio, rimane per molti aspetti largamente ignorata dagli italiani, anche quelli di scolarità medio-alta e perfino di formazione accademica, nonostante le scelte concordatarie per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole – o forse (in qualche misura) proprio a motivo di esse.

Così, ad esempio, molti italiani possono ricorrere a formulazioni proverbiali o idiomatiche («Chi trova un amico trova un tesoro»: Sir 6,15; «Chi semina vento, raccoglie tempesta»: Os 8,7; «Seminare zizzania»: cf. Mt 13,24ss; ecc.) senza sapere che stanno citando un testo biblico. Di più, si è resa virtualmente incomprensibile a molti una fetta enorme della nostra storia culturale e artistica.

In questo senso, Il libro di tutti i libri è un’operazione da salutare con favore, più per gli auspicabili effetti collaterali che per le proprie virtù intrinseche. Infatti, come verremo a dire, a mio modo modesto di vedere, il lavoro di Calasso presenta caratteristiche e limiti tali da non farsi troppo raccomandare, sotto più di un profilo.

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Il tarlo dell’autocompiacimento…

Senza scomodare il buon Callimaco («Méga biblíon méga kakòn»), la mole generosa di un libro può essere necessitata sia dall’argomento, sia dallo stile. Non meraviglia che il confronto con I libri finisca per produrre una ricerca adeguatamente voluminosa. Il materiale delle storie bibliche è virtualmente sterminato ed è impossibile renderne conto sempre e ovunque nei dettagli.

Il piano compositivo, piuttosto, sembra alludere, come modello letterario, non alla Bibbia, ma al Divan goethiano, anch’esso in dodici libri, in una sorta di trasposizione mimetica, quasi in competizione con la sua aura misticheggiante, vagamente iniziatica, di cui rimane tuttavia solo la posa; Calasso, infatti, nel suo itinerario erudito, si smarca ben presto dal coinvolgimento ancora genuino, oserei dire “personale”, del grande poeta tedesco.

Inoltre, se, a un primo sguardo, l’ordine dei libri pare caotico, si può invece discernere una sorta di visione ciclica o un rimando tra la fattualità del regno israelitico (di Saul e poi di Davide) e il rimando ideale e nostalgico al Messia, che chiude il volume. Tuttavia, emerge da questo grand tour un’aspirazione a un “altrove” che non abita nel testo esplorato, come se il lungo pellegrinaggio finisse deluso nella sua ricerca, e sostanzialmente fallito. La miniera narrativa, di cui Calasso viene a mostrarci le gemme, dopo il suo scavo, è come dichiarata esaurita.

L’impressione del lettore, infatti, è che il criterio di selezione e di esposizione rifletta il genio dell’autore, la possibilità di mostrare la stranezza che egli ravvisa, o il collegamento erudito che a lui sovviene, o il suo smarcamento di gusto tutto moderno da qualcosa di ancestrale o di semplicemente primitivo, in quanto ripudiato e superato.

Alla fine del lungo percorso, che richiede molto tempo e rinnovata insistenza, pur da modesto per quanto appassionato frequentatore della Bibbia, sono colto dall’idea di aver letto un libro di Calasso su Calasso, più che sul testo sacro o sul suo mondo concettuale. Era il testo biblico, con la sua propria importanza, che reclamava l’attenzione di Roberto Calasso, come la nostra? O era Roberto Calasso che doveva cimentarsi con il libro di tutti i libri (una specie di Cima Coppi del suo personalissimo tour attraverso la letteratura mondiale)?

Con il dovuto rispetto ad ogni impresa legittima dell’ingegno (e qui specialmente dell’ingegno indiscusso di Calasso), imprese di cui è pur lecito dar conto nel modo a sé più connaturale, trovo che il lavoro di Calasso soffra di un’atmosfera pervasiva, al limite dell’intossicazione, di questo pulito, garbato, ma alla fine ossessivo autocompiacimento. Non tutti sono, immagino, disposti a condividere un percorso intellettuale dove la noblesse (che obbliga!) debba essere quella del banditore piuttosto che quella del messaggio…

Ma forse la cerchia per cui Calasso scrive è precisamente quella dei suoi collaudati estimatori o dei suoi pari, e questo dà conto dell’operazione editoriale che egli conduce (ricordiamolo…) in proprio! Se non si appartiene appassionatamente alla cerchia suddetta, l’impressione che rimane (come è rimasta al presente lettore) è quella di essere stato sostanzialmente fuorviato, e coinvolto suo malgrado in una corvée (coatta come può esserlo quella della lettura di un libro di cui ci si ostina ad arrivare in fondo) per la costruzione di un monumento almeno nell’intenzione aere perennius

Credo che a questo atteggiamento di fondo vada ascritto anche il complesso di limiti più metodologici e/o strettamente tecnici che un cultore licet indignus di scienze bibliche possa evidenziare nell’insieme del libro di Calasso. L’enorme erudizione e la coestesa sicurezza di sé hanno forse fatto prendere in qualche modo alla leggera l’effettiva complessità del testo sacro, ridotto, inevitabilmente a questo punto, a palestra pro tempore dei propri esercizi letterari

«Curiositas» o «studiositas»?

Il fare salottiero e la nonchalance come cifra intellettuale finiscono per svelare il vuoto che sostanzia il preteso tributo al Libro di tutti i libri, quello vero, che finisce sotto la penna di Calasso per essere, invece, solo uno dei tanti, ridotto a folklore, senza alcuna concessione alla pretesa di senso che da sempre gli tributa la Tradizione che lo veicola attraverso le generazioni.

Un “dongiovanni” kierkegaardiano ci conduce attraverso le raccolte affatto esotiche della sua personalissima Schatzkammer, ove esibisce con enfasi le curiose conquiste delle sue esplorazioni antiquarie o estetiche, attraverso frequentazioni avidissime di novità delle speculazioni rabbiniche, prima, e anche chassidiche o cabalistiche, poi.

Al termine del lungo tragitto, Calasso non riesce a convincere il lettore che ne sia valsa la pena, non tanto di aver frequentato il mondo della Scrittura, quanto piuttosto di averlo fatto con lui e di averlo fatto così. Nessun ktêma es aièi…

Non che ci si aspettasse delle pie considerazioni, si badi bene; ma non abbiamo colto nemmeno la gioia di aver trovato un tesoro… Invece, la presunta “terzietà” e l’ipotizzata “leggerezza”, che insieme fanno il “disimpegno”, finiscono con il determinare la decisiva insignificanza del risultato. È mancata la serietà del confronto, la disponibilità personale dell’ascolto, l’apertura alla tragedia del senso; e quindi anche il rigore del metodo.

Quest’ultimo si esprime abitualmente nel tentativo onesto di ascoltare il testo biblico per quello che vuol essere, con il suo multiforme ricorso alle possibilità espressive del linguaggio umano, che avrebbe richiesto un’attrezzatura più sofisticata e congrua di quella impiegata da Calasso, che ha finito per relegare il dettato biblico nella categoria delle cose bizzarre e ovviamente prive di coerenza, soprattutto teologica. Alla fine, il testo è ridotto a pretesto, per dire altro o altri da esso…

Il caso serio di Mosè

Un esempio per tutti.

Dopo il confronto nemmeno velato con Goethe (la frase in esergo; i dodici “libri” o capitoli dell’opera…), Calasso si misura, quasi vantando una parentela intellettuale, con un altro “grande” lettore dei Libri, anch’egli in cerca al loro interno di conferme più o meno fondate alle proprie teorie: Sigmund Freud. Sono note le tesi del Viennese sulla figura di Mosè e sull’origine egiziana del monoteismo, perfino sul complesso di Edipo che avrebbe portato Israele a diventare finalmente adulto attraverso un non figurato parricidio.

Lo stesso Freud riconosce la debolezza, il carattere estemporaneo – oseremmo dire – della sua proposta: «Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi, l’immagine di Freud che descrive L’uomo Mosè e la religione monoteistica «è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra».[6]

La tesi che Calasso sposa, incurante della sua infondatezza, è sostenuta dalla proposta del tutto isolata e ugualmente del tutto abbandonata di Ernst Sellin, avanzata nel 1922, il quale propone di leggere in un testo di Osea (5,2) l’affermazione che gli israeliti uccisero Mosè a Shittim. Calasso riconosce che la tesi di Sellin si aggrappa ad «appigli fragilissimi» (p. 320). Ciononostante, non ritiene importante né una verifica, né un approfondimento. Gli basta che a suggerirla per primo sia stato Goethe, nel Divan, e a sposarla poi sia stato Freud… Ovviamente, Calasso ritiene di dover partecipare a questo consesso!

Il testo di Osea 5,2

Il testo di Osea è difficile, una vera crux interpretum: «(5,1) […] Voi foste infatti un laccio a Mispa, una rete tesa sul Tabor (5,2) e una fossa profonda a Sittìm». La nota della Bibbia di Gerusalemme (ed. 2008) evidenzia il problema: «5,2 Sittìm: testo incerto. Su Sittìm, cf. Gs 2,1+. C’è forse [corsivo nostro. NdA] qui un’allusione all’episodio di Baal-Peor (9,10; cf. Nm 25)».

La cautela sarebbe d’obbligo, ma il gioco (perché di questo si tratta) di Calasso, impone di non preoccuparsi troppo…

Trattandosi di sole tre parole, ci permettiamo di offrire al lettore una breve discussione del testo e delle sue difficoltà. Nella lingua di Osea, il testo è il seguente: wešaḥăṭâ Sēṭîm he‘miqû.

Gli studiosi hanno oggi abbandonato l’ipotesi di correggere il testo masoretico.[7] Come riporta A.A. Macintosh nel suo recente commentario: le versioni antiche non sono d’aiuto, «sono tutte di tipo interpretativo e non possono costituire prova di un testo diverso dal testo masoretico».[8] Questo vale anche per la forma Śēṭîm («ribelli», «perversi»), che non si collega necessariamente a «Sittim/Shittim»; in 9,10 Osea parla dell’episodio di Baal Peor senza accennare ad alcuna «fossa»…

Sulla base delle osservazioni dei commentatori ebrei del medioevo, gli studiosi per lo più concordano sull’analisi dei termini; dopo la congiunzione we– («e»), šaḥăṭâ è un hapax, forma infinitiva allografa del verbo che vale «corromper(si)» (cf. Os 9,9); Sēṭîm è una forma participiale, maschile plurale, che vale «ribelli» o «infedeli» (cf. Sal 40,5; 101,3), soggetto o complemento predicativo del verbo finito che segue; he‘miqû è il perfetto di terza persona maschile plurale della forma causativa «rendere profondo» (‘ēmeq = «valle»); il tutto può essere reso letteralmente: «nel corromper(si), (loro in quanto) ribelli hanno scavato in profondità».

In particolare, il verbo “scavare in profondità” non si riferisce alla fossa di una sepoltura, ma a una “valle”, quale metafora di “ingente quantità” (cf. “una montagna” o “un mare” di guai…). Il valore fraseologico del verbo he‘miqû è confermato dall’uso della medesima forma in Osea 9,9 e in Isaia 31,6 proprio con questo significato di «eccesso riprovevole». In più, il testo di Osea 9,9: «Sono corrotti fino in fondo (he‘mîqû-šiḥētû) […]. Ma egli si ricorderà della loro iniquità […]», costituisce un parallelo quasi perfetto della frase in Osea 5,2: «Nel corromper(si), ribelli hanno scavato in profondità (wešaḥăṭâ Śēṭîm he‘miqû). Ma io correggerò tutti costoro».

L’analisi di Sellin non è pertanto giustificata, né può soccorrere l’interpretazione formulata da Goethe per pura invenzione narrativa, o da Freud per il pregiudizio della sua tesi psicoanalitica. Tanto meno può sostenere il divertissement di Calasso, al quale – se li avesse cercati – non sarebbero mancati strumenti adatti e più avveduti compagni per un percorso ermeneutico maggiormente rispettoso del testo e del suo messaggio.

Per concludere…

La severità del giudizio è commisurata alla grandiosità del progetto e alle notevoli risorse messe in campo dall’autore, che tuttavia limitano l’approccio al Libro di tutti i libri (quello vero) al solo livello letterario ed estetico… La falsariga del Divan ha condotto (per una qualche eterogenesi dei fini) a vedere nel testo sacro della tradizione ebraica e cristiana una silloge di racconti, risolventesi nel puro diletto della narrazione.

Certo, anche il lettore più provveduto porterà con sé, al termine della lettura, qualche suggestione, e perfino qualche incantamento. Formuliamo l’auspicio che l’esperienza dell’essere qua e là sopraffatti dalla vastità dei riferimenti e degli incroci intertestuali possa generare nei lettori il desiderio di riprendere per conto proprio e con il proprio passo esplorazioni più limitate, ma più accorte e anche, utinam!, più accorate.

L’estensione familiare e tuttavia nondum cognita della Scrittura rimane disponibile a chiunque ricerchi all’interno di essa il sentiero della vita… Come ricorda la sapienza ebraica: «La Parola di Adonai è immutabile; il commento degli uomini è libero».[9] La Sapienza conduca a distinguere quella da quest’ultimo, in ogni caso.


[1] G. Montefoschi, Corriere della sera del 15 ottobre 2019.
[2] Ibidem.
[3] L’articolo di Montefoschi che citiamo a mo’ di esempio è piuttosto una presentazione che una recensione; dà conto del contenuto sommariamente, senza avanzare alcuna critica. Appartengono al medesimo genere, più o meno encomiastico, quasi tutte le notizie apparse sulla stampa a ridosso della pubblicazione; data la mole del libro, viene da supporre che non molti estensori di questi pezzi di amichevole cortesia editoriale si siano di fatto confrontati con il tessuto invero impressionante e le questioni sollevate dal lavoro di Calasso.
Più articolate e,in generale, favorevoli le recensioni più sensibili all’aspetto letterario: cf. E. Zoppellari Perale, “Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso” del 26.11.2019; V. Fiandra, “EneNote/Il Libro di Tutti i Libri, Roberto Calasso” (Adelphi, 2019) #Recensione 23 febbraio 2020; I. Pepe, “Recensione: Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso” 28 dicembre 2019; G. Morra, “Un’acuta e profonda analisi di Roberto Calasso dell’ebraismo così com’è narrato dalla Bibbia”; Redazione, “Il libro di tutti i libri”; e, last but not least, G. Ravasi, “Il libro di tutti i libri”, l’unico che accenni, seppur en passant, ai limiti esegetici e teologici del lavoro di Calasso.
[4] Cf. N. Frye, Il grande codice. Bibbia e letteratura, Vita e pensiero, Milano 2018 (ed. or. 1982); A.-M. Pelletier, La Bibbia e l’Occidente. Letture bibliche alle sorgenti della cultura occidentale, EDB, Bologna 1999.
[5] J.W. Goethe, West-östlicher Divan. Noten und Abhandlungen: Hebräer: “Und so dürfte, Buch für Buch, das Buch aller Bücher dartun, daß es uns deshalb gegeben sei, damit wir uns daran, wie an einer zweiten Welt, versuchen, uns daran verirren, aufklären und ausbilden mögen”.
[6] «Tuttavia – continua il cardinale Ravasi – è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977» (“Mosè va dallo psicologo”, Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2016). Il lavoro di Pier Cesare Bori, è il seguente: È una storia vera? Le tesi storiche dell’Uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud, Castelvecchi, Roma 2015. Per una valutazione strettamente psicoanalitica, cf. Paul R.A., “Freud, Sellin and the death of Moses”, International Journal of Psychoanalysis 75/4 (1994), 825-37 [Abstract, qui].
[7] Il testo masoretico è il testo tradizionale della Bibbia ebraica, codificato nei manoscritti medievali e utilizzato come base delle prime edizioni a stampa. L’edizione di riferimento è la Biblia Hebraica Stuttgartensia (Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1967-1977). Cf. ad locum.
[8] A.A. Macintosh, A Critical and Exegetical Commentary on Hosea, Bloomsbury/T&T Clark 1997, 178-182: «All these translations are interpretative and cannot be regarded as evidence for a text different from MT» (p. 182). Ancor più recentemente, M.A. Gruber, Hosea: A Textual Commentary, T&T Clark 2017, 245-246: «In both passages – 5:2 and 9:9a-b – the verb he`mîqû‘ they went deep’ is employed as an adverbial modifier of another verbal form, the infinitive šahátâ in Hos 5:2a, the perfect plural verb šihetû in Hos. 9:9a-b. The verb he`mîqû ‘they went deep’ is similarly employed in Isa. 31:6 where we read as follows: “Return, Israel, to him whom the people of Israel have been exceedingly unfaithful”» (245) [corsivo nostro; per facilitare al lettore il confronto testuale, abbiamo uniformato la traslitterazione del testo ebraico a quella utilizzata sopra. NdA].
[9] Citato da V. Messori, Pensare la Storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana (Paoline, Cinisello Balsamo 1992), 87.

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Un commento

  1. Gian Luca 12 febbraio 2021

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