Matteo: Il discorso del monte

di:

matteo

L’attuale vicario generale della diocesi di Carpi, Ermenegildo Manicardi, è stato a lungo docente di Esegesi allo STAB di Bologna e alla Gregoriana a Roma, città dove ha ricoperto anche l’incarico di Rettore dell’Almo Collegio Capranica.

Mettendo a frutto gli esiti dei suoi studi, egli presenta in sintesi il messaggio del Discorso della montagna (Mt 5–7), con dettato semplice e dal taglio non esegetico ma teologico-pastorale.

Dopo un’Introduzione narrativa (5,1-2) in cui si presentano lo scenario del monte e gli ascoltatori, segue un Avvio (5,3-16) in cui vengono descritti i beati del Regno dei cieli e i discepoli nel mondo.

Il corpo centrale del Discorso comprende quattro sezioni: I Sezione (5,17-48): Il compimento di Legge e Profeti e la giustizia eccedente; II Sezione (6,1-18): Fare la giustizia davanti al Padre celeste; III Sezione (6,19-34): Anzitutto il Regno e la giustizia di Dio; IV Sezione (7,1-12): Le relazioni con Dio e il prossimo: l’unico vero compimento.

La Chiusa (7,13-27) ricorda come solo la giustizia eccedente darà accesso al Regno dei cieli definitivo.

La Transizione narrativa (7,28-29) descrive come la novità dell’insegnamento e dell’autorità di Gesù sia recepita dagli ascoltatori.

Dopo aver annunciato che il Regno dei cieli si è fatto vicino in Gesù di Nazaret (cf. 4,17), il primo nucleo tematico ricorda come lo scopo della proclamazione in Galilea fosse quello di annunciare il pieno compimento della Legge o dei Profeti, le due dimensioni compresenti nelle Scritture di Israele (5,17).

Nel Discorso, Gesù presenta con concretezza anche le esigenze che scaturiscono dal dono divino del Regno, che sono affidate a chi voglia davvero convertirsi. Rispondendo con fede e accogliendo l’essersi fatto vicino del Regno nel vangelo nei propri atteggiamenti e nel proprio stile di vita, il discepolo di Gesù lo rende concreto nel mondo, almeno a livello iniziale.

Sul monte Gesù si presenta non tanto come mosissimus Moses o come elissimus elias (cf. la scena della trasfigurazione sul monte, dove si invita ad ascoltare Gesù Figlio di Dio), ma con la stessa autorità divina. Il Discorso del monte si presenta come sintesi iniziale di Gesù sul Regno dei cieli. Nelle beatitudini si rivela la dinamica del Regno che si è fatto vicino perché ci sono i poveri in spirito, i perseguitati per la giustizia ecc. Il Regno è già presente in quanto donato da Dio, ma avrà pieno compimento solo nel futuro.

Beati

Nell’introduzione narrativa (5,1-2) Gesù si presenta come insegnante a livello di Dio, avendo come destinatari i discepoli in primo piano ma anche tutte le folle. Questi saranno anche i destinatari del discorso parabolico (Mt 13), mentre gli altri tre discorsi (Mt 10; 18; 24,1–25,46) saranno rivolti esclusivamente ai discepoli.

L’avvio del discorso (5,3-16) è attuato in due parti. Le prime otto beatitudini (5,3-10) sono espresse alla terza persona e presentano variegati segni dell’attuale vicinanza del Regno e della conseguente situazione futura. A differenza della benedizione – parola creatrice – la beatitudine è una formula di felicitazione che constata una felicità realizzata, o almeno in via di realizzazione. Le beatitudini presentano la gioia annunciata motivandola con la situazione presente (la prima e l’ottava) o in collegamento con una realtà che accadrà solo nel futuro.

Nella seconda parte (5,11-16) seguono una beatitudine alla seconda persona, rivolta solo ai discepoli, e altre parole che descrivono la realtà dei discepoli come sale della terra, luce del mondo, città situata sul monte e lucerna posta sul lucerniere. Si descrive quindi la dinamica profonda dell’annuncio del Padre portato avanti dai discepoli di Gesù.

Si ricordano l’atteggiamento spirituale dei servi del Signore che hanno portato questa situazione nell’interno del loro spirito e nel loro cuore. Modelli sono Giovanni Battista, i discepoli e le “pecore” del giudizio finale, commosse per i poveri.

Coloro che si sentono in lutto sono quelli che percepiscono l’incompiutezza dolorosa del presente e ne soffrono.

I miti hanno come modello Gesù stesso e la loro mitezza nasce dal controllo delle proprie emozioni, tendenze, desideri e si manifesta nel rispetto benevolo del prossimo.

Sono dichiarati beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, cioè del compimento da parte degli uomini della volontà di Dio espressa nelle Scritture e soprattutto in Gesù.

Beati sono i misericordiosi che perdonano in modo gratuito, così come i puri di cuore che obbediscono alla volontà di Dio, orientando a lui sia l’atteggiamento esterno che l’intimo del cuore.

Sono beati gli operatori di pace, cioè quelli capaci di amare la realtà delle cose nella piena totalità, come fa il Padre celeste che dona a tutti il sole e la pioggia.

Così pure lo sono i perseguitati per la giustizia, cioè per il compimento della volontà di Dio.

I beati sono i tipi di persone a cui è dato in dono inizialmente il Regno dei cieli, discepoli e folle indistintamente.

La nona beatitudine, espressa in seconda persona, è riservata ai discepoli che sono profeti del Regno: appartengono ad esso nel loro vissuto e sono consapevoli del vangelo di Dio. Conoscono il disegno di Dio manifestato in Gesù e ne diventano gli annunciatori e i rivelatori. Per il loro impegno potranno essere anche perseguitati.

Le parole aggiunte descrivono l’identità dei discepoli, che danno sapore e luce alla realtà, impedendo che diventi putrefatta e illuminando il mondo con la parola di Gesù. Il Regno dei cieli è già presente incoativamente nel mondo come dono potente di Dio, ma ai discepoli ne è affidata la testimonianza e la messa in evidenza attraverso la loro azione efficace di discepoli/profeti. Con le loro opere renderanno visibile sulla terra la presenza del Padre che è nei cieli.

Pieno compimento e giustizia eccedente

La Prima sezione del Discorso (5,17-48) è incentrata sul pieno compimento della Legge o dei Profeti (così nel greco di 5,17) nella giustizia eccedente.

Gesù mette in guardia gli ascoltatori dal fraintendere il suo insegnamento. Egli non è venuto ad abolire la Legge o i Profeti, cioè le due dinamiche compresenti nelle Scritture di Israele – quella normativa ed etica e quella profetica e rivelatrice – ma a dare pieno compimento ad esse.

Egli illustra questa dinamica con sei esempi, chiamati per lo più antitesi (così anche da Manicardi), che si presentano anche come bilanciamenti (così talvolta l’autore). La Legge o i Profeti rimangono validi e vanno insegnati, ma tenendo presente il compimento pieno portato da Gesù, che richiede una giustizia eccedente rispetto a quella degli scribi e dei farisei. Essa non è un’esecuzione più rigorosa dei vari dettami, ma il compimento pieno della rivelazione di Dio data in modo iniziale attraverso Mosè.

Gesù rivela l’intento originale di Dio, la sua volontà più profonda, l’effetto desiderato dalla Legge nel suo dispiegarsi iniziale. Il verbo plerōsai impiegato nel vangelo per indicare lo scopo perseguito da Gesù, può indicare “completare” (esplicitare o aggiungere), “confermare” (dichiarare ancora vincolante) o “realizzare” (cioè attuare facendo). Gesù intende indicare un compimento debordante, un compimento eccedente.

Con la sua venuta Gesù innesca uno scatto decisivo verso il Regno, realizzando la Legge o i Profeti in tutta la loro pienezza, esplicitando la più profonda portata di entrambe le dimensioni.

Gesù propone certamente una dimensione normativa della Legge, ma innervandola e irrobustendola con la prospettiva spirituale, interiore e radicale assicurata dai profeti. Legge o profeti però non bastano. Entrano in gioco il Regno dei cieli, il volto del Padre e la singolarità di Gesù.

Nella trasfigurazione Gesù appare in compagnia e in dialogo con il legislatore Mosè e il profeta Elia, ma egli è il figlio amato del Padre, che è necessario ascoltare (17,5). Le realtà che la Legge esige e i Profeti preannunziano rimarranno sino agli avvenimenti escatologici, ma sempre interpretate e portate a compimento da Gesù, che le avvia verso la pienezza e la loro “naturale” realizzazione.

Il compimento può però essere realizzato solo a condizione che si arrivi all’eccesso dell’eccedenza. Sono necessari una giustizia maggiore di quella di scribi e farisei, un rapporto pieno con Gesù e un ingresso effettivo nel Regno dei cieli proclamato.

“Antitesi”

Anche se a livello letterario si presentano come antitesi – ma c’è chi traduce “eppure” invece di “ma” –, il contenuto non sempre oppone il nuovo all’antico. Manicardi impiega sempre il termine “antitesi”.

La prima antitesi mette in relazione omicidio e ira, con aggiunte che riguardano i sacrifici rituali e la raccomandazione di una riconciliazione opposta all’aggressività che porta all’omicidio, al contrasto e all’insulto. L’omicidio non viene svalutato, ma la lingua può uccidere più della spada. Gesù propone uno stile che supera le tensioni, vincendo la contrapposizione tra gli uomini con la cura della sua radice.

L’adulterio come delitto che offende i diritti del marito viene riportato a livello del cuore. Il desiderio lussurioso danneggia chi lo coltiva ma anche le persone implicate dal suo atto (donna compresa). Lo scandalo va evitato e solo con il coinvolgimento di tutta la persona si può evitare l’adulterio.

Il libello del ripudio previsto/permesso da Mosè intendeva proteggere la donna. Gesù porta a compimento il vero senso della norma mosaica. Gesù proibisce il ripudio, in quanto il primo matrimonio per lui è valido e il libello non può avere il potere di scioglierlo.

Manicardi esamina tutte le parole di Gesù sul matrimonio presenti nei Vangeli e presenta le varie interpretazioni della clausola della porneia, optando per la soluzione proposta da A. Tosato: «Il divieto del divorzio – ovviamente – non si estende, non va applicato, laddove un matrimonio, per ragioni antecedenti o conseguenti alla sua stipulazione, vada giudicato illegittimo e quindi anche illegittimi (zenût/porneia) i rapporti tra questi coniugi» (it. a p. 80). Gesù completa ciò che c’era di incipiente nella norma del libello del ripudio, che intendeva almeno ridimensionare questa prassi. La giustizia degli scribi e dei farisei è sostituita dalla giustizia eccedente che rifiuta il ripudio considerandolo, in ogni caso, una fonte di adulterio vero e proprio.

Gesù proibisce i giuramenti perché i riferimenti usati (cielo, terra, Gerusalemme) sono in stretto rapporto con Dio e l’uomo non dispone neppure della propria testa perché egli appartiene a Dio creatore.

La comunicazione deve essere trasparente, chiara e sincera, evitando la trappola di distinguere livelli diversi di verità. Non si deve coinvolgere il nome di Dio in questioni “troppo” umane, per irrobustire un parlare che altrimenti potrebbe essere incerto, ambiguo e falso.

La legge del taglione intendeva limitare l’espansione esponenziale della violenza, esigendo solo un risarcimento proporzionato. Gesù vi contrappone l’eccedenza di non intraprendere azioni di forza per resistere ai danneggiatori, spostandosi invece al livello del perdono gratuito per i torti e i danni subiti.

Gesù presenta cinque esempi che non suppongono solo una resistenza passiva, ma un atteggiamento di amore come base della relazione.

Porta tre esempi di non reazione alla violenza (manrovescio, lite in tribunale per una tunica, un caso di angheria) e i casi dell’elemosina e del prestito, come situazioni in cui si rinuncia preventivamente a un risarcimento.

La proposta alternativa che Gesù avanza rispetto alle regole ragionate e ragionevoli è in grado di portare alla sana eccedenza del compimento di ciò che la Legge propone in maniera soltanto incoativa. Si apre uno spazio illimitato.

Le indicazioni di Gesù valgono certo a livello interpersonale, ma per Manicardi non va lasciato “svaporare” il rilevo che esse devono avere anche nella riflessione sulla società e sui rapporti istituzionali.

La sesta antitesi propone l’amore e la preghiera per i nemici, non limitandosi all’amore per il prossimo. Gesù propone di imitare lo stile profondo di Dio Padre che dona il sole e la pioggia universalmente a tutti gli uomini, buoni e cattivi, in modo indistinto, immeritato e gratuito.

I discepoli trasfondono nel proprio stile di vita l’immagine di Dio come Padre. Manicardi traduce l’espressione greca al futuro con sfumatura finale: «perché diventiate sempre di più figli del Padre che è nei cieli». In 5,45 si parla dapprima di “diventare” e in 5,48 di “essere” (futuro con senso di imperativo).

Ai discepoli di Gesù è richiesto come indispensabile un “di più” nell’amore, una sovrabbondanza, un’eccedenza rispetto al mondo degli scribi e dei pagani. Il discepolo è chiamato alla perfezione dell’amore del Padre. L’amore e la preghiera per i nemici sono la perfezione che imita quella del Padre dei cieli, ed è il pieno compimento della Legge nella linea della giustizia eccedente quella degli scribi e dei farisei.

Al comandamento dell’amore per il prossimo Gesù aggiunge come novità quello per il nemico, per lo straniero (cf. la parabola del buon samaritano e il comandamento nuovo giovanneo).

Nelle sei antitesi Gesù non intende creare un quadro morale completo e sistematico, ma prendere sul serio la verità delle situazioni che richiedono forti scelte spirituali e morali. Gesù offre casi di natura esemplare e paradigmatica di tante situazioni non previste né prevedibili. Ciò che conta è la sostanza degli atteggiamenti nella loro verità più profonda e non i rivestimenti della forma o dell’apparenza.

La concretezza della vita trova la sua dimensione più reale nell’essere immersa nel Regno dei cieli. Dio rivela il Regno in Gesù. Tale rivelazione contiene sempre un indirizzo per la vita umana, che si deve riflettere nelle scelte concrete se davvero si vuole vivere il rivelarsi salvifico di Dio. «La vita morale dell’uomo può raggiungere il suo livello più alto solo quando rispecchia l’immagine di Dio annunciata nel Discorso del monte – scrive Manicardi –. La perfezione umana è raggiunta solo tanto quanto essa riflette il volto del Padre celeste di Gesù e di tutti […] ormai il riferimento aureo non sono più scribi e farisei, cioè un’interpretazione estremamente seria della Legge, ma Dio stesso nell’universalità del suo amore paterno» (pp. 104-105).

Fare la giustizia davanti al Padre

La Seconda sezione del Discorso del monte (6,1-18) verte sul tema del compimento della giustizia davanti al Padre. Secondo Manicardi, questi versetti vogliono «difendere la verticalità teologica della vita, escludendo un’autoreferenzialità umana pericolosa e rivendicando il diritto di Dio a lasciare intravedere la sua azione nella vita dei discepoli del Discorso del monte» (p. 107).

La giustizia dell’uomo è illustrata attraverso l’esempio di tre opere speciali, vere colonne della spiritualità ebraica: l’elemosina (6,2-4), la preghiera (6,5-15) e il digiuno (6,16-218). Il segmento centrale è arricchito dalla proposta del Padre nostro, incorniciata da altre istruzioni, importanti e radicali, sullo stile da tenere nel rivolgersi a Dio.

La messa in guardia introduttiva ricorda che, se un uomo agisce per sé e non per Dio, per quanto grandi siano le azioni da lui compiute, la paternità divina rimane per lui illeggibile. I talenti, posseduti come qualità personali, non devono oscurare la paternità di Dio avendo un ruolo attivo nella mediazione delle opere buone.

L’uomo non deve mostrare una propria grandezza degna di ammirazione, ma piuttosto lasciare emergere la totale “trascendenza” delle opere, compiute per Dio sulla parola di Gesù. Il discepolo di Gesù deve lasciare «trasparire bene la verticalità teologica del suo stile di vita, escludendo una miope e malinconica autocentratura che finirebbe per ridurre la visibilità del dono di Dio presente nella vita di chi si orienta a vivere il Discorso del monte» (p. 109).

Gesù illustra lo stile evangelico nell’elemosina, nella preghiera e nel digiuno, per evitare ostentazione, esibizionismo e autoreferenzialità malinconica. Il Padre vede nel segreto e occorre evitare l’ipocrisia.

Oltre al Padre nostro, analizzato a lungo da Manicardi, ci sono alcuni importanti allargamenti discorsivi. Si possono riassumere così: poche parole e molto perdono.

La preghiera del Padre nostro rivela il volto di Dio, richiede la ricerca della sua volontà e degli interessi a lui cari per il bene dell’uomo, senza dimenticare i bisogni terreni per la vita quotidiana. Essi comprendono il pane da mangiare, ma anche il perdono da ottenere per trasmetterlo agli altri e la liberazione dal Maligno.

Nel Padre nostro sono presentiti tre capisaldi dell’insegnamento di Gesù: il nome, il Regno e la volontà di Dio. Solo Matteo ricorda espressamente la richiesta al Padre che sia fatta la sua volontà, la giustizia del Regno.

In questa preghiera Gesù rivela il volto di colui che nell’insieme dei Vangeli chiama sia “Padre mio” che “Padre vostro”. È il Padre che è nei cieli, il Padre celeste. In Matteo ci sono almeno undici riferimenti a Dio come Padre. Questo è funzionale anche all’annuncio che i discepoli ne sono figli. Matteo li ricorda in due sue espressioni tipiche ed esclusive nel Discorso del monte: Mt 5,9 e 5,44s.

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Primato del Regno e della giustizia di Dio

Nella terza sezione del Discorso del monte (6,19-34) il tema dominante è quello del primato del Regno e della giustizia di Dio. Esso si salda al tema precedente della disponibilità dei discepoli a manifestare la gloria di Dio (6,1-18). «Una volta presentata la prospettiva della giustizia eccedente (5,17-48) – scrive Manicardi -, la grande preoccupazione del Discorso diventa quella di smascherare l’insidia del degrado spirituale che può venire tanto dall’autocentratura (6,1-18) quanto dalla cupidigia delle ricchezze e del perdersi negli inevitabili affanni della vita (6,19-34). Sono questi i pericoli fatali che possono chiudere alla trascendenza e alla reale accoglienza della paternità di Dio”»(p. 127).

Tesori, padroni, preoccupazioni

L’uomo deve scegliere bene che cosa deve accumulare (vv. 19-24). Ci sono tesori sulla terra e tesori in cielo. Il ruolo dei tesori è importante, perché dove è il tesoro lì sta anche il cuore dell’uomo. Occorre quindi cercare tesori non terreni, ma lasciare attrarre il cuore, centro della persona, dai tesori celesti. Ricercare accumulo di ricchezze terrene porterà l’uomo a possedere un suo tesoro, che finirà per trascinare il suo cuore. Dove è adesso è il tuo tesoro, dice Gesù, là sarà anche il tuo cuore nel futuro. L’occhio non deve essere tramite di un atteggiamento deleterio di cupidigia e di rovina in senso più generale. Nessuno in generale – afferma Gesù nel Vangelo di Matteo – può quindi avere due padroni allo stesso tempo, Dio e la ricchezza.

Sulla stessa linea di pensiero si pongono anche le sentenze dei vv. 25-34, riguardanti la necessità di guardarsi dalle preoccupazioni. Il nocciolo decisivo sta nella priorità del Regno dei cieli e della giustizia di Dio, cioè della sua volontà (v. 33).

Non bisogna preoccuparsi in modo eccessivo e ossessivo della vita, del cibo e del vestito, ma avere fede nel Padre celeste provvidente e perseguire il primato del Regno e della giustizia di Dio. Le altre cose saranno aggiunte da Dio provvidente e amoroso verso i suoi figli. In tal modo ci si concentra sulla ricerca del Regno per manifestare la gloria di Dio.

Il Regno è donato, ma l’uomo lo ricerca davvero soltanto nella misura in cui si impegna verso la giustizia eccedente che prevede il pieno compimento della Legge e dei Profeti.

Non conviene preoccuparsi ossessivamente per il domani, perché il cuore del discepolo è abbandonato al giorno presente. L’esistenza feriale dei discepoli trova il dono trascendente del Regno dei cieli in una catena lunghissima, e talvolta noiosa, di “giorni qualunque”: giorni feriali e fine del mondo coesistono insieme nel cuore dei discepoli.

Il Padre celeste è creatore e datore del Regno; la sua paternità si manifesta nella creazione e nella provvidenza. I discepoli sono profeti del Regno e ad esso rivolgono il loro impegno completo e concreto. La ricerca della giustizia divina è per loro l’obiettivo principale e centrale. Il resto, pur importante, rimane periferico e vigilato dalla presenza provvidente di Dio Padre.

Le relazioni e il pieno compimento

La quinta sezione del Discorso del monte (7,1-12) si concentra, infine, sull’intreccio delle relazioni e sul pieno compimento.

Due coppie di esortazioni sono dilatate da altri insegnamenti ad esse correlati.

La prima coppia di detti (7,1-5.6) si incentra insieme sul divieto di giudicare le persone e sull’invito a impegnarsi invece sulla maturazione di discernimenti efficaci. Si accenna al futuro scambio nel giudizio e nella misura, con l’esempio della pagliuzza e della trave. Occorre agire con discernimento per non sciupare cose preziose (detto misterioso su perle, porci e cani). “Ciò che è santo” allude alle realtà che hanno un valore assoluto, i valori oggettivi; “le perle” rimandano invece a quanto si è raggiunto con un impegno che ha coinvolto tutta la persona, le conquiste personali.

La seconda coppia di sentenze (7,7-12) comprende un’esortazione a pregare con fiducia e insistenza, con un confronto tra la paternità divina e quella umana. Occorre coltivare un rapporto costante col Padre amoroso e provvidente, ben più amante dei padri umani.

La regola d’oro

La regola d’oro di 7,12 ha valore ricapitolativo. Si tratta di un’esortazione, espressa in forma positiva, a mettere al centro gli altri e non se stessi. La regola d’oro rimanda a 5,17 circa il compimento della Legge e dei Profeti. Matteo è radicale nelle sue espressione: “tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Si tratta di compiere cose che il prossimo desidera e non semplicemente di non compiere azioni che l’altro non gradirebbe. Il movimento parte dal desiderio nutrito dagli altri.

La preghiera di richiesta a Dio e il fare agli altri ciò che desideriamo per noi stessi sono collegati. La pienezza di relazioni, ricercata da chi si rivolge al Padre, deve essere la bussola anche del rapporto con gli altri.

Nessun titanismo umano nell’amore verso Dio (cf. Mt 22,37). Si tratta del desiderio dell’individuo «che si rivolge Dio chiedendo di poter entrare nel discendente amore con cui il Padre che è nei cieli guarda verso la terra e i suoi abitanti. Il Discorso non suggerisce soltanto una dinamica etica dell’amore – annota sempre Manicardi –, ma si sposta decisamente su un piano che potremmo definire addirittura mistico» (p. 148).

Il discepolo di Gesù è al centro di due correnti: una è quella “verticale” dell’amore di Dio di cui è circondato, per cui egli deve chiedere e bussare con fiducia per entrare davvero nel cielo; l’altra è quella più “orizzontale”, quella che egli può produrre nel rapporto con gli altri. Più che esigere quanto desidererebbe fosse fatto a lui, l’uomo si apre a realizzare per gli altri tutto ciò che egli gradirebbe gli altri facessero per lui (7,12).

«La regola d’oro in connessione con la ricerca di Dio – ricorda Manicardi –, viene presentata come la pienezza del compimento della Legge e dei Profeti, fondato sull’essersi fatto vicino del Regno dei cieli nella venuta di Gesù e nelle scelte concrete dei discepoli» (p. 148).

Il pieno compimento esige quindi rapporti radicali sia con Dio che con il prossimo. La corrente verticale dell’amore discendente di Dio va avviata e agganciata alla vita dal nostro chiedere, cercare e bussare. Non si tratta solo di amare Dio, ma di muovere il suo amore presentando a lui le nostre necessità con illimitata fiducia (cf. 7,7-11).

La seconda corrente si realizza sul piano orizzontale, quando l’ascoltatore del Discorso del monte non punta più a ottenere dagli altri ciò di cui sente necessità, ma sceglie di essere lui stesso, in prima persona, alla ricerca dei desideri degli altri, che sono quegli stessi che anch’egli sente e prova (7,12).

La regola d’oro di 7,12 forma un’inclusione con 5,17, menzionando entrambe la Legge e i Profeti e indicando nell’amore il pieno compimento portato da Gesù e richiesto ai suoi discepoli.

La giustizia eccedente dà accesso al Regno

La Chiusa del Discorso del monte (7,13-27) rimarca il fatto che solo una giustizia eccedente, cioè un compimento debordante della volontà di Dio, dà accesso al Regno. Una prima parte (vv. 13-23) insiste sul tema dell’“entrare”, mentre la seconda parte (vv. 24-27) introduce l’avvertimento accorato a costruire con saggezza sulla roccia, ascoltando e mettendo in pratica la parola di Gesù.

I vv. 13-23 riportano un appello introduttivo circa la porta stretta e la via angusta da trovare. Di fatto è importante trovare la vita. Se all’inizio il Regno era presentato come un dono universale, ora si insiste sul fatto che il discepolo deve trovare la vita entrando con decisione per la porta stretta e nella via angusta. Non è infatti semplice individuare il livello vero della giustizia superiore e del compimento della Legge e dei Profeti, facendolo diventare realtà concreta nella vita quotidiana.

Occorre anche guardarsi dai falsi profeti, avendo come criterio di discernimento la bontà o meno dei loro frutti. Anche i carismi possono essere vissuti con una vita di pura facciata, con devozione affettata e azioni carismatiche, vuota però dell’essenziale obbedienza alla volontà del Padre. Dalla giustizia superiore si può scivolare infatti nell’anomia, l’iniquità che è l’esatto contrario della giustizia eccedente della Legge e dei Profeti, esemplificata all’inizio del discorso nelle beatitudini.

Il dono del Regno deve trovare un rapporto con l’azione del discepolo, con la saggezza richiesta per costruire la propria casa sul fondamento saldo della roccia dell’ascolto e della messa in pratica della parola di Gesù, pena la rovina eterna e completa della propria vita.

Il Regno è presente e la testimonianza dei discepoli funziona solo quando c’è un’obbedienza alla volontà del Padre e una messa in pratica delle parole di Gesù. Altrimenti si costruisce la propria vita/casa sull’inconsistenza instabile della sabbia.

Dono supremo e gratuito del Padre, il Regno richiede la collaborazione dell’uomo nella necessità di dare concretezza storica alla grazia. L’uomo deve inscrivere, «dentro la grazia donata dal Padre celeste, la serietà del suo impegno di vita e la matura disponibilità al dono di sé. D. Bonhoeffer ha chiamato felicemente tutto questo: “la grazia a caro prezzo”» (p. 160).

Nella Chiusa o Transizione narrativa (7,28-29) si menziona lo stupore delle folle (e dei lettori) per la novità del contenuto dell’insegnamento di Gesù e per la sua autorità, molto diversi da quelli degli scribi e dei farisei. I discepoli che ascoltano sono i nuovi profeti e scribi del Regno dei cieli.

Il Discorso del monte e le orditure narrative del Vangelo di Matteo

Nel capitolo decimo del suo libro (pp. 167-204) Manicardi espone il rapporto tra il Discorso del monte e le orditure narrative di Matteo. Esamina perciò il rapporto del primo discorso con gli altri quattro del “Pentateuco” matteano e analizza le citazioni di compimento.

I cinque discorsi

L’autore delinea dapprima i rapporti che legano il Discorso del monte con gli altri quattro grandi discorsi riportati da Matteo.

Il discorso missionario (Mt 10) sottolinea la povertà dei missionari e il loro distacco, la prospettiva della persecuzione, il divieto di angustiarsi e l’assenza di paura.

Nel discorso parabolico (Mt 13) ritorna l’appello ad ascoltare, un ascolto situato fra la zizzania, attendendo il giudizio. La parabola del tesoro nascosto riprende Mt 6,19.21.

Il discorso sulla comunità ecclesiale (Mt 18) recupera il tema del superare lo scandalo, la necessità del perdono e il sostegno alla riconciliazione.

Il discorso escatologico finale (24,1–25,46) espone le figure ingannevoli e pericolose da cui guardarsi, lo svelamento di un servizio nascostamente inadeguato (24,45-51), la sorte diversa delle vergini prudenti e di quelle stolte che ricorda la risposta data ai carismatici, la menzione dei diversi talenti, delle diverse capacità e della troppa prudenza presenti nei discepoli di Gesù.

Il giudizio finale presenta un’inclusione fra i “beati” di 5,3-12 e i “benedetti del Padre mio” di 25,34. Il Regno è una grazia che richiede impegno, connotato dalla gioia e dall’amore incondizionato.

L’altra orditura narrativa esaminata è quella costituita dalle dieci citazioni di compimento, che presentano Gesù come compimento della storia di Israele e delle profezie. Gesù è il compimento nel suo essere il “Dio con noi” preannunciato da Isaia, nel compimento geografico e topografico delle parole profetiche, nell’assunzione dei pesi e dei peccati degli uomini, nello scontro con l’ottusità del popolo rispetto alle sue parole, nella messianicità mite che porta però alla vittoria della giustizia, nel compimento complessivo delle Scritture al momento della cattura, fino alla realizzazione della parola profetica nella crocifissione del Messia, il cui sangue risulta chiaramente innocente, un campo del sangue che accoglie anche la sepoltura degli stranieri.

Le citazioni di compimento

Le citazioni di compimento hanno un filo progressivo. Sono dieci ma Manicardi le raggruppa in tre gruppi di quattro citazioni (cf. pp. 195-196): in quattro di esse il riferimento alla Scrittura mira ad alcuni punti cruciali del percorso di Gesù; altre quattro riguardano le scelte di Giuseppe e la decisione di Gesù di stabilirsi a Cafarnao nella Galilea delle genti; altre quattro interpretano punti decisivi dello stile di Gesù: il prendersi cura delle infermità dei poveri, la mansuetudine e non violenza che porta alla vittoria finale della giustizia sovrabbondante, oltre agli aspetti ricordati in due passi del discorso parabolico (cf. 13,14s e 13,34s).

Matteo presenta quindi le radici profonde delle parole e dell’opera di Gesù nelle Scritture di Israele ma anche la debordante eccedenza richiesta nel suo insegnamento. Gesù ha vissuto in pienezza ciò che è riportato in anticipo nel Discorso del monte. Il compimento può ora scorrere da monte a valle verso i discepoli e verso chiunque voglia ascoltare.

Il volto di Gesù e l’antropocentrismo teocentrico nel Vangelo di Matteo

L’autore ricorda, infine, i tratti della figura di Gesù presenti nel Vangelo di Matteo. Emergono la sua mitezza, la durezza della sua passione, la consapevolezza del futuro, l’assenza di preoccupazione circa la croce, il suo rapporto delicato con Giuda il traditore, la sua opposizione alla reazione violenta attuata in suo favore nel momento dell’arresto, la mitezza e la rinuncia a ogni forza di opposizione (egli potrebbe invocare la presenza di dodici legioni di angeli…).

Il capitolo undicesimo (pp. 205-216) riassume in un quadro complessivo l’articolazione del Discorso del monte riguardante il Regno dei cieli e il pieno compimento, bilanciato tra trascendenza del regno di Dio e la filigrana umanistica della risposta realizzante.

Nel Riepilogo e congedo (pp. 217-221) l’autore menziona ancora i vari protagonisti del Discorso, la missione di Gesù, il contributo dell’uomo, la preghiera del Padre nostro, la presenza dell’uomo pagano ai bordi del discorso, mentre fuori dei suoi margini si pongono gli scribi e i farisei.

Secondo Manicardi, il Discorso del monte propone una specie di antropocentrismo teocentrico. Nell’uomo ci sono due centrature: amore verso il Padre celeste e amore per gli uomini della terra. Senza negare il primato di Dio, si pone sullo stesso gradino anche l’amore per l’uomo. Esso è l’oggetto chiaro dell’attenzione divina e degli atteggiamenti di Gesù.

Lo studioso conclude così la sua fatica: «Dal monte Gesù rende trasparente il mondo, facendo vedere come in esso si muovono la paternità di Dio e la forza del vangelo che può rendere l’uomo figlio del Padre, a condizione che egli accetti il Regno dei cieli e partecipi con le sue scelte alla realizzazione del suo pieno compimento nell’amore senza restrizioni» (p. 221).

  • ERMENEGILDO MANICARDI, Regno dei cieli e pieno compimento. Il Discorso del monte nel Vangelo secondo Matteo (Collana Biblica), EDB, Bologna 2022, pp. 224, € 21,00, ISBN 9788810221945.
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