Il nome femminile di Dio

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«Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto» (Es 1,1).

Il libro dell’Esodo – in ebraico Shemòt, “nomi” –, si apre nel segno di un esercizio di nominazione che, nel raccordare il nuovo tragitto narrativo con le pagine conclusive di Genesi dedicate alla storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, delinea con tratto sicuro le linee di riferimento dell’itinerario geografico ed umano che sta per aprirsi.

Contano i 13 nomi maschili

L’Egitto è la terra da cui l’ex-odòs prende le mosse: in Egitto già si trovava Giuseppe, in Egitto entrarono, ognuno con la sua famiglia, gli altri undici figli di Giacobbe. La situazione iniziale fa il punto sulla presenza, in terra egiziana, di un totale di settanta persone discendenti da Giacobbe. Di queste settanta persone, soltanto tredici vengono nominate; si tratta di Giacobbe e dei suoi dodici figli maschi, capostipiti delle dodici tribù di Israele: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Ìssacar, Zàbulon, Beniamino, Dan, Nèftali, Gad, Aser e Giuseppe.

I nomi delle quattro madri, Lia, Rachele, Bila, Zilpa, e il nome della sorella Dina, che pure erano state protagoniste di alcune intense pagine di Genesi, non vengono né menzionati né accennati. Lia, Rachele, Bila, Zilpa, Dina, le dodici mogli dei dodici figli di Giacobbe, sono, all’inizio di Esodo, presenze anonime, che non contano e non sono da contare.

I nomi che contano, i nomi da non dimenticare, degni di essere ricordati e tramandati, sono soltanto nomi maschili. Lo ribadirà con chiarezza il libro dei Numeri: «Fate il computo di tutta la comunità degli Israeliti, secondo le loro famiglie, secondo i loro casati paterni, contando i nomi di tutti i maschi, testa per testa, dai vent’anni in su».[1]

Anche Pericle…

Sulla soglia di Esodo la storia d’Israele ci viene consegnata come marcata inequivocabilmente dal genere maschile; le presenze femminili vengono consegnate ad un collettivo indistinto che ne suggella l’anonimato e l’invisibilità. Tacere il nome è imbavagliare un’identità. Pagine e pagine di testi letterari, storici, sacri, dove le donne sembrano non esistere. Sembrano non fare parte della storia. Come se la storia si facesse a prescindere da e senza le donne.

In un famosissimo passo dello storico greco Tucidide, Pericle, uomo politico e oratore ateniese, tesse l’elogio dei valori democratici della sua città celebrando gli antenati che l’hanno fondata, i padri che l’hanno conservata, i figli che l’hanno ingrandita. In pagine memorabili ed esaltanti, Atene viene celebrata come modello di uguaglianza e di tolleranza reciproca fra concittadini, fucina di sapienza e di bellezza, vera scuola dell’Ellade.

In chiusura di discorso, dopo dieci densissimi capitoli, Pericle sembra accorgersi che nel mondo non ci sono solo uomini. Ma gli bastano quattro righe per liquidare la faccenda. Se è proprio necessario ricordare anche le virtù delle donne, dice, in poche parole si può dire tutto: tanto più grande sarà una donna quanto meno, in bene o in male, si parlerà di lei. Semplice, e democratico.

L’onomastica

L’onore più grande per una donna coincide con il silenzio. Non solo la nominazione, ma anche la stessa onomastica femminile fa problema. Nel mondo romano il sistema onomastico era basato su una struttura molto precisa, che prevedeva che i cittadini maschi liberi venissero identificati in base al sistema cosiddetto dei tria nomina.

Cardine del sistema onomastico era il nomen gentilizio, che individuava la gens, ossia la stirpe, equivalente al nostro cognome; al nomen veniva posposto il cognomen, che individuava il particolare ramo familiare di appartenenza, e anteposto il praenomen, corrispondente al nostro nome proprio: Marcus Tullius Cicero.

Ma per le donne la situazione era completamente diversa. Alle donne non veniva dato un nome proprio, cioè un praenomen individuale. Quando nasceva una figlia, la questione della scelta del nome non si poneva: il nome della figlia femmina coincideva, semplicemente, con il nome della gens declinato al femminile. Per intendersi, la figlia di Cicerone non avrebbe potuto che chiamarsi Tullia. Se poi di figlie ne nasceva più di una, per evitare omonimie, le si distingueva con un numerale in base all’ordine di nascita: Tullia Maior, Tullia Minor, Tertia, Quarta o Quartilla, Quinta o Quintilla.

Non a caso l’onomastica romana femminile è stata definita “unomastica”: paradossalmente, si potrebbe dire che più che un ònoma, un nome, quello delle donne romane è un où-noma, un non-nome.[2] Mulier sine nomine. Il nome della donna è tabù e non deve essere pronunciato. Sul nome deve cadere il silenzio, come un velo che copre, sigilla e reclude.

Dare nome, dare volto

Dare un nome al femminile. Scavare nel silenzio dei testi, nel sottaciuto, nel sottinteso. Riportare alla luce nomi, volti, storie, gesti. Dare nome, dare volto. Perché nel nome c’è il volto e il nome è come il volto. Rivelativo.

Ricordare, accanto a Giacobbe, le quattro donne – Lia, Rachele, Bila, Zilpa­ – che hanno generato i suoi dodici figli.

Ricordare le donne che, con fiducia nella vita, hanno generato figli in terra d’Egitto permettendo al popolo di Israele di diventare numeroso e molto forte: I figli d’Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto forti, e il paese ne fu pieno. Gli egiziani ebbero paura ed iniziarono ad opprimere gli Ebrei con i lavori forzati: Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva.

Ricordare le donne che, nei momenti più duri della storia, hanno dato prova di straordinaria resilienza, continuando a credere nella forza della vita e della maternità. La vita si fa difficile, ma le donne ancora mettono al mondo dei figli. Nascono bambini e bambine. E la vita va avanti.

Ricordare Sifra e Pua, Splendore e Bellezza, donne esperte nell’arte della medicina. Forse anche loro come l’egiziana Peseshet,[3] la prima donna medico della storia, avevano uno statuto professionale ben definito: grazie alla loro formazione scientifica, occupavano posti di rilievo all’interno della corte, curavano le donne della famiglia del faraone e avevano compiti di responsabilità.

Il faraone crede di poterle piegare ai propri progetti di morte e ordina loro di uccidere ogni bambino ebreo maschio che verrà al mondo. Ma Sifra e Pua non ci stanno, e scelgono la vita. La loro obiezione di coscienza è disobbedienza che gioca d’astuzia, riuscendo a farsi beffe del potere che sfodera i muscoli e vuole imporsi con la violenza: «Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito!». Oltre le leggi degli uomini, la legge di Dio.

La storia di Mosè

Ricordare la catena di solidarietà femminile che ha reso possibile la storia di Mosè. In origine ci sono un uomo e una donna. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello. Quando una madre tiene tra le braccia suo figlio neonato, ha tra le braccia il mondo, e quel mondo è bellezza da custodire e ammirare.

La madre di Mosè riesce a tenere nascosto il bimbo solo per tre mesi; poi, con amore infinito, gli prepara un altro grembo, un cestello di papiro spalmato di bitume e di pece, ve lo adagia con tenerezza e lo affida alle acque del Nilo. Essere madre è concepire, partorire, gioire della bellezza del figlio, custodirlo fra le proprie braccia. E poi lasciarlo andare. La sua prima traversata Mosè la compie sulle acque del Nilo, nel cestello preparato da sua madre.

Il bimbo non è abbandonato e solo. La sorella Miriam segue da lontano il tranquillo ondeggiare del cestello di vimini tra i giunchi. Il suo sguardo custodisce la vita. La figlia del faraone vede il cestello; nel suo sguardo non c’è indifferenza, ma partecipazione, accoglienza. Subito manda la schiava a prenderlo. Il cestello-grembo viene aperto: un bambino piange, e in quel pianto la vita si consegna nella sua totale fragilità. Subito la figlia del faraone prova compassione, e in questo suo compassionare è la radice feconda di una nuova maternità.

La sorella del bambino, una piccola bimbetta ebrea, si avvicina alla figlia del grande faraone egiziano e le chiede: «Devo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?». Si apre, a questo punto, un gioco di sguardi che supera le parole scambiate, un ammiccare elusivo ma potente che dice comprensione reciproca e complicità. Una complicità che, oltrepassando le barriere sociali, generazionali, etniche, elude la muscolarità della legge imposta con violenza, per salvare, nutrire, e custodire la vita.

La madre del bambino può tenere il figlio con sé, lo può allattare, lo può vedere crescere. La figlia del faraone si fa carico non solo della vita del bambino, ma anche di quella della sorella e della madre, cui garantisce un salario, un sostegno economico. Poi, quando il bambino è cresciuto, per una seconda volta la madre accetta di lasciarlo andare e lo porta alla principessa egiziana. Ed egli fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosé, dicendo: «Io l’ho tratto dalle acque!».

«Io l’ho tratto dalle acque!»: esercizio di nominazione nel segno di un’alleanza femminile per la vita.

Sulla soglia di Esodo la storia di Israele ci sembra iniziare nel segno di un esercizio di nominazione marcato inequivocabilmente dal genere maschile. Ma, se impariamo a leggere nei silenzi, nei sottintesi e nell’implicito sottaciuto, possiamo scoprire che Madre è nome femminile di Dio.


[1] Numeri 1,2–3

[2] Paolo Marpicati, Note sull’onomastica femminile nella letteratura latina, in L’onomastica di Roma. Ventotto secoli di nomi, Atti del convegno, Roma, 19-21 aprile 2007.

Cf. https://art.torvergata.it/retrieve/handle/2108/55749/88367/RIOn2.pdf

[3] https://www.storicang.it/a/merit–ptah–e–peseshet–prime–donne–nella–scienza_15460

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