Romani, il vangelo di Dio

di:

romani

Antonio Pitta è professore ordinario di Esegesi del NT alla Pontificia Università Lateranense e professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana. Specialista di Letteratura paolina, ha al suo attivo anche un diploma in Scienze patristiche. Nel volume, scritto direttamente in inglese forse per ottenere immediato ascolto a livello internazionale, egli affronta i temi più impegnativi della Lettera ai Romani, fornendone un quadro interpretativo generale che tiene conto dei risultati acquisiti in modo particolare negli studi di stilistica e retorica paolina.

La retorica biblica si è infatti rivelata decisiva nell’accostare i testi biblici, per poterne enucleare correttamente i contenuti a partire non solo da quello che viene detto alla superficie del testo ma soprattutto dal sistema argomentativo messo in atto attraverso la disposizione retorica del contenuto (quando viene detto, come viene detto, perché vien detto, con quali accorgimenti stilistici vien fatto? ecc.). Il volume non è un commento a Romani, ma è un saggio che si inserisce nel cosiddetto Romans Debate sviluppatosi ormai da decenni.

Struttura del libro

Suggeriamo alcune linee sintetiche dello sviluppo dell’argomentazione del testo di Pitta nei vari capitoli riguardante La lettera ai Romani, un cantiere sempre aperto e permanente. Nella seconda parte della segnalazione presenteremo ulteriori dati risolutivi di specifici nodi problematici forniti dall’autore.

Dopo le Abbreviazioni (pp. 11-14) e l’Introduzione (pp. 15-20), il c. I (pp. 21-50) espone la sfida posta dalla retorica epistolare di Romani. Si discute sul tipo di oralità in essa presente, la dispositio della retorica epistolare, il genere proprio della retorica epistolare, la differenza tra situazione epistolare e retorica epistolare. Si esaminano i sistemi di argomentazione (appello alla Scrittura e all’argomento di autorità), le figure di linguaggio e di contenuto (litote, ossimoro, antanaclasi), la correlazione tra retorica e messaggio.

Occorre individuare la tesi principale (propositio principalis) dell’autore per poi discernere gli snodi argomentativi successivi costituiti da eventuali subpropositio/nes, probatio/nes, concessio/nes, digressio/nes, confutatio/nes, peroratio).

Occorre tenere conto che le strutture proprie dell’epistolografia, nelle lettere paoline vengono mescolate a piene mani con quelle della retorica letteraria e argomentativa. Le lettere paoline infatti sono un genere misto di lettera e di discorso. Pensata come lettera, essa viene messa per iscritto in modo accuratamente ben disposto e argomentato, per poter essere infine letta pubblicamente e spiegata all’assemblea destinataria dello scritto. Alla fin fine risulta essere ben più di una “lettera”…

Il c. II (pp. 51-64) affronta la diffamazione di cui Paolo è stato fatto oggetto e il suo retroterra storico (3,8; 14,1–15,13). La diffamazione tocca l’evangelo di Paolo, le cose buone e cattive, la diatriba tra “forti” e “deboli” e il suo impatto sociale; sono dunque l’accusa di blasfemia e di diserzione a causa delle regole dietetiche che dividevano le Chiese di Roma. Costituiranno lo spunto per la composizione della lettera.

Il c. III (pp. 65-90) concerne i paradossi e le tensioni che emergono circa il tema della salvezza (1,16: 13,11). La salvezza appare essere il centro del vangelo paolino. Si discute sulla giustizia di Dio come salvezza, con i sotto temi della salvezza per tutti, il riscatto, lo strumento di salvezza e il parto con le sue doglie; il vangelo è per la salvezza e gli attori e i destinatari della salvezza sono Dio e le Scritture, la salvezza in Cristo, la legge dello Spirito per la salvezza, i predestinati alla salvezza. La salvezza appare come un paradosso perché non avviene secondo la Legge ma attraverso una morte in croce, che porta a compimento una storia di salvezza.

Il c. IV (pp. 91-110) tratta delle due confessioni fede che precorrono Paolo, i cosiddetti frammenti di confessione di fede prepaolini (1,3b-4a; 3,25-26a): Paolo li assume e approfondisce la fede giudeocristiana presente in essi. Gesù è visto come nato dal seme di Davide e costituito Figlio di Dio a partire dalla risurrezione. Più che “coperchio/sede” di misericordia, l’hylastērion di 3,25 va interpretato come presentazione di Cristo “strumento di misericordia”.

In Rm 3,25-26a – secondo Pitta – dobbiamo riconoscere che, mentre il sangue è cruciale per l’espiazione tramite il coperchio di misericordia, sia che si tratti di sangue di agnello o di bestiame grosso, il focus in Rm è concentrato sul sangue di Cristo e sull’insieme dell’evento di espiazione e non solo sul luogo. Entrambi i piccoli inni di fede vengono esaminati nella loro funzione retorica, vista la loro posizione strategica.

Il c. V (pp. 111-132) affronta lo spinoso problema della Legge (2,12–13,10) studiando il rapporto tra nomos e Torah, le opere della Legge e la tradizione giudaica (per Pitta questo è il significato da attribuire alle “opere della Legge”). Si discute sulla presenza di contraddizioni circa la Legge o di concessioni fatte ad essa da Paolo. Si studia a fondo il tema della giustificazione per fede nel suo rapporto con la Legge.

Il c. VI (pp. 133-153) si sofferma sull’assimilazione e sulla conformità (4,1-25; 15,1-6) trattando di mimesi, rappresentazione, esemplarità tipo e dissomiglianza tra Adamo e Cristo, connaturalità e assimilazione, conformazione all’immagine del Figlio, rivestire Cristo, Cristo come prototipo ed esempio. Occorre profonda intimità con Cristo, salvaguardando le differenze.

IL c. VII (pp. 155-172) studia la natura e la funzione della propositio in Rm 5,1–8,9. Il tema è diverso dalla tesi da dimostrare e fra le propositiones occorre distinguere la principale dalle secondarie. Pitta individua ad esempio la nuova propositio in 5,1-2 e non in 5,19-20.

La situazione tragica, espressa con uno stile tragico che rimanda al noto mito di Medea caratterizza Rm 7,7-25 (c. VIII, pp. 173-210), con la presenza dell’enigmatico “Io” dilaniato tra l’amore per le cose buone che vede da compiere e l’incapacità di attuarle.

“Se non tutto Israele è Israele, perché tutto Israele dovrebbe essere salvato?”, titola il c. IX (pp. 211-230), che rimanda ai tumultuosi e difficili capitoli di Rm 9,1–11,36.

Il c. X (pp. 231-250) conclude il saggio di Pitta con l’esame della disputa tra “i forti” e “i deboli” che occupa Rm 14,1–15,13.

Dopo la Conclusione (pp. 251-256), seguono l’amplissima Bibliografia, suddivisa fra Fonti primarie e Fonti secondarie (pp. 257-259.259-302), l’Indice delle Fonti antiche (pp. 303-310), l’indice degli autori moderni (pp. 311-318) e, infine, l’Indice dei temi (pp. 319-322).

Struttura della Lettera ai Romani

Per comodità dei lettori riportiamo la struttura letteraria di Romani proposta da Pitta nell’introduzione del suo saggio (pp. 21-50; cf. p. 31) a cui faremo seguire alcune note esplicative riguardanti la retorica paolina espressa nella Lettera ai Romani.

  1. Apertura della lettera (1,1-17)
  2. Prescritto (1,1-7)
  3. Ringraziamento/exordium (1,8-15)
  4. Tesi generale (1,16-17)
  5. Corpo della lettera (1,18–15,13)
  6. Sezione kerygmatica (1,18–11,36)
  7. La rivelazione dell’ira e della giustizia di Dio (1,18–4,25)
  8. Giustificazione nella speranza della partecipazione alla gloria (5,1–8,39)
  9. La fedeltà della parola di Dio (9,1–11,36)
  10. Raccomandazioni epistolari (12,1–15,13)
  11. Tesi generale (12,1-2)
  12. Esortazioni varie (12,3–13,14)
  13. Esortazione al forte e al debole (14,1–15,13)
  • Chiusura della lettera (15,14–16,27)
  1. Poscritto (15,14-33)
  2. Saluti (16,1-23)
  3. Dossologia (16,25-27)
Lettera kerygmatica

Pitta afferma che Romani non rientra facilmente in nessuna delle dispositiones previste dagli antichi trattati di retorica. Procede con originalità. Tutte le sue parti sono originali: dalle sezioni epistolari (in Rm 1,1-7 essa presenta uno dei più lunghi prescritti di ogni lettera antica), alle sezioni kerigmatiche ed esortative.

Romani è troppo ampia per essere classificata come una semplice lettera di amicizia, e troppo ecclesiale per essere pensata come una lettera di un ambasciatore o “quasi ufficiale”. Insieme a 1-2Corinzi e a Galati, Romani è la lettera in cui vangelo e lettera interagiscono in un modo originale. Inoltre, dal momento che il genere retorico dovrebbe fluire dalla congiunzione tra situazione epistolare e arrangiamento retorico, anche il genere di Romani sembra unico.

Più che una lettera “apostolica”, Romani è una lettera kerygmatica, come 1-2Corinzi e Galati, perché essa anticipa e sostituisce la presenza di Paolo nelle Chiese domestiche di Roma.

Il messaggio della Lettera ai Romani

Molte persone conoscono il messaggio centrale di Romani, espresso nella tesi generale o propositio principalis di Rm 1,16-17: «Io infatti non mi vergogno del vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà». E questo indipendentemente dalla Legge, che indica il bene ma non dà la forza di compierlo.

Fuori del vangelo si rivela l’ira di Dio (1,1,8–3,20) mentre in esso si rivela la giustizia di divina (3,21–4,25). Lo Spirito del Figlio Gesù Cristo morto per amore dei peccatori dona ai credenti che accolgono nella fede il dono della sua vita donata (= sangue), la giustificazione, la vita dei figli di Dio e l’inizio della salvezza («nella speranza», Rm 8,24), in cammino verso la redenzione del corpo e la pienezza della gloria.

Anche tutto Israele sarà salvato secondo i piani imperscrutabili di Dio.

La parte finale della Lettera aiuta i romani a vincere con la legge dell’amore la diatriba fra i forti e i deboli di fronte alle diete che potevano contrapporre le tradizioni giudaiche. L’amore reciproco si manifesta anche verso l’esterno con l’obbedienza leale alle autorità preposte alla vita ordinata della comunità.

È bene però avvalersi di alcuni spunti offerti da Pitta a partire dalla retorica paolina presente nella lettera, per un discorso più ampio e inclusivo.

Situazione epistolare e strategia retorica

«Se Paolo avesse voluto solo mandare la lettera per chiedere raccomandazioni dai destinatari per la Chiesa di Gerusalemme o di essere aiutato per evangelizzare la Spagna in futuro, forse Romani avrebbe ricoperto più meno lo spazio della Lettera di Filemone», afferma Pitta (p. 34).

Dobbiamo distinguere la “situazione epistolare” dalla “strategia retorica” più che dalla “situazione retorica”. Mentre la situazione epistolare riguarda notizie e sentimenti scambiati fra mittente e destinatari, la strategia retorica si riferisce all’intento persuasivo di una lettera. Situazione epistolare e strategia retorica si intersecano in Rm, 1,1-17, l’introduzione della lettera. In Romani, però, è presente anche la pesante accusa rivolta a Paolo di bestemmia nel suo discutere su ciò che è bene e male (Rm 3,8), oltre alla problematica dei deboli dei forti che affligge la/le comunità di Roma, che coinvolge nei problemi di dieta il problema del ruolo della Legge/Torah e delle tradizioni giudaiche.

Paolo assume una posizione ampia rispetto alla situazione storica in cui si pone la Lettera ai Romani per applicare la strategia retorica a tutte le situazioni simili presenti nelle prime comunità cristiane, quali Tessalonica, Corinto e Galazia. Pitta fa notare che Romano Penna giustamente definisce «concreto» il caso del forte e del debole in Romani e non «ipotetico».

La distinzione tra situazione epistolare e storica in Romani e strategia retorica va fatta con attenzione. La confluenza è però più profonda che in 1-2Corinzi, Galati e Filippesi, perché Paolo non conosce tutti i destinatari della lettera e non ha ancora visitato Roma. Egli assume una strategia inclusiva, così da non rimanere intrappolato in una situazione epistolare da cui tenta di uscire e di coinvolgere tutte le sue comunità. In questo modo si comprende l’uso ampio e il ruolo della diatriba in Romani. Lo stile diatribico è utile per trattare il conflitto tra il forte e il debole nelle comunità romane per mezzo di una strategia indiretta e inclusiva (cf. p. 37).

La situazione epistolare predomina nelle parti periferiche della lettera, mentre la strategia retorica prevale nel corpo della lettera. La differenza permette a Paolo e al suo uditorio di adottare una strategia inclusiva sulla base della situazione epistolare e di focalizzarsi sulle ragioni principali che modificano indirettamente la situazione stessa. Per convincere i destinatari del grande valore del vangelo, Paolo usa vari sistemi di ragionamento, soprattutto l’interpretazione della sacra Scrittura e lo stile della diatriba.

Il primo tipo di prove riassume l’autorità indisputata della Scrittura collegando Paolo ai suoi destinatari, dal momento che essi conoscono già la legge mosaica come Scrittura (Rm 7,1).

Il secondo sistema eleva il livello retorico a un dialogo tra Paolo e i destinatari diretti e indiretti della lettera.

Entrambi i sistemi incorporano il vangelo di cui Paolo non si vergogna, ma di cui, al contrario, va fiero.

Le parole iniziali di Rm 1,1-2 introducono immediatamente il sistema principale della lettera, cioè la relazione tra il vangelo di Paolo e le sacre Scritture. Per questo motivo, citazioni dirette e indirette e molte allusioni o echi delle Scritture sono distribuiti in tutta la lettera. Da una prospettiva retorica, l’appello alle Scritture appartiene al cosiddetto argomento di autorità (argumentum ab auctoritate) condiviso da Paolo e dai suoi destinatari (7,1) (cf. p. 389).

Spunti risolutivi

Con riferimento alle Conclusioni (pp. 251-256) tratte da Pitta al termine del suo saggio, enucleiamo alcuni spunti risolutivi di nodi retorici e teologici particolarmente interessanti proposti dall’autore. Pensiamo siano spunti utili per i lettori che eventualmente affrontano per la prima volta la presentazione della retorica paolina (qui applicata a Romani). Cerchiamo di riassumere il pensiero di Pitta seguendo quasi in modo pedissequo il suo dettato, senza continuamente citarlo esplicitamente fra virgolette. Non vogliamo in tal modo tradire temi ed espressioni tecniche molto delicati.

Situazione epistolare e strategia retorica o persuasiva

La tesi principale della lettera concerne il vangelo di cui Paolo non si vergogna. Per questo motivo il tipo epistolare che corrisponde meglio a tutti gli aspetti di Romani è kerygmatico o focalizzato sull’annuncio di Gesù Cristo.

Lo stile della diatriba, caratterizzato dal dialogo con un interlocutore fittizio, l’uso di figure di linguaggio quali la litote, l’antanaclasi e l’ossimoro, mostrano come l’oralità e la scrittura in Romani sono molti più intrecciati di quanto si pensi.

Si è già vista la distinzione, ma non la divisione, fra situazione epistolare e strategia retorica o persuasiva. La situazione epistolare si riferisce alla natura reale della lettera che, come tutte le altre lettere di Paolo, è generata da pensieri reali e non teoretici. La strategia retorica caratterizza, invece, il modo in cui Paolo tratta le situazioni delle Chiese domestiche di Roma. La strategia retorica usata da Paolo è inclusiva, dal momento che coinvolge le Chiese domestiche di Roma e di altre città, come Corinto, da cui fu inviata la lettera, e risponde a situazioni epistolari comuni, quali l’osservanza della legge mosaica e delle leggi dietetiche.

Punto di partenza per l’annuncio del vangelo della salvezza in Cristo

L’accusa di bestemmia contro Paolo riferita in 3,8 e l’anomala sezione di 14,1–15,13 formano il retroterra della situazione epistolare e della strategia retorica.

Chiamato a difendersi dalla calunnia contro la sua predicazione (3,8), Paolo non si lascia catturare dalla situazione dei destinatari. Preferisce piuttosto dimostrare la natura del suo vangelo per la salvezza degli esseri umani, che siano Giudei o Greci.

Paradosso della salvezza in Gesù Cristo

La spina dorsale del vangelo in Romani è la salvezza realizzata da Dio in Cristo tramite l’opera dello Spirito. Il filo maggiore nella trattazione della salvezza in Romani è il paradosso. Annunciata dalla Legge e dai Profeti, la giustizia salvifica di Dio è stata realizzata indipendentemente dalla stessa Legge (Rm 3,21-22), contro il pensiero umano.

Secondo logica, se la salvezza è attestata dalla Legge, la giustificazione dovrebbe essere compiuta col concorso della Legge. Al contrario, la salvezza avviene solo grazie a Cristo, che Dio ha pubblicamente posto come strumento di espiazione o di misericordia (Rm 3,25-26). Il paradosso della salvezza raggiunge l’assurdo quando la giustificazione e la riconciliazione sono realizzate tramite la morte di Cristo per i peccatori (Rm 5,1-11).

In ogni caso, la salvezza in Cristo non è acquisita dai credenti come qualcosa in sé compiuto; essa è sempre accompagnata dal potere dello Spirito e giungerà a realizzazione piena nel futuro della storia umana.

Il ruolo di Gesù Cristo in Romani non è secondario, ma centrale, come è mostrato dal tema generale della lettera. Il Figlio di Dio è introdotto fin dal principio della lettera (Rm 1,2-4). I due frammenti prepaolini (Rm 1,3b-4a e 3,25-26a) sono essenziali per lo sviluppo retorico della lettera. Hanno un linguaggio strano, sono anomali rispetto al contesto, hanno un sistema di pensiero originale e un background semitico.

Troviamo i frammenti prepaolini in punti cruciali della lettera poiché la priorità del giudeo lavora a favore dell’universalità della salvezza per il gentile. La salvezza avviene in modo paradossale attraverso Gesù Cristo, quale strumento di misericordia, e non per mezzo dell’espiazione prescritta dalla legge mosaica.

La Legge

La legge mosaica è un enigma in Romani, maggiore che non in Galati e nelle altre lettere paoline. Per Pitta dipende dai destinatari diversi. A differenza dei galati, che non conoscono la Legge e che invece desiderano sottomettersi alla circoncisione e alla Legge, i romani sono credenti di origine gentile ed ebraica che conoscono la legge mosaica (Rm 7,1) e aderiscono a Cristo con essa.

Per questo motivo le “opere della Legge” sono sempre viste in modo negativo: Paolo attribuisce ruoli positivi e negativi alla Legge. Secondo Pitta, le “opere della Legge” non sono le opere richieste dalla Legge, ma corrispondono a “le tradizioni dei padri” (Gal 1,14) dei diversi movimenti del giudaismo del Secondo tempio. L’aspro conflitto di Roma inizia dunque tra i forti e i deboli sulla questione della legge che regola le diete.

Mimesi

Secondo Pitta gli studiosi non prendono in considerazione Romani quando esaminano il modo con cui Paolo tratta la mimesi umana o imitazione. La mimesi, intesa come totale assimilazione di Gesù Cristo nella nostra carne peccatrice (Rm 8,3) e quale conformità degli esseri umani alla sua immagine (Rm 8,29), è uno dei tratti più originali della mimesi umana nelle lettere di Paolo. L’originale metafora di “rivestire Cristo” (Rm 13,14) esprime una mimesi etica centrata su una intimità con Cristo che conduce i credenti a imitarlo.

L’imitazione umana di Cristo non ha mai termine poiché un gap rimane sempre tra il modello e la conformità umana. Allo stesso tempo, poiché Cristo accetta tutti i credenti nelle Chiese domestiche romane (Rm 15,7), il suo incomparabile esempio diventa un’istanza propulsiva verso una mutua accoglienza tra forti e deboli. La mimesi umana non ha origine perciò dall’autorità del modello, né dalla scelta etica del credente, ma dalla mutua assimilazione e conformità (Rm 8,29-30).

L’elezione da parte di Dio o la chiamata in Cristo è il punto di partenza della mimesi umana tra Cristo e il credente. Di conseguenza, la mimesi umana non accade clonando il modello, ma salvaguardando la differenza tra modello e conformità.

Subpropositio in Rm 5,1-2

Distinguere nella lettera la tesi principale da quelle secondarie non è sempre facile ma è decisivo per comprendere i vari contenuti. Il caso di Rm 5,1,1–8,39 è esemplare, perché la tesi principale è confusa con i dialogismi e le frasi di transizione impiegate nella sezione. Pitta concorda con J.-N. Aletti nell’individuare la tesi della sezione in 5,1-2 e non in 5,20-21.

Come una vera e propria tesi, qual è, Rm 5,1-2 è completa, chiara e relativa ai paragrafi che seguono, generati da essa in 5,3–8,39. Essa si collega inoltre alla tesi principale di Rm 1,16-17 chiarendo il significato della giustizia di Dio come giustificazione. Giustificati per fede, i credenti hanno pace con Dio tramite Gesù Cristo e, in definitiva, possono vantarsi del loro stato di grazia in vista della speranza della gloria.

Rm 7,7-25: l’“Io”, Medea e il Peccato

Il brano è centrato su un’“Io” che non compie il bene che conosce e vuole, ma il male che odia. Poiché l’“Io” riconosce che egli una volta aveva vissuto senza la Legge, Pitta pensa che un’ipotesi di interpretazione autobiografica sia insostenibile. La prosopopea o personificazione parte con l’“Io” di Israele prima e dopo il dono della Legge e, passo dopo passo, si estende a un “Io” privo di un’intima relazione con Cristo.

Il tutto è espresso con uno stile tragico che rimanda alla nota tragedia di Medea, un mito ben conosciuto a Corinto. Non è un caso che Corinto sia il luogo dove Romani fu scritta e la località dove è ambientato il mito di Medea. Paolo ripensa il mito dell’umana incapacità in un modo completamente originale e ingegnoso. Nessuno prima di lui aveva rappresentato il tragico nell’umana impotenza, chiamando in questione la legge mosaica (cf. p. 254).

Anche il Peccato presentato in Rm 7,7-25 non è la somma dei peccati commessi dall’“Io”, ma un potere schiacciante che sfrutta la Legge, forzando l’“Io” a commettere ciò che non vuole. L’epilogo, inteso come soluzione tragica, è drammatico perché l’“Io” non può neppure chiedere perdono per espiare il peccato e ottenere la riconciliazione, ma è condotto a disperare chiedendo di essere liberato dal proprio corpo mortale.

L’“Io” rappresenta perciò, all’inizio, la storia di Israele prima e dopo il dono della Legge (Rm 7,7-12). Tuttavia, lo stesso “Io” estende progressivamente i suoi confini fino a includere ognuno che si trova all’esterno di una unione intima con Cristo. Se l’“Io” non può essere identificato con i credenti uniti a Cristo in 7,7-25, tuttavia esso è rappresentato dal credente. Liberati dalla legge del peccato e della morte, i credenti compartecipano della condizione umana di coloro che sono privi di Cristo.

Rm 9,1–11,36: Israele e la salvezza

Questi capitoli sono una sorta di pantano (quagmire). La tensione più grave emerge nell’ambito del paragone fra le affermazioni di Rm 9,6 e 11,26. Se non tutti quelli che sono da Israele sono Israele, come è possibile che alla fine tutto Israele sarà salvato? (cf. p. 255).

La retorica epistolare ci mette in grado di sbloccare il segmento intricato con la chiave della tesi principale (Rm 10,4), che richiama quella generale di 1,16-17. Dal momento che Cristo è la fine (the end) della Legge per la giustificazione di ognuno che crede, la distinzione tra Israele e Israele serve a sottolineare l’indiscutibile supremazia della elezione da parte di Dio. Dal momento che Paolo impiega un’antanaclasi o una ripercussione retorica della parola “Israele”, egli non afferma mai che etnicità ed elezione coesistano.

Al contrario, le Scritture, rilette alla luce del mistero divino compiuto in Cristo, assicurano la salvezza futura a tutto Israele. Poiché nella storia della salvezza Dio ha promesso la salvezza a tutto Israele, e il salvatore verrà da Sion, alla fine, elezione ed etnicità coincidono.

Contro coloro che, secondo Rm 9,1–11,36, propongono una via parallela o una doppia via di salvezza – una per i credenti in Cristo e una per Israele – Pitta afferma che la salvezza annunciata in Cristo appartiene all’essenza del vangelo. Tuttavia, l’unica via di salvezza non esclude, ma include, le imperscrutabili vie di Dio (Rm 11,33). Certo, Paolo non prevede “la via” della salvezza per tutto Israele, ma è convinto, Scritture alla mano, che la parola di Dio non è fallita, nonostante l’evidenza che sembra dire il contrario (p. 255).

Rm 14,1–15,13: Forti e deboli

 Il conflitto tra forti e deboli nelle Chiese domestiche di Roma è una sfida particolare al vangelo di Paolo. Egli affronta la disputa solo alla fine della lettera, dopo aver tentato di chiarire la relazione tra la giustificazione quale salvezza e la legge mosaica.

Le tradizioni giudaiche circa le leggi riguardanti la dieta fanno parte del retroterra della sezione. Il partito dei forti crede che, dal momento che uno è in Cristo, non è più necessario osservare le regole di purità del cibo, in occasione della comunione della mensa. Il debole, da parte sua, afferma che proprio perché uno è in Cristo è necessario continuare a osservare le leggi sulla dieta nel contesto della diaspora romana.

I due partiti non si distinguono sotto l’aspetto religioso, o dal punto di vista dell’identità etnica. Pitta ricorda come sia inadeguato identificare il forte con l’etnico-cristiano e il debole con il giudeo-cristiano. Forti e deboli differiscono invece nelle scelte etiche e per le differenti prospettive che essi assumono. Il forte e il debole, infatti, rispondono a un modo soggettivo o emico di vedere l’altro all’interno dello stesso movimento religioso.

Paolo è chiamato in questione da entrambe le parti. Anche se personalmente condivide la posizioni dei forti, egli sceglie di restare con i deboli allo scopo di non rischiare di perdere dei fratelli per i quali Cristo è morto. La soluzione proposta è centrata sul criterio della differenza (piuttosto che su quello dell’indifferenza), dal momento che il regno di Dio non è questione di cibo e o di bevanda, ma giustizia, pace e gioia realizzate dall’azione dello Spirito Santo (Rm 14,17).

Al termine del suo scritto, Pitta afferma che un libro come il suo è uno scritto aperto. Egli ha voluto contribuire a un movimento all’indietro, facendo vedere quanto questa lettera abbia stimolato il pensiero umano e un movimento in avanti, convinto com’è che la Lettera ai Romani parla di questioni rilevanti per gli esseri umani di ogni tempo e luogo. «Il vangelo che permea Romani è sempre nuovo, poiché Dio e l’essere umano sono posti in una relazione profonda da Gesù Cristo» (p. 256). Romani parla a tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, credenti e non credenti.

Romani è un capolavoro che non cadrà mai nel dimenticatoio, afferma Pitta nelle ultime righe del suo saggio, perché esso è sempre in attesa di coloro che, guardando dentro di esso, vedono e riconoscono se stessi in esso.

È un giudizio che possiamo condividere pienamente. La nostra segnalazione ha voluto riprendere i punti principali (e a tratti complicati) della Lettera ai Romani così come sono stati esplicitati egregiamente da Antonio Pitta.

Gli specialisti non ne avranno alcun bisogno, evidentemente, conoscendo da tempo le posizioni dell’autore. Altri lettori potranno trovare delle piste e delle suggestioni che potranno forse risvegliare in loro il desiderio di conoscere meglio il pensiero del grande Apostolo espresso nel suo capolavoro, sfruttando gli strumenti ermeneutici della retorica paolina che si sono ormai imposti come ineludibili e forieri di risultati fecondi nel cogliere sempre più correttamente il pensiero non sempre facile di Paolo, l’Apostolo, il “Tredicesimo testimone”.

  • Antonio Pitta, Romans, The Gospel of God (Analecta Biblica – Studia 16), Pontifical Biblical Institut, Gregorian&Biblical Press, Roma 2020, pp. 326, € 36,00, ISBN 9788876537202.
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