S. Famiglia: Il Bambino al tempio

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Cosa mi darai?

È dura per Abram (“mio padre è elevato”; Abramo da Gen 17,5 “padre di una moltitudine”) arrivare a cento anni (Gen 21,5), aver attraversato sulla parola promettente di YHWH (cf. Gen12,1-3) migliaia di chilometri di piste desertiche, essere arrivato in una terra straniera, esser sceso fino in Egitto, aver vagato fra Sichem, Egitto, Mambre e Gerar, soggiornarvi da straniero (Gen 20,1 wayyāgor<gûr, da cui gēr, straniero residente) e trovarsi senza un figlio proprio, ma solo Ismaele, un figlio avuto da una schiava della moglie Sara, Agar.

Abramo aveva già fatto un lungo viaggio per fede: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8-10).

Si ricorda ancora bene la lamentela espressa a YHWH quando era ancora Abram e prima che YHWH gli cambiasse il nome e la missione: «Signore Dio, cosa mi darai?» (Gen 15,2). La tua promessa di una discendenza numerosa dovrà passare per il maggiordomo della mia casa, uno straniero di Damasco?

Sara era sempre più inquieta, triste. Era una grande sofferenza e un disonore per lei non essere riuscita a dare al suo uomo un figlio maschio, che perpetuasse il nome della famiglia. Dio l’aveva castigata con la sterilità? E per quale peccato mai le aveva «chiuso il grembo»?

Scudo

Abram ha ben in mente quell’incontro con YHWH. Era chiuso nella sua tenda, un po’ depresso e sconsolato. YHWH lo aveva incoraggiato e rassicurato: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo (māgēn lāk = uno scudo per te); la tua ricompensa sarà molto grande». Gli aveva promesso in modo ben preciso: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede» (Gen 15,4 lett.: «colui che uscirà dalle tue viscere, lui erediterà»). Un discendente della tua stessa carne e del tuo stesso sangue. Discendenza (zera‘) del suo seme (zera‘), del suo intimo, somigliantissimo a lui.

YHWH lo aveva tirato fuori dal chiuso dell’ampia tenda, dai suoi pensieri chiusi in una sfera di bronzo, pensieri duri come l’acciaio, da tanto erano stati rimuginati. «Io sono uno scudo per te», gli aveva detto. Uno scudo contro te stesso, il tuo più grande nemico. Uno scudo contro la sfiducia, la stanchezza interiore, la voglia di lasciare che le braccia scendano lungo i fianchi, e non aprirsi più con fiducia in preghiera.

Ogni giorno, infatti, era sempre più difficile per me guardare Sara negli occhi, dirle qualcosa di bello, qualcosa che le facesse smuovere il cuore, tornare il sorriso… A volte sembrava uno zombie: girava per la tenda strascicando le pantofole sui tappeti, guardava con gli occhi persi la schiava che faceva da mangiare, ma sapeva già che non avrebbe avuto molto appetito. Seguiva le sue cose, dava degli ordini precisi alle serve, ma lo faceva meccanicamente, come un disco rotto.

YHWH, se sei mio scudo; lo devi essere anche per lei, altrimenti la nostra famiglia si sfascia, non ha più niente da dire. Non siamo più pellegrini credenti, siamo diventati dei ricchi vagabondi, vuoti dentro. Stentiamo a sentirci famiglia, viviamo l’uno accanto all’altro senza sapere ormai più cosa dirci…

Stelle

Si ricorda benissimo, Abramo – quando era ancora Abram – come YHWH, dopo avergli promesso un figlio che sarebbe uscito dalla sue viscere, lo avesse fatto uscire (Gen 12,5), uscire fuori (haûāh). Fuori non solo dalla tenda, ma fuori da se stesso, dai suoi pensieri aggrovigliati, dal cielo grigio sopra la mente, lontano dal tarlo affamato che gli divorava il cuore. Fuori al fresco, fuori nell’immenso, fuori dal chiuso e dal piccolo. Fuori a contare le stelle.

Erano bellissime quella notte. Tantissime. Trapuntavano impavide il manto blu scuro del cielo, indicando chiaramente il cammino, illuminando la pista ai carovanieri a dorso dei loro cammelli, nel fresco della notte. Il loro luccichio silenzioso, fedele, avvolgente gli aveva aperto il cuore, sgombrato la mente, ridato fiducia.

«Tale sarà la tua discendenza», gli aveva detto YHWH nel silenzio della notte. Discendenza di luce, una scia di luce nella notte degli uomini. Tutti figli. Una famiglia unita di figli, di fratelli fasciati di luce.

Roccia

Abramo si ricorda ancora come se fosse oggi che si appoggiò a quelle parole fiducioso come su una roccia solida (v. 6 we’ĕmin). Era la seconda volta che YHWH si impegnava con la sua promessa (cf. Gen 12,2). Si ricorda come trovò pace dentro il cuore. Il suo alleato non l’aveva abbandonato, ma riconfermava la sua promessa, la sua protezione divina. Si sentì di nuovo ben stretto a quel legame, un rapporto certo fra diseguali ma a cui rispose con rinnovato slancio. La “giustizia” di YHWH non l’aveva abbandonato.

Riso

E adesso gli ritorna vivo nella mente – allora era già diventato Abramo (cf. Gen 17,5) – il ricordo dell’ospitalità offerta a tre uomini, l’anno prima, sotto l’ombra alle Querce di Mamre (cf. Gen 18,1). L’ospitalità è sacra nel deserto, e non aspetta ricompense. Si ricorda come quegli uomini a volte parlavano come fossero in tre, a volte come fosse Uno solo, con una voce sicura che gli ricordava quella di YHWH. Gli aveva promesso un figlio per l’anno dopo, e aveva anche rimbrottato bonariamente Sara che, dietro di lui nella tenda, aveva riso a quelle parole (cf. Gen 18,9-15 wattiṣḥaq, āăqāh, āaqtî, āāqt). Sì aveva riso! Era tornata a sorridere. Era una vita che non lo faceva…

Isacco, “Egli sorriderà”

Abramo si era reso conto che YHWH aveva visitato in bene (pāqad) Sara. L’aveva vista carezzarsi più volte il grembo, addolcirsi in faccia, illuminarsi gli occhi di una luce nuova. Ed ecco, un anno giusto dopo quella visita memorabile, Sara non mancò all’appuntamento (cf. Gen 21,2 mô‘ēd) che YHWH aveva fissato a lei e ad Abramo. Sara fu tutta per il suo Abramo, gli partorì un figlio tutto per lui; era davvero raggiante, orgogliosa: «Partorì Sara ad Abramo un figlio nella/per la sua (= di lui) vecchiaia» … «Chiamò Abramo il nome di suo (= di lui) figlio, quello che era stato partorito a lui, che aveva partorito a lui Sara, Isacco» (Gen 21,3, lett.). Era lui il suo vero, unico, discendente – quello uscito dalle sue viscere (cf. Gen 12,4) – che YHWH gli aveva promesso.

Abramo ora era felice. Felice per Isacco e felice per il sorriso che aveva visto rinascere sul volto di Sara. Lei ancora non riusciva a smettere di sorridere, mentre guardava il suo “Sorriso” e gli dava il latte. YHWH aveva proprio benedetto la sua famiglia. Quel bambino era bello… come una stella!

Il Cristo del Signore

Anche Gesù era bello. Maria e Giuseppe non smettevano di mangiarselo con gli occhi. Era il Figlio dell’Altissimo, aveva detto l’angelo Gabriele a Maria. Era nato santo/santamente e sarebbe stato “chiamato/riconosciuto pubblicamente da tutti” Figlio di Dio.

L’Altissimo aveva veramente benedetto la loro famiglia. Tutte le ragazze di Israele avrebbero voluto diventare la madre del Messia. Era tempo di ridare a Dio quel che era di Dio. Occorreva “presentarlo” a lui nel tempio e riscattarlo come si faceva con tutti i primogeniti.

Dio è la sorgente dell’amore, la fontana che zampilla incessante a dissetare e a tenere unita la famiglia. È tempo di ringraziare pubblicamente il Signore, la sorgente del loro stare insieme, del loro rispettarsi, dell’onorare ciascuno il progetto di Dio sull’altro. Ringraziarlo di quel bambino speciale che sconvolgeva di gioia e di pensieri le loro giornate.

Nel tempio, Maria e Giuseppe incontrano un uomo “giusto” come Giuseppe, teso solo a compiere la volontà profonda, originaria di Dio. È “pio”, la sua vita è molto “religiosa”, tutta “legata” al Signore, relativa lui. Vive di speranza, ma non muore disperato. Quel giorno ha sentito una spinta speciale ad andare al tempio e quella famigliola ha subito attirato la sua attenzione. Avevano un non so che di profonda religiosità, avanzavano tremanti e un po’ spaesati incontro al Signore.

“Ma è il Cristo del Signore!”, gli venne da gridare a Simeone, benedicendo YHWH, mentre chiedeva il permesso alla giovane coppia di “accogliere” (edexato) fra le braccia quel bimbo di quaranta giorni.

“Sento che è l’Unto del Signore – diceva Simeone – egli sarà la consolazione di Israele”. Sarà lui a far sentire di nuovo a tutto il popolo che YHWH non lo ha abbandonato in balìa dei romani, in preda ai propri peccati ed errori, alle strade perse su cui si era incamminato. Avrebbe consolato i cuori di Israele con la salvezza destinata a tutte le genti, come aveva promesso ad Abramo, il patriarca (cf. Gen 12,3; 18,18; 22,18). Quel bimbo è la luce per rivelare YHWH a tutte le genti, portando a tutti la Gloria del Signore in persona.

La spada

Ora sì che Simeone sente che può andarsene da questo mondo, “riunirsi ai suoi padri”. Ha visto lo strumento concreto della salvezza (to sōtērion) di YHWH in un bimbo nato a Betlemme, la città di Davide. Ma sente che non può nascondere a quella giovane coppia – a sua madre in particolare – un turbamento che sente nel cuore. Davanti a quel bimbo bisognerà che ognuno in Israele prenda posizione. Davanti a lui i cuori si divideranno. Ognuno dovrà scegliere fra la vita o la morte (cf. Dt 30,15-20). Morte o risurrezione si decideranno in un no o in un sì detto a quel bimbo, la Gloria di Israele, il suo frutto migliore. In lui si può inciampare e cadere, su di lui si può salire e risorgere. Un segno di contraddizione, un segno contraddetto (sēmeion antilegomenon).

Sento che non salverà con mezzi potenti e con gesti di sangue. Sarà un Messia potente, potente nella debolezza dell’amore. Vedo come sua madre se lo mangia con gli occhi, che è tutta per lui. Non posso però nasconderle che parteciperà da vicino a tante cose che le feriranno il cuore, perché feriranno il cuore del suo Figlio.

Nella famiglia le cose vanno così. In famiglia si è tutti per uno e uno per tutti. Insieme si cresce e ci si fa forza. Poi ognuno farà le sue scelte. Così ho imparato dai sacri testi, dalla Torah di YHWH. Ora lui mi può prendere quando vuole. Le mie braccia sono piene, il raccolto abbondantissimo. La mia speranza ha trovato la fonte che la alimentava. Israele sarà salvo.

La grazia

Nella penombra del tempio, nell’atrio delle donne, si fa avanti un’anziana. Anna, la vedova pia, la preghiera fatta persona, riassume in se la pienezza della fede del suo popolo. I suoi anni moltiplicano il numero delle tribù per il numero della pienezza di Dio. E loda Dio per quel bambino. Un bimbo è sempre la vita che vince. Ora è qui nel tempio, anche lui sarà un protagonista della redenzione della città del grande Re, la gioia di tutta la terra (cf. Sal 48[47],3). YHWH regnerà su Gerusalemme e la riscatterà, asciugando tutto il suo dolore e il suo peccato con l’amore di questo bambino innocente innalzato in croce.

Hanno visto tante cose a Gerusalemme. Hanno sentito tante parole. Su di loro e sul loro bambino. Maria e Giuseppe scendono a Nazaret contenti ma un po’ scombussolati. Devono rielaborare tante cose nel loro cuore. Insieme. Si confronteranno. Ci saranno tante sere e tante notti per farlo.

Quel bambino è troppo ricco dentro, non riusciamo a capire tutto di lui. Però è bravo, cresce bene, gioca con gli altri ragazzi, si sbuccia le ginocchia come tutti loro ed è sempre contento.

Fa sorridere tutti. È il sole della nostra famiglia, la stella della nostra casa.

Attorno a lui, di notte, c’è come una scia di stelle.

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