Wénin, il libro dei Giudici

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L’esegeta belga, André Wénin, docente di Antico Testamento e di Ebraico biblico all’Università Louvain-la-Neuve e professore e invitato alla Gregoriana, offre un interessante studio di un libro biblico negletto dalla liturgia cattolica, poco conosciuto e amato dai credenti stessi. In esso si trovano infatti un cumulo di racconti di violenza e stupri, omicidi e saccheggi, massacri e astuzie fondate su finzioni e bugie.

Senza pronunciarsi sul profilo storico dei personaggi, che coprirebbero il periodo che va dall’entrata nella terra promessa alla scelta del primo re, Saul, Wénin analizza il testo dal punto di vista narratologico, indagando il movimento del racconto, la suspense creata nel lettore, lo scopo finale che si intenda raggiunge.

I racconti dei Giudici rientrano nella più ampia storia deuteronomistica. Emersi in tappe successive – preesiliche, esiliche e postesiliche –, intendono spiegare la ragione profonda dello stato in cui si è venuto a trovare Israele con l’esilio. Wénin la chiama «finzione storiografica».

Il libro si è formato per aggiunte successive. Durante il postesilio fu aggiunta la storia di Sansone e gli ultimi capitoli, tragici, della divisione interna in Israele.

La tragedia è dovuta alla mancanza di fedeltà all’alleanza che legava Israele a YHWH. Caduto nell’idolatria, Israele si è progressivamente allontanato da YHWH ed è caduto preda delle mire di conquista da parte dei popoli circonvicini.

Liberatori

Più che «giudici», i personaggi ricordati nel libro biblico sono dei «liberatori» provvisori del popolo dal predominio dei nemici, filistei in primo piano (ma anche ammoniti e moabiti).

Oltre a quelle di alcuni «giudici minori» sono raccontate le storie di liberatori che hanno a cuore la situazione del popolo e gli assicurano una pace provvisoria.

Per quanto riguarda i primi «giudici», compare nel libro uno schema ben preciso (c. Gdc 2,6-19), che poi scomparirà progressivamente, segno che Israele si avvia a una tragica decadenza senza rimedio.

Lo schema prevede le tappe seguenti: allontanandosi dall’alleanza, Israele cade nell’idolatria. YHWH lo abbandona allora nelle mani del nemico che lo attacca e lo opprime per anni.

Schiacciato dall’oppressione, il popolo chiama in aiuto Dio. Questi risponde al suo grido inviando un «giudice» che libera Israele nel corso di un combattimento vittorioso. Ma, dopo la morte di quel giudice, il popolo ricade nelle sue mancanze. Allora il ciclo riprende da capo: infedeltà, oppressione, grido, invio del giudice e salvezza.

Per i deportati in esilio, probabili destinatari della prima edizione del materiale letterario di Gdc, il messaggio doveva apparire chiaro. Nel quadro dell’alleanza stretta da Israele con YHWH, l’infedeltà causa infelicità e morte, mentre il ritorno a Dio porta salvezza e vita, poiché il Dio dell’alleanza è fedele e misericordioso.

L’idolatria ha procurato il disastro dell’esilio. Occorre diffidare dell’attrazione potente attuata dagli idoli del paese in cui Israele è esiliato e tornare a YHWH nella conversione.

Le integrazioni apportate nel postesilio (ad esempio, Gdc 2,20–3,6) assumono la parvenza di un monito: frequentando troppo da vicino i popoli circostanti, Israele potrebbe adottarne le divinità. Sarebbe allora causa della propria disgrazia, mettendo così in pericolo la propria sopravvivenza.

Il libro dei Giudici si presenta per Wénin come la storia di una progressiva decadenza della vita religiosa di Israele, che cade nella guerra civile.

Struttura di Giudici

Nel capitolo secondo del volume Wénin traccia un riassunto del libro dei Giudici e ne delinea la struttura.

Nel prologo (1,1–3,6) si narra la conquista del paese di Canaan sotto la guida di Giosuè e poi si introduce il seguito del racconto. Al tempo delle vittorie (Otnièl, Eud e Debora, 3,7–5,31) fa seguito l’inizio della decadenza (Gedeone e Abimèlec, 6,1–9,57). La situazione degenera (Iefte, 10,6–12,15) e spunta un salvatore che non salva, Sansone (13–16). Il libro termina con il caos e le tenebre (17–21), dove si annota la mancanza di un re e il fatto che ciascuno faceva ciò appariva giusto ai suoi occhi.

Lo spazio concesso ai vari personaggi passa da poche righe a interi capitoli. Wénin ne indaga il senso complessivo che se ne può evincere e che esporrà negli ultimi capitoli. La Bibbia non è un libro che presenti verità teologiche sempre cristalline e positive. Essa è lo specchio della nostra umanità e mostrare i difetti e le tragedie a cui giunge la natura umana insegna a prenderne visione con profondità d’animo in vista di saper controllare e guidare le forze oscure che possono condurre l’uomo al disastro.

Giudici espone la teologia classica della retribuzione. Se Israele fa il bene conosce la pace e la felicità; se, invece, si sottrae al suo impegno, precipita nella sventura.

Un aspetto meno scontato, però, è quello della sottolineatura della pazienza di un Dio misericordioso, il quale sempre spera che il suo popolo impari dai suoi errori e dalla scoperta della fedeltà misericordiosa del suo Signore.

Il libro constata, però, che il popolo ha il potere terribile di paralizzare il suo alleato divino, sostituendo alla Legge come norma di comportamento ciò che appare giusto ai suoi propri occhi.

Eroi improbabili

I «giudici» sono degli «eroi» improbabili e seguono una curva che si dissolve in una «perversione» progressiva.

Il generale Barak è alla vana ricerca della gloria (che sarà ottenuta da Debora e da Giaèle, due donne…).

Gedeone passa dalla paura e dalla reticenza iniziale al massacro dei madianiti e di due città israelite che si sono rifiutate di aiutarlo. Gedeone sprofonda in una violenza non necessaria.

Suo figlio Abimèlec ne seguirà le tracce, per rimpadronirsi di un potere che il padre inizialmente aveva rifiutato.

Iefte, bastardo figlio di una prostituta e cacciato dalla sua famiglia, cerca il potere ad ogni costo. Si autopropone come capo e provoca il re di Ammon alla guerra, tira in ballo YHWH come colui che ha dato un paese al suo popolo e lo coinvolge nella guerra. Il suo desiderio di potere è patologico, fino a promettere a YHWH di sacrificare la prima persona che uscirà da casa sua per incontralo. Manipola gli avversari e YHWH stesso. Non si fermerà neppure di fronte alla figlia e ai due mesi di riflessione che potevano fargli cambiare idea.

Non può essere lodato certo per la fedeltà alla sua promessa (anche se alcuni padri della Chiesa lo hanno fatto). Sansone è un salvatore che non slava, ma persegue i propri interessi personali, infilandosi in una serie di seduzioni, saccheggi, tradimenti, violenze e vendette.

Un popolo sempre più diviso

Nel capitolo quinto lo studioso annota come, nel corso del libro, il popolo appaia sempre più diviso: Gedeone combatte la potente tribù di Efraim e distrugge due città israelite, Succot e Penuel, che non lo avevano rifornito di cibo.

Abimèlek fa strage dei suoi fratellastri, combatte contro gli anziani di Sichem e rade al suolo la città. Il libro nota che è Dio a seminare la zizzania tra il re e gli uomini che lo hanno messo sul trono.

Le critiche rivolte al giudice da alcune parti di Israele appaiono come una chiave di lettura utile per far capire che YHWH ammonisce il giudice quando sta diventando una minaccia per il suo popolo perché comincia ad abusare del suo potere.

Sulle rive del Giordano Iefte sgozza 42.000 uomini della tribù di Efraim individuati dal loro accento regionale.

I cc. 19–21 narrano la guerra civile che si viene a instaurare quando ciascuno compie ciò che gli sembra giusto.

La tribù di Beniamino viene quasi completamente eliminata in quanto accusata dello stupro e dell’uccisione della concubina di un levita che aveva soggiornato a Gàbaa. Per provvedere le donne ai seicento superstiti, le tribù si alleano per assalire Iabes di Galaad che non aveva partecipato alla guerra (prendendo 400 donne) e permettendo il rapimento di altre donne uscite nelle campagne di Silo. Era stato formulato infatti un giuramento secondo cui nessuna delle tribù avrebbe fornito una sposa ai beniaminiti. Il mantenimento della promessa ha costi umanai molto alti…

Anche in questo caso si coinvolge YHWH. La quasi eliminazione di una tribù mostra come l’infedeltà a YHWH coinvolge anche i rapporti tra gli israeliti, la convivenza fraterna proposta dal Deuteronomio.

Le donne

Wénin dedica un capitolo del libro alle donne. Dall’intraprendente Acsa si passa a Debora che favorisce la vittoria su Sisara e quindi a Giaele che uccide materialmente il generale nemico.

A queste protagoniste della salvezza si oppongono le figure che seguono, soprattutto alla fine del libro. Esse sono vittime della follia degli uomini (ad esempio, la concubina del levita, violentata a morte e poi smembrata dal marito e inviata a pezzi alle varie tribù).

Compaiono la concubina del levita, le donne di Iabes e le fanciulle di Silo. Al centro del libro emergono figure di donne che fanno da transizione tra le protagoniste e le vittime. Spiccano in modo particolare la figlia di Iefte, la madre di Sansone e la madre di Mica.

La figlia di Iefte spera nel ravvedimento del padre distogliendolo dall’idolo del potere.

La madre di Sansone compare in una scena di annunciazione in cui il marito appare in un comportamento un po’ grottesco ma è riportato alla ragione dalla moglie.

La madre di Mika (cf. 17,1-4) riprende il denaro rubato di fatto dal figlio, me gliene ridà un quinto per fabbricare un idolo. La madre spinge il figlio all’idolatria, che provocherà presto la sua disgrazia. Un altro segno di decadenza inesorabile.

Le donne straniere compaiono soprattutto nella storia di Sansone, un vero «donnaiolo». La più famosa è Dalila, che lo porterà alla morte. Due saranno le donne che «al tempo dei giudici» (Rt 1,1) riapriranno l’accesso di Israele a YHWH: Rut la Moabita, vero e proprio Abramo al femminile (cf. Rt 1,16-17), e Anna, un’israelita sterile, immagine di un popolo destinato alla morte, che restituisce a YHWH la sua capacità di dare la vita, consacrandogli il figlio che avrà in dono da lui. È Samuele, l’ultimo giudice e il primo dei profeti.

In definitiva, anche le donne di Gdc testimoniano la deriva progressiva di Israele. Una figura emblematica è la figlia di Iefte: «cercando di proteggere la vita, la sua iniziativa si ritorce contro di lei quando il padre la sacrifica sull’altare di un potere tirannico» (p. 71).

Astuzia, manipolazione e violenza

Il libro dei Giudici è ricco di episodi di violenza, angherie, esecuzioni, guerre, stupri, rapimenti, sacrifici umani ecc. Gli episodi sono spesso preparati da atteggiamenti e parole di astuzia, inganno e di manipolazione. Presentati positivamente nei primi capitoli del libro, in quanto tesi a portare la salvezza a Israele, essi vengono man mano non valorizzati nel prosieguo del testo. Presentati sotto una luce sempre più negativa, rafforzano la linea generale del libro dei Giudici, che racconta la decadenza di Israele, per farne cogliere le varie sfaccettature.

Ci sono stratagemmi per facilitare un atto violento. Sono quelli approntati da Eud per uccidere il re nemico di Moab, raccontati persino con un filo di ironia e di disapprovazione nei confronti dell’entourage del re che non viene protetto adeguatamente.

Lo stratagemma di Giaele porta all’uccisione del generale nemico Sisara, e quindi viene lodato in quanto porta salvezza al popolo di Israele (tramite una donna!).

giaele

Gli inganni perpetrati da Sansone non sono lodati, perché non hanno per bersaglio un capo nemico, ma sono in vista di massacri collettivi, che non cambiano nulla nell’oppressione del popolo.

Ci sono poi inganni bellici per sorprendere il nemico. Sono posti in atto da Gedeone, che vince il nemico con soli 300 uomini divisi in tre schiere (e, in realtà, i nemici si autodistruggono da soli).

Abimèlec ricorre due volte all’astuzia per vincere i suoi ex alleati di Sichem, dividendo le sue truppe e accerchiando alle spalle il nemico. Stessa tattica usata dalle tribù coalizzate contro Beniamino e la città di Gàbaa (Gdc 20,29-36).

La manipolazione che spinge alla violenza è quella perpetrata da Abimèlec, che massacra i fratellastri per eliminare ogni potenziale rivale, e da Iefte che provoca alla guerra il re ammonita, coinvolgendo persino YHWH e il dono fatto delle terre a Israele dopo l’uscita dall’Egitto.

A quell’epoca Ammon non aveva cercato di togliere le terre a Israele, ma Iefte manipola la realtà. Per quattro volte Iefte il galaadita associa Dio al diritto di proprietà di Israele sul territorio rivendicato dall’ammonita. In tal modo egli fa della guerra che sta per scatenarsi un affare personale di YHWH, obbligandolo per così dire a intervenire per difendere i diritti di Israele.

Appellandosi al giudizio divino, Iefte spinge inoltre YHWH a schierarsi in una guerra che è importante per Israele, certo, ma soprattutto per Iefte e per il suo sogno di potere. Di fatto, quando il re ammonita rifiuta di ascoltare, lo spirito di YHWH scende su Iefte (11,29).

Gli esempi di manipolazione retorica destinata a favorire la violenza si trovano all’inizio e alla fine della curva negativa dell’evoluzione di Israele verso l’anarchia (Gdc 9 e 20). «Quando la parola non viene più messa a servizio di una pace possibile, ma spinge all’omicidio e alla guerra, la disumanizzazione si fa pericolosamente vicina!» (p. 81).

Raccontare la violenza

Il libro dei Giudici riporta dei racconti che presuppongono dei codici di lettura. Questi provvedimenti giocano con l’affettività del lettore – timori, desideri, attese, stupori ecc. –, in modo da portarlo ad apprezzare i «fatti» e i loro protagonisti in questa o in quell’altra maniera. Un racconto dà sempre una certa visione di quello che narra e, nel caso dei racconti biblici, una particolare visione di Dio.

Wénin illustra gli effetti che si intendono produrre negli episodi incentrati su fatti violenti. Il libro dei Giudici si rivela essere – secondo lo studioso – un capolavoro letterario, in cui l’arte narrativa è al servizio di un’etica e di una teologia.

Nell’episodio del giudice Eud che uccide con uno stratagemma il re ammonita mentre egli è ritirato per compiere alle sue funzioni fisiologiche, ingannando così la corte che non lo protegge e scopre tardi l’accaduto, si mira a conquistare il lettore con l’ironia.

Il racconto riporta tre «ed ecco» (resi solo una volta dalla CEI) che fanno aumentare la suspense. I cortigiani tergiversano fra loro, permettendo a Eud di fuggire dopo aver conficcato con la sinistra la sua daga fino all’elsa nel ventre grasso del re. Questo permette di non sporcarsi di sangue e di feci e di venire scoperto…

Il lettore cristiano può rimanere sconcertato, ma Wénin ricorda che, se Dio non ha nulla a che fare con la violenza, può essere il Dio degli uomini? «E se il lettore non riconosce con lucidità la propria complicità con la violenza, potrà mantenere il controllo su di essa?» (p. 85).

Nei confronti dei suoi concittadini Gedeone mostra invece il potere della parola. Il padre difende Gedeone che ha demolito l’altare dell’idolo. Affida a Baal la sua autodifesa. Il giudice chiamato da YHWH è così salvato e il lettore ne gioisce.

Al termine della sua vita Gedeone costruirà però un oggetto rituale con l’oro e l’argento tolti ai vinti. Un gesto ambiguo che indurrà il popolo all’idolatria (8,24-27). Dopo la sua morte, sarà addirittura il «Baal dell’alleanza» a diventare il loro dio (8,33-35).

Il racconto tragico di Iefte mira invece a suscitare la riprovazione e la riflessione. L’orrore del gesto finale è raccontato con sobrietà. Il lettore però comprende che Iefte sacrifica la figlia non tanto a YHWH, ma alla sua smisurata ambizione.

Le parole della figlia muovono il lettore alla compassione e mirano a indurre il padre a riconsiderare i suoi propositi nei due mesi che essa trascorrerà a piangere la sua verginità.

La focalizzazione del racconto non descrive il sacrificio della figlia, insistendo sull’atrocità, sull’olocausto e sull’immolazione, ma è tutto incentrato sulla prospettiva di chi lo compie. Iefte agisce freddamente; non «compì per lei» il gesto, ma per ironia tragica compie il gesto per sé stesso. Per Iefte non esiste una figlia, ma un animale da sacrificare.

Il lettore è scandalizzato e inorridito e, anche dopo il massacro attuata da Iefte nei confronti della tribù di Efraim che lo contesta, avrà materiale su cui riflettere circa le derive che minacciano chiunque ambisce al potere.

Altri racconti intendono suscitare nel lettore un atteggiamento di denigrazione di un personaggio. Questo accade per Iefte e il suo rapporto con gli efraimiti e per le scelte compiute varie volte da Sansone.

Gedeone aveva placato gli animi degli efraimiti, Iefte invece li rimprovera aspramente e ne fa una questione personale, attuando un massacro di 42.000 persone e suscitando l’orrore del lettore.

Sansone non corrisponde all’azione di YHWH in suo favore, ma assume atteggiamenti burleschi e une serie di ripetizioni annota che il suo atteggiamento sia incorreggibile, dal momento che egli agisce solo per interesse personale e non per la liberazione di Israele. YHWH si ritira da lui e non c’è motivo di pensare – afferma Wénin – che YHWH, alla fine, risponderà alla sua ultima preghiera (16,28).

La strana storia di Mica (Gdc 17–18) denuncia le derive con l’ironia. Mika assume un levita di Betlemme per farne un suo sacerdote personale, dopo aver consacrato illegalmente come tale uno dei suoi figli.

Il racconto ironizza ferocemente a scapito di Mica che pensa che YHWH gli farà del bene perché ora ha un sacerdote personale nel suo santuario privato. Alla fine, costruirà un idolo con parte del denaro rubato alla madre e che lei gli ha donato.

Alcuni esploratori daniti sono incoraggiati da Mica nel loro viaggio di esplorazione. Della città pensata come facilmente conquistabile, Mica afferma: «Dio ve l’ha consegna nelle mani!». Si torna a mescolare YHWH nella faccenda. L’idolatria è ormai divenuta fatto comune e normale in Israele.

Alla fine, i daniti trafugheranno i tesori oggetto di culto del santuario: efod, terafim e l’idolo. Mica insegue invano i ladri. Chi ha abbandonato l’alleanza per l’idolatria, è ora coperto di ridicolo agli occhi del lettore, il quale impara comunque che chi semina l’idolatria raccoglie violenza.

Il racconto può anche suscitare lo scandalo. È il caso del levita e della sua concubina, data letteralmente in pasto agli abitanti di Gàbaa, che la violentano a morte per tutta la notte. Con cinismo, al mattino il levita la fa a pezzi e manda i miseri resti alle tribù, che insorgeranno contro quella di Beniamino, arrivando quasi ad annientarla definitivamente.

Dopo un inizio lento e che faceva pensare a un atteggiamento positivo del levita verso la donna fuggita a casa dal padre per sfuggire al marito, si incappa violentemente con l’atteggiamento orribile tenuto dagli abitanti di Gàbaa e dal levita: una serie di atti ignobili e atroci, disumani, strumentalizzanti persino il cadavere della donna. Essa era rimasta sempre rimasta relegata ai margini. «Lo stupro e l’assassinio sono la logica conseguenza di una violenza che attecchisce nell’indifferenza e nel disprezzo degli uomini e nello sfruttamento della donna in funzione dei loro bisogni o dei loro desideri» (p. 93).

Diversi procedimenti fanno sì, quindi, che l’autore faccia vedere i «fatti» in un modo o nell’altro, così da suscitare emozioni, sorprese, suspense e sentimenti vari. Questi possono essere di approvazione o di denigrazione dei vari soggetti implicati.

Il libro dei Giudici si dimostra – secondo Wénin – un magnifico esempio della notevole arte narrativa che caratterizza molti racconti dell’AT.

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Dio e la complessità umana

Lo studioso dedica alcune pagine finali del libro alla ricezione di Giudici nel giudaismo antico, nel cristianesimo antico, nel Medioevo e ai nostri giorni.

Wénin rimprovera alla Chiesa di mostrare la Bibbia come un libro in cui Dio si rivela essenzialmente in Gesù Cristo, dove si trovano personaggi edificanti da imitare, un’etica da praticare, delle rivelazioni atte a nutrire la fede.

Se non falsa, questa visione è – per lo studioso – gravemente distorta, almeno per quanto riguarda l’AT. La Bibbia «è anche il libro che rivela qual è la nostra umanità, cui Dio si rivolge per salvarla: un’umanità capace di nobiltà, di generosità e di grandezza d’animo, come anche delle peggiori vigliaccherie, delle violenze più atroci, delle oscenità innominabili. La Bibbia dice quanto sia complessa la condizione umana e fa vedere quanto sia sottile la linea che separa la virtù dalla perversione. Essa denuncia le insidie delle apparenze, invita a essere sé stessi piuttosto che a imitare, confonde per mettere a nudo le certezze sterili ecc. È forse per non doversi confrontare con questa realtà – si domanda l’autore – che le Chiese ignorano ampiamente l’Antico Testamento, in particolare libri come quello dei Giudici, dove si manifesta più chiaramente quest’altra faccia delle Scritture?» (p. 100).

Quello che infastidisce sembra essere il fatto che la Bibbia non può essere compresa alla prima lettura, esige un approfondimento e che ci si interroghi davanti al testo e lo si studi.

Secondo Wénin, «la Bibbia ci costringe a vedere che Dio parla in essa solo se smettiamo di aspettare che ci serva verità predigerite e se rinunciamo a una forma di pigrizia spirituale, che consiste nell’attendere che le Scritture confermino senz’altro quello che pensiamo, quello che crediamo» (ivi).

Anche il libro dei Giudici può tornare a essere, come ai tempi dei Padri, un libro «alle sorgenti della vita della Chiesa» e dei fedeli.

Quale Bibbia? Scuola di lucidità: Dio e l’uomo

«Se questo libro è una scuola di lucidità, in cui si racconta la realtà umana senza nulla nascondere dei suoi difetti e della sua violenza – afferma l’autore –, non è forse vero che parla anche di un Dio “lento all’ira e pieno di amore misericordioso” verso questa nostra umanità?» (p. 100).

Nella sua conclusione (pp. 105-106), che segue alcune chiavi di comprensione della nostra cultura attraverso il libro dei Giudici (pittura, musica, letteratura e cinema) e precede la bibliografia, Wénin annota che il lettore si trova a rivedere la sua nozione di Bibbia, si ritrova nel cuore di una storia «umana, troppo umana», la storia di una inesorabile decadenza di un popolo che sprofonda poco a poco nell’autodistruzione. Le cause sono dovute al fatto della dimenticanza dell’alleanza che lega il popolo a YHWH.

Il popolo va verso ciò che lo soddisfa e non verso il fondamento della sua identità. Esso si trova intrappolato nelle apparenze e si rende schiavo dei suoi desideri e delle sue paure. I capi scelti da Dio per liberare Israele seguono invece l’attrattiva del profitto personale e della sete di potere, quando non dell’ebbrezza di una violenza più o meno evidente.

I racconti evidenziano come ci si prepara al fallimento e vogliono suscitare la lucidità e la responsabilità del lettore verso la propria storia. La Bibbia rivela chi è Dio, ma anche cos’è l’essere umano e ciò di cui è capace. Anche il credente non è immune dalla sorte degli altri uomini, capace anch’egli del meglio e del peggio, di abbandonarsi ai propri demoni, mentre crede di essere sulla strada giusta.

Dio però è misericordioso e paziente, rispetta la libertà degli uomini fino al fallimento, ma inventando sempre modi nuovi per arrivare alla strada dei cuori.

La realtà umana non è mai semplice. I racconti di manipolazione, di violenza sono composti in modo da far percepire la complessità dei modi di parlare e di comportarsi. Il racconto invita a valutare in modo positivo o negativo i comportamenti dei personaggi a seconda del fine perseguito da quelli che li adottano e del loro modo di attuarli.

In questo modo il lettore è invitato a valutare ciò che legge e ad affinare il suo senso morale e la sua coscienza della complessità umana. Occorre però «imparare a leggere i testi biblici rispettandone i codici originari, invece di volervi trovare quello che gli piacerebbe» (p. 106).

Un testo davvero affascinante questo di Wénin. Il suo metodo narratologico coinvolge come sempre il lettore in un percorso che fa gustare la bellezza dell’architettura narrativa dei testi, per giungere a risultati mai banali e scontati, ma che invece interrogano sulla profondità del cuore non solo di Dio, ma anche di quello di ogni uomo, quello di tutti i tempi.

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