Pierluigi da Palestrina moriva 425 anni fa

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Palestrina è un nome rimasto fino ad oggi sinonimo di musica sacra nella sua massima perfezione. In realtà è solo il nome di una località, di una piccola città, di circa 20.000 abitanti, adagiata pittorescamente sul limitare dei Monti Prenestini, a 37 chilometri ad est di Roma. Colui che l’ha resa famosa si chiamava Giovanni Pierluigi, a cui egli aggiunse “da Palestrina”. Morì il 2 febbraio 1594, 425 anni fa, all’età di 69 anni a Roma.

Il suo talento musicale si era manifestato presto. Formatosi come ragazzo corista presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, all’età di 19 anni assunse la direzione della musica sacra nella cattedrale della sua città natale. Ma non rimase a lungo in provincia. Quando, nel 1551, si cercò un “Magister cantorum” per la Cappella Giulia della basilica di San Pietro, il giovane, allora 27nne, si trasferì nella città eterna. E, se ricevette l’incarico senza la consueta procedura di esame, lo dovette al suo mecenate, il vescovo Giovanni Maria Ciocchi di Palestrina.

La grande considerazione che il vescovo aveva di lui, la si poté vedere poco più tardi. Quando Ciocchi, nel 1555, divenne papa – col nome di Giulio III –, lo chiamò a dirigere il coro della Cappella Sistina, aggirando ancora una volta la consueta procedura di esame.

Qui Palestrina divenne noto come compositore pubblicando alcune messe e un primo libro di madrigali.

La sua attività coincise con un’epoca di sconvolgimenti. Al Concilio di Trento (1545–1563) la Chiesa cercò di ricavare degli insegnamenti dalla Riforma. All’ordine del giorno aveva messo anche la musica sacra e si domandava quale ruolo doveva avere nelle celebrazioni liturgiche.

Al centro dei dibattiti c’era il rapporto tra Parola e musica. In quegli anni la tecnica usuale di composizione polifonica, che consisteva nel modulare artisticamente le voci, ostacolava l’intelligibilità dei testi. I riformatori chiedevano perciò una semplificazione della struttura musicale in modo che i fedeli potessero capire meglio la parola di Dio cantata. Dal punto di vista musicale ciò avrebbe significato un enorme passo indietro.

Per lungo tempo, corse voce che le forze decisive nel Concilio volessero abolire in maniera definitiva il canto polifonico nelle chiese. Ma Palestrina seppe impedirlo, dimostrando con la sua “Missa Papae Marcelli” che polifonia e comprensibilità dei testi non erano necessariamente in contrasto tra di loro. Ma non esiste l’evidenza storica di questa tesi, che anche Hans Pfitzer (1917) nella sua opera “Palestrina” ha continuato a sostenere.

Il fatto è che la musica di Palestrina toccò il nervo scoperto di quel tempo difficile, trovando amici e sostenitori anche tra i riformatori.

Dalla Sistina egli si trasferì alla basilica Lateranense e a Santa Maria Maggiore e, nel 1571, ritornò nella basilica di San Pietro. Qui rimase in attività fino alla morte – anche perché gli inviti avuti presso le corti di Mantova e di Vienna fallirono per la sua eccessiva richiesta salariale.

È difficile poter ignorare l’eredità musicale del Palestrina, costituita da circa 113 messe in 14 libri, 35 trasposizioni musicali del Magnificat, 72 Lamentazioni, 56 madrigali spirituali e 93 profani, oltre a mottetti, inni, canti alla Madonna e molte altre composizioni. Le sue opere vengono eseguite ancor oggi in tutto il mondo.

Ma l’influsso di Palestrina va ancora oltre. Grazie a numerosi studenti, il suo stile di composizione rimase a lungo un modello per la musica sacra, trovando accoglienza, dopo la sua morte, nelle scuole di composizione del barocco fino all’epoca del periodo classico viennese.

Una vera e propria rinascita del Palestrina avvenne verso la metà del 19° secolo. Franz Liszt, Charles Gounod, Johannes Brahms e Anton Bruckner nelle loro opere spirituali si sono tutti ispirati al suo modello. E Palestrina non ha perso nemmeno il favore dei papi: nella basilica vaticana, infatti, le sue opere fanno ancora parte di un permanente repertorio liturgico. (KNA)

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