À-dieu, Jean

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Jean Vanier, fondatore delle comunità dell’Arca, è morto questa notte all’età di 90 anni. Lo avevamo ricordato anche noi proprio in occasione di questo traguardo lo scorso mese di ottobre (I 90 anni di Jean Vanier). Ufficiale di marina e poi insegnante di filosofia, nel 1964 ha fondato la comunità dell’Arca – oggi diffusa in numerosi Paesi tra cui l’Italia – dove uomini e donne di ogni estrazione sociale condividono l’esistenza con persone in difficoltà. È cofondatore, con Marie-Hélène Mathieu, del movimento «Foi et Lumière». Ne facciamo memoria riconoscente sulle pagine di Settimana News riprendendo un suo scritto, frutto di una conferenza registrata durante un ritiro ad Aylmer, in Canada, pubblicato in un volume delle Edizioni Dehoniane Bologna (J. Vanier, Povero tra i poveri, EDB, Bologna 2014).

jean vanier

La debolezza e la sofferenza sono il grande scandalo delle nostre vite; tutti, per istinto, le rigettiamo. Solo quando scopriamo che nel cuore della debolezza e della sofferenza si trova la presenza di Dio, noi incominciamo a scoprire il vero mistero della sua vita.

Di fatto, quello che più ci ripugna è in realtà sorgente di salvezza. Io stesso l’ho sperimentato qualche anno fa con un amico colpito da un tumore al cervello. Era un giovane brillante, che preparava un dottorato in filosofia. Il suo mondo è crollato ed egli è entrato in una lunga notte. Uscendo da questa notte ha incominciato a capire. Dopo quella prova mi diceva: «Prima ero sicuro, filosofavo, vivevo nel mondo delle idee e dei libri. Ora non leggo più, sono incapace di vivere a livello delle idee; l’unica cosa che posso fare è incontrare delle persone». Aveva scoperto il mistero della sofferenza. Era necessario che il mondo da lui costruito crollasse, perché egli scoprisse i suoi veri doni e la sua vera vocazione. Doveva passare dai libri che amava, alle persone che non conosceva. Il tumore al cervello non era per lui solo una purificazione, ma una sorgente di salvezza, che gli ha fatto scoprire come il senso della vita è la compassione e l’incontro con gli altri.

Forza della debolezza

La vita comincia nella debolezza della nascita e termina nella debolezza della morte. In mezzo sta il pellegrinaggio, che è circondato da debolezza. La visione moderna della vita in gran parte si basa sulla filosofia nietzchiana, cioè sul rifiuto e, al limite, sul disprezzo della debolezza. Poiché essa è considerata come una realtà negativa, la nostra civiltà segrega i deboli dentro istituzioni. È l’opposto della visione evangelica, per la quale la salvezza si compie nella debolezza mia e quella degli altri.

Un giorno visitavo un istituto a Smith Falls: in una sala una quarantina di donne tra i diciassette e i venticinque anni, tutte con handicap mentali. La sala era chiusa a chiave, e quelle donne si cullavano tra di loro, non avendo altro da fare. Quando si è posti in simili situazioni, a volte si è costretti a di venire pazzi per difendere la propria vulnerabilità. Lo si creda о no, spesso la malattia mentale è una sorta di protezione, di difesa; ci si difende come si può. Dinnanzi a un malato mentale, di quelli chiamati cronici, spesso scopro che questa malattia è una corazza che protegge il bimbo che è in lui. Che cosa non sa fare un essere umano per proteggere il segreto della sua vulnerabilità!

Dinnanzi a tali malati io mi rallegro, non certo della malattia, ma del bimbo che in lui si nasconde dietro la corazza di difesa. Vedevo quelle quaranta donne che si cullavano, e sempre ricorderò una di esse che veniva verso di me e per un istante i nostri sguardi si sono incrociati. Da come camminava e parlava, vedevo che soffriva di paralisi cerebrale. Le chiesi il suo nome, con difficoltà mi disse che si chiamava Anny, che da molto tempo era stata abbandonata in quell’istituto. Era molto bella e delicata. Sconvolge il pensiero che quella ragazza rimarrà, forse, chiusa per sempre, perché era debole, senza difesa, perché non rispondeva alle norme stabilite dalla società, dalla famiglia, da non so chi. La nostra civiltà ha tanto esaltato il successo, il prestigio, la produttività, che un po’ tutti siamo caduti nella insidia di giudicare la vita umana unica mente sotto il segno della efficienza. Fin dalla giovinezza ci di cono che bisogna essere il primo. Non so quando mai ci si sbarazzerà di questa mentalità di successo nelle famiglie о nelle scuole cristiane. È un vizio profondo e dilagante. Un giorno una donna mi diceva che fin dall’età di dieci anni si sentiva perduta nella sua famiglia, come se i suoi genitori non l’avessero mai vista. Essa viveva all’ombra del successo dei fratelli e delle sorelle. Per lei la scuola non era per nulla un successo. Finalmente, all’età di dieci anni passò un esame in modo spettacolare. «Allora incominciarono a interessarsi di me e a volermi bene. E da allora – è più forte di me – devo sempre essere la prima e la migliore. Soffro terribilmente di questa mentalità ereditata dall’infanzia».

È conosciuto il senso di solidarietà tra gli indiani. Un giorno qualcuno, rivolgendosi a venticinque di loro, offrì un premio a chi per primo nominasse la capitale degli Stati Uniti. Tutti insieme fecero: glu, glu, glu. E poi, all’unisono cantarono: «Washington». Avevano un tale senso della comunità e del gruppo, che temevano di perdere la solidarietà tra di loro se avessero guadagnato il premio! Si può evidentemente esagerare, ma la nostra civiltà certamente ha esagerato in senso opposto.

Perdita del senso della vecchiaia

Il bisogno di produrre, di essere efficaci, ci ha fatto perdere il senso della vecchiaia e i vecchi non trovano più posto. Non abbiamo più il senso del vino che diventa buono invecchiando. A un abitante della Costa d’Avorio, che chiedeva la mia età, risposi: «Indovina». Allora mi disse: «Tu hai ottanta anni!». Voleva farmi un complimento. Per lui i vecchi sono coloro che hanno sapienza ed esperienza. Noi disgraziatamente abbiamo sostituito i vecchi con le biblioteche, al loro posto teniamo grossi volumi. Non è così in Africa: il vecchio è la memoria del popolo, è il saggio, colui che ha il senso della storia e della vita.

Già ho parlato di Maria Montessori, ricordando i suoi metodi educativi. Ma la cosa più importante non sono i metodi, ma il suo atteggiamento, il suo modo di guardare il bimbo. Per lei il dramma dell’educazione è pretendere di preparare il bambino su misura del mondo degli adulti, che sono scaltriti; ma il mondo dei bambini è forse più importante. Educare non significa riempire dei vasi vuoti con conoscenze e abitudini da adulti, ma significa aiutare il bimbo a scoprire la luce che è in lui, perché divenga un essere libero, capace di costruire un mondo nuovo.

Le qualità del bimbo

Quattro grandi qualità sorgono dalla debolezza del bambino. La prima è la fiducia. Il bimbo che si riconosce debole e che pone la sua fiducia nella saggezza del padre è la perla delle qualità, e forse solo il bambino la possiede. Non so a quale età la si perde, forse quando si ricevono dei doppi messaggi.

Una seconda qualità propria dell’infanzia è lo stupore. Il bambino che si meraviglia è poeta, che vede il bello della vita. Con gli anni viene lo spirito critico, il cinismo.

Anche la semplicità dell’infanzia merita ammirazione. È l’età nella quale ancora esiste l’unità, che più tardi si dividerà e sarà seme di divisione.

Infine, il bambino è pieno di gratitudine. Ci sono evidenti eccezioni, a volte piccoli diavoli, cattivi, egoisti, pieni di sé, furbi. Ma sono eccezioni. Essi sono già invecchiati prima del tempo.

Quando nel Vangelo ci viene detto di divenire come bambini, le qualità richieste sono la fiducia, lo stupore, la semplicità, la gratitudine, tutte qualità che nascono dalla debolezza.

Quando il bambino perde queste qualità, si rivolge alla efficienza e cessa di giocare. Per piacere ai genitori e nascondere la sua vulnerabilità, egli si sforza di divenire efficace. Si rivolge alla produttività, come se la cosa più importante nella vita fosse produrre con risultati, fino al giorno in cui diminuiscono le forze e egli diventa inutile con la vecchiaia. C’è molto da imparare dalla saggezza africana che, in fondo, è evangelica.

Ruolo della fragilità

La scoperta della propria fragilità e l’accettazione della propria debolezza è una delle grandi scoperte della vita, del senso umano della vita. Nella nostra debolezza le altre scoperte dispiegano la loro forza. Poiché sono ignorante ho bisogno della scienza degli altri, e così è a tutti i livelli. Se fossimo tutti potenti, non avremmo bisogno gli uni degli altri. Nel mistero del corpo di Cristo, ognuno possiede un suo dono: orbene, il dono implica una debolezza, io ho bisogno di lui. San Paolo parlando del corpo dice che il piede non dev’essere geloso dell’occhio. Evidentemente il piede deve accettare di non vedere, ma anche l’occhio deve sapere che non può molto senza i piedi.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri: il bambino della nonna, l’uomo della donna e viceversa. Siamo complementari, e la complementarità trova radice nella debolezza. Uno dei privilegi dei vecchi è che essi hanno tempo per ascoltare, per guardare. L’efficienza è sempre presa dall’immediato, non ha tempo per ascoltare. Il padre efficiente corre sempre, deve produrre, non ha tempo per ascoltare. Il nonno ha tempo, e lo prende per ascoltare i bambini.

Per diventare saggi occorre il tempo di riflettere, di ascoltare, di pregare. Per questo nel vecchio c’è una dimensione contemplativa. Purtroppo i vecchi non lo sanno. Nessuno dice loro come sono importanti nella città e nella Chiesa. Senza di loro il mondo diventa agitato, competitivo, un terreno di guerra. Bisogna saper ritrovare coloro che ascoltano, pregano e assumono la loro fragilità.

Noterete quanto si può comunicare attraverso la mano data a un vecchio. Più si diventa deboli e più si ha bisogno di toccare, di incoraggiarsi nel contatto. Non importano le idee, ma lo sguardo, la compassione, l’ascolto reciproco, il fare insieme piccole cose.

Noi siamo fatti di mani, testa e cuore. Una testa che impara, una mano che fa e un cuore che orienta. Quando sviluppiamo troppo uno a spese dell’altro, avviene lo squilibrio. È indispensabile per ognuno trovare un luogo di sviluppo per tutt’e tre. Ciò è vero per ogni individuo, è vero per la società. Se gli anziani non hanno più la mano e la loro intelligenza più non approfondisce, nella società occupano il posto del cuore, dell’ascolto, della saggezza, della pazienza, dell’offerta. È tragico che non si lasci occupare agli anziani il loro posto. Per questa sensazione di inutilità, alcuni di essi tendono a divenire scontrosi.

Il ruolo dei portatori di handicap

Ciò che dico per gli anziani vale anche per i portatori di handicap. Non abbiamo fatto scoprire a loro il posto importante che occupano nel mondo e nella Chiesa. Il mondo ha bisogno di loro, poiché se essi non vivono pienamente il loro handicap, qualcosa mancherà al mondo e alla Chiesa. Il servizio da rendere a persone anziane о con handicap è di aiutarli a scoprire la loro grazia. Abbiamo bisogno della loro preghiera, della loro delicatezza, della loro qualità di ascolto e di amore. Non è raro che persone handicappate giungano a una straordinaria maturità del cuore. Non sono certo compiti onorifici inutili, fuori dell’esistenza.

Mi ricordo una trasmissione televisiva fatta con Elena. Elena è senza gambe e non parla perché colpita da paralisi cerebrale. Durante la trasmissione alcuni telefonarono. Alla fine del programma qualcuno le chiese se è felice. Elena non parlava, ma sapeva scrivere a macchina. La macchina da presa punta su ciò che aveva scritto: «Non cambierei la mia vita per nulla al mondo!». Ed ella rideva. Alla fine del programma si poteva leggere anche un’altra parola meravigliosa: «Alleluia».

Quel giorno Elena ha insegnato a milioni di spettatori che, anche se senza gambe e muta, aveva una intelligenza viva, nonostante la paralisi cerebrale. Ella possedeva l’essenziale: la gioia nel cuore. Camminava nello Spirito e viveva con la parola di Dio. Per lei il denaro, gli amici, i piedi, la parola, non erano l’essenziale, non ne aveva bisogno per la sua gioia.

Un portatore di handicap non può nascondere che non ha gambe, che non parla. I «normali» vivono con degli handicap per lo più nascosti: gli handicap del cuore e dello spirito. Persone vecchie e con handicap possiedono una saggezza che deriva dall’accettazione dei loro limiti: hanno imparato a vivere con la loro fragilità, non combattono contro i loro corpi, ne accettano il ritmo.

Nella nostra casa di Bangalore, in India, trovammo un giorno un adolescente morto in fondo al pozzo. Per una comunità giovane com’era la nostra, fu un colpo duro. Come stranieri ci sentivamo piuttosto in colpa. Arriva il padre insieme a un indu e, dopo la prima emozione, egli fa questa riflessione: «Se un’opera è da Dio, bisogna che muoia un giusto». Le radici sono sotto terra, invisibili, ma da loro l’albero prende nutrimento.

Sempre sotto terra stanno le radici della Chiesa, di una società che voglia vivere nella verità: sotto terra, cioè nel sacrificio, nella accettazione della propria situazione.

Io so molto bene di non essere che l’estremità di un tubo donde esce un po’ d’acqua, ma sono altri che Quando uno nella Chiesa prende la parola, coloro che fanno il lavoro vero sono quelli che accettano di vivere con Gesù nel mistero del dolore. Al fondo di ogni attività della Chiesa sta sempre la contemplazione della sofferenza, la contemplazione che scaturisce dal sacrificio.

Vi dico cose tradizionali, non le ho inventate io. Già le diceva Isaia, parlando del Servo sofferente, che ha preso sopra di sé i peccati del mondo, la sofferenza, colui che è stato trafitto. Ciò che il mondo crede più terribile e più inutile, in realtà è la fonte della salvezza. Sì, le radici della Chiesa e dell’umanità sono gli anziani che accettano la loro condizione, i malati nel loro letto, tutti coloro che accettano la sofferenza, coloro che sono feriti nello spirito, i coniugi abbandonati, quelli che hanno figli delinquenti, drogati.

I carismi della Parola, dell’amministrazione e del governo non hanno valore nella chiesa che in forza di coloro che sono le radici, che vivono il mistero della compassione di Maria nel cuore della Chiesa.

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