Cosa significa «diritto a non emigrare»?

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Sull’onda nazional-populista che attraversa questo momento storico, e non solo in Italia, non c’è molto da commentare. Da una parte, essa deriva da un generale senso di malcontento nei confronti della politica e della direzione sociale, economica e politica imboccata dall’Europa; dall’altra parte, questo sentimento fortemente imperniato sull’emotività e sulla paura nasce e si sviluppa anche in altri ambiti, nelle situazioni di incertezza.

La «società dell’incertezza»

La frantumazione delle identità personali e collettive, generata dal crollo dei grandi sistemi di verità che, fino a qualche decennio fa, rappresentavano un criterio di interpretazione della realtà, ha dato avvio a un’epoca che è già stata definita «liquida» ma che, sempre Bauman, ha ancor meglio chiamato «società dell’incertezza».

Infatti, se non abbiamo più criteri e idee capaci di generare senso e significato, e le istituzioni connesse a questi sistemi di verità – dalla famiglia allo Stato, dalla politica alla Chiesa – soffrono di una mancanza di credibilità e non sono più istanze di riferimento, allora tutto diventa «soggettivo», cioè demandato alla scelta del singolo.

Questo «eccesso» di libertà e di democrazia, per quanto apparentemente bellissimo, ha un risvolto tragico: la coscienza del singolo è appesantita e, dovendosi ridefinire su ogni aspetto della vita quasi quotidianamente, alla fine sfocia nella perenne incertezza.

Oggi, per molti versi, tutto diventa fluido, mobile e incerto. Il tramonto delle forti ideologie politiche, per quanto necessario e salutare, ha prodotto un’apatia per la cosa pubblica, spesso trasformatasi in vera e propria antipolitica; l’impegno collettivo lascia il posto all’esaltazione del privato; la rinuncia alla fatica per coltivare i legami sociali indebolisce il senso di comunità; in generale, si assiste a una crisi generalizzata, che rende nebulosa la nostra direzione e alimenta la crisi di identità.

Nell’incertezza, si sa, a crescere è il senso della paura. Il mutamento incessante del nostro mondo, a cui tutti siamo sottoposti, inizia a spaventare. Molti soffrono – anche quando non sanno tematizzare tale sofferenza e non sanno chiamarla per nome – perché nella frenesia di tanto dibattere quotidiano non sanno chi sono e verso quale direzione sta camminando la loro vita e la loro epoca. In questa incertezza cresce la paura e quest’ultima, attraverso il luogo per eccellenza della comunicazione e dello scambio, cioè i social, cresce, si ingigantisce, crea convinzioni spesso fondate sul nulla, alimenta pregiudizi e stereotipi, fa procedere per luoghi comuni e, infine, crea un vero e proprio sentimento «anti-sistema».

Adesso – e francamente se la cosa non fosse seria verrebbe da ridere – tutti vogliono più nazionalismo, più patriottismo, più confini, più soldati, più moneta nazionale. E, naturalmente, meno immigrati. Tutto questo, in un mondo diventato plurale, interculturale, globalizzato a tutti i livelli. Praticamente, il sentimento nazional populista è una favola raccontata da esperti e furbi narratori, che costruiscono un’idea di società inesistente e impossibile, ma rispondente ai desidera di chi ascolta. Populismo, per l’appunto.

Cosa vuol dire veramente «diritto a non emigrare»

La questione dei migranti – unico argomento della perenne campagna elettorale in atto in Italia – si iscrive in questa cornice. Il papa non smette di far sentire la sua voce ma, per l’appunto, nel cicaleggio social ci si deve anche sorbire di leggere che il primo utente che capita, magari appena uscito dal bar, dica con convinzione estrema che questo Papa tradisce la dottrina o è un alleato di Soros.

Anche la Chiesa Italiana ha una posizione chiara sulla questione e le voci di protesta non sono mancate. Tuttavia, c’è sempre qualche «distinguo», che esige un chiarimento in termini dottrinali.

Possiamo finalmente affrontare la questione dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa e finalmente smentire il teorema secondo cui l’espressione di Benedetto XVI sul «diritto a non emigrare», tradotta sul piano politica significherebbe «chiudere i porti e i confini»?

Partiamo da Benedetto. Nel contesto di un Messaggio per la Giornata del Migrante e del Rifugiato, il papa tedesco parlò anzitutto della speranza che anima il cuore di chi parte; della loro sofferenza che deve incontrare sempre l’ospitalità e l’accoglienza; dell’attenzione della Chiesa e di ogni cristiano verso i propri simili, soprattutto quando sono emarginati e vittime della povertà o della violenza. Poi disse che, naturalmente, come già aveva detto Giovanni Paolo II, esiste un diritto per queste persone, che è quello di non dover abbandonare la propria terra e, anzi, di poter stare bene nella loro Patria.

Ritengo che la strumentalizzazione di questo passaggio sia a dir poco scandalosa: Benedetto XVI afferma il diritto di questi popoli di poter vivere in condizioni di buona qualità di vita nella propria Patria, pensando soprattutto al dolore e alla fatica di queste partenze, ma anche a quelle situazioni di ingiustizia economia e sociale mondiale che li costringono a emigrare. Tanto è vero che egli cita Giovanni Paolo II: «Diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione».

Ribadisco: diritto che diventa effettivo solo se i fattori che spingono all’immigrazione vengono regolati. E Benedetto, subito, aggiunge che purtroppo chi parte lo fa per una precarietà economica e politica, che lo costringe alla mancanza perfino dei beni più essenziali. Dunque, questo diritto viene negato; loro partono e noi abbiamo un unico dovere: accoglierli e integrarli. Questo è cristiano, il resto è populismo.

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Ciò che afferma la dottrina sociale della Chiesa

La dottrina sociale della Chiesa, poi, non parla neanche di questo diritto. Al contrario, un paragrafo di Octogesima Adveniens, lettera apostolica proprio dedicata alla dottrina sociale della Chiesa, al numero 17 afferma il diritto a emigrare, affermando circa gli stranieri che: «È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca un diritto all’emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione professionale e consenta ad essi l’accesso ad un alloggio decente, dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie».

Lo stesso Pontefice, nell’enciclica Popolorum Progressio, afferma: «Noi non insisteremo mai abbastanza sul dovere dell’accoglienza – dovere di solidarietà umana e di carità cristiana – che incombe sia alle famiglie, sia alle organizzazioni culturali dei paesi ospitanti. Occorre, soprattutto per i giovani, moltiplicare le famiglie e i luoghi atti ad accoglierli. Ciò innanzitutto allo scopo di proteggerli contro la solitudine, il sentimento d’abbandono, la disperazione, che minano ogni capacità di risorsa morale, ma anche per difenderli contro la situazione malsana in cui si trovano, che li forza a paragonare l’estrema povertà della loro patria col lusso e lo spreco donde sono circondati».

Di certo, in questi e altri messaggi, compreso ciò che afferma il Catechismo della Chiesa cattolica, spetta alle politiche nazionali e internazionali la regolazione dei flussi migratori e l’attuazione di azioni mirate al bene comune e alla sicurezza, nel rispetto della dignità di ogni persona umana. Tuttavia, soprattutto in certi momenti storici, la regola aurea del cristiano, in conformità con l’ospitalità offerta da Dio in Gesù Cristo a ogni uomo senza distinzioni, è quella dell’accoglienza e di fare il possibile per praticarla.

Giovanni Paolo II, infatti, nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni del 1987, afferma: «I Paesi ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra i Paesi ricchi e quelli poveri, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande».

Anche papa Francesco ha parlato di «prudenza, saggezza e lungimiranza» per valutare fino a che punto un Paese può accogliere i migranti; ma, tuttavia, ciò andrebbe fatto restando «con il cuore aperto», coltivando quella carità cristiana, che è al centro del Vangelo e, soprattutto, senza cavalcare il tema per fini politici e lanciando alla società messaggi di discriminazione e di razzismo.

Sotto la Parola di Dio

La Chiesa non parla da sé. Su questo come su altri temi annuncia il Vangelo, che si compendia nell’apertura del cuore da parte del Figlio di Dio verso ogni uomo, e specialmente verso il povero, l’emarginato e lo straniero. Gesù irrompe sulla scena annunciando il volto di un Dio amore che si prende cura di ogni uomo e annuncia un regno di giustizia, di fraternità e di pace. Sovvertendo l’immagine del Dio della religione, egli annuncia, non senza scontrarsi con gli scribi e i farisei, che serve e ama Dio colui che serve e ama il proprio fratello più piccolo. Ecco perché alla fine, saremo giudicati sull’amore: «Ero straniero e mi avete accolto».

Nessun cristiano, prete, vescovo o cardinale può affermare diversamente. Perché la Parola di Dio è superiore a tutto, e tutti siamo posti in obbedienza sotto di lei. Con buona pace di chi sventola rosari e immaginette e disprezza i nostri fratelli immigrati.

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6 Commenti

  1. don Francesco Cosentino 21 gennaio 2019
  2. Daniele Gianotti, vescovo di Crema 19 gennaio 2019
    • don Francesco Cosentino 21 gennaio 2019
    • Angela 21 gennaio 2019
      • Francesco 22 gennaio 2019
  3. Claudio Guidi 18 gennaio 2019

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