Vescovo nel terremoto

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Domenico Pompili, vescovo di Rieti, durante la celebrazione ad Amatrice, 24 settembre 2016

Domenico Pompili, vescovo di Rieti, durante la celebrazione ad Amatrice, 24 settembre 2016

Domenico Pompili è vescovo di Rieti. Accumoli e Amatrice, tra i comuni maggiormente devastati dal terremoto, sono nel territorio della sua diocesi.

– Come cambia il “mestiere” di vescovo dopo un terremoto?

Il terremoto non cambia il “mestiere” del vescovo, ma stravolge il contesto in cui si trova ad essere pastore. Non si può certo fare finta che nulla sia accaduto. A un mese dalla tragedia, la nostra comunità è ancora nel momento della sofferenza per la perdita dei legami affettivi e familiari. Come Chiesa siamo chiamati a stare accanto, ad accompagnare chi affronta il dolore. E insieme dobbiamo dare coraggio, mostrare il fondamento della speranza. La ricostruzione delle case deve procedere, ma ha senso solo se fatta in parallelo con la ricostruzione delle vite e degli animi delle persone colpite dal terremoto. Sono dimensioni distinte, ma non separate: l’una sostiene l’altra.

– A distanza di settimane dall’evento cosa chiederebbe ai volontari e a quanti sono disposti a dare una mano?

Intanto bisogna dire che il terremoto ha portato alla scoperto una generosità enorme. Sin dalle prime ore si è fatto avanti un grande movimento di persone e di organizzazioni pronte a contribuire e prestare soccorso. In pochi giorni sono arrivati generi alimentari e di prima necessità in abbondanza. E grazie alle offerte in denaro è possibile continuare a sostenere i piccoli e grandi bisogni della popolazione. Spero che questo entusiasmo non venga meno: è fondamentale assumere l’idea di un coinvolgimento prolungato. I problemi aperti dal terremoto non si esauriranno nel giro di un mese, la ricostruzione richiederà molto tempo. Ai volontari chiedo di restare in ascolto, di conservare lo slancio, perché i momenti difficili sono tutt’altro che superati.

– Delle molte e drammatiche storie riportate dai media, quali le sono rimaste particolarmente impresse?

Ci sono molti volti, molti nomi che non tornano all’appello. Mi vengono in mente la moglie, il figlio e la figlia del fornaio, ragazzi di qui, tante persone… ripenso alle tre suore rimaste schiacciate sotto le macerie perché si erano attardate per dare una mano agli anziani. Ma mi hanno colpito soprattutto quelle storie in cui la condizione di difficoltà si è convertita in qualcosa di più luminoso e inedito. Penso all’incontro con una coppia inglese, arrivata ad Amatrice pochi giorni prima del 24 agosto, che nel sisma ha perso un figlio. Mi raccontavano non tanto di questa perdita, quanto piuttosto dell’accoglienza che avevano sperimentato in quel contesto. Quasi che questa forma di vicinanza, non dico occultasse il dolore, ma in qualche modo aprisse la porta su un’altra dimensione. Mi ha sorpreso come il limite, il dolore, la morte, mettano inaspettatamente in gioco qualcosa che è il loro esatto contrario. Un rovesciamento che ho notato innumerevoli volte in quei giorni terribili.

– Terra matrigna o uomini inaffidabili? Quali sono le parole di consolazione più efficaci per i colpiti?

Siamo un po’ tutti impreparati di fronte a grandi tragedie come è quella di un terremoto che uccide e distrugge in un attimo. Ma il tema della prevenzione ritorna sovrano: occorre affrontarlo seriamente una volta per tutte, altrimenti ci troveremo sempre a contare i morti e a recriminare, a lasciarci prendere dallo sdegno e dall’emozione. Davanti al dolore devastante che prova la gente, non è facile consolare. Anche un vescovo si chiede perché. È umano: Gesù stesso, sulla croce, domanda al Padre perché lo ha abbandonato. E la sensazione di abbandono è proprio quella che avvolge le persone colpite. Nello stare accanto alla gente che in un attimo ha perso tutto si prova una sorta di stordimento. Dare libero spazio al dolore e alle lacrime aiuta. Talvolta, proprio nel pianto incontriamo nuovamente Dio, e lo scopriamo innocente per i mali causati dall’imprevedibilità delle situazioni e dalla nostra incuria.

– La ricostruzione è terreno fertile per le innovazioni, ma anche per le possibili infiltrazioni malavitose? A suo avviso le istituzioni ne sono consapevoli? Sono attrezzate?

Mi pare che la consapevolezza di questi problemi nel nostro paese sia in crescita, e questo è già di aiuto. Finora lo Stato ha agito con serietà: la “macchina” dei soccorsi ha funzionato molto bene, mi auguro che si continui in questo modo anche nella ricostruzione. Di sicuro non c’è da abbassare la guardia, perché la ricostruzione richiederà molti soldi e questi sono una straordinaria calamita per il malaffare. Il tempo della ricostruzione richiederà una vigilanza diffusa, un compito dal quale nessuno dovrebbe sentirsi escluso.

– Quali vizi e quali virtù emergono nell’emergenza del terremoto?

Talvolta si è fatto avanti il vizio di far scivolare le responsabilità, la facile ricerca di un capro espiatorio. Mentre in questo paese dei terremoti, la lezione imparata meglio è quella della solidarietà. Abbiamo una virtù straordinaria nella capacità di aiutare chi è rimasto senza più nulla. Stavolta speriamo di superare il vizio della prevenzione quasi inesistente e delle ricostruzioni tardive e costose, che poi finiscono sul tavolo dei magistrati.

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