Abitare la tensione: oltre una Chiesa immobile e autoreferenziale

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L’intervento nasce dalla lettura del post di Brunetto Salvarani (27 aprile 2018) che commenta il testo di Marco Marzano il quale definisce la Chiesa immobile, criticando l’inefficacia ad oggi del pontificato di Francesco.

Io stesso mi sono trovato in conferenze e dibattiti girando per l’Italia dove, attraverso analisi di taglio sociologico e statistico, si criticava l’operato del papa, sempre nell’ottica di un tradimento delle aspettative generate nei suoi discorsi e documenti, oltre al giudizio di non reggere il confronto sul piano intellettuale con i precedenti pontefici.
Personalmente trovo questi giudizi infondati, in quanto mal posti e frutto di ignoranza su alcune conoscenze proprie delle teorie della leadership e del management. Scrivo questo perché non si può giudicare l’efficacia di una riforma all’interno di una qualsiasi organizzazione – e questo vale anche per la curia romana e la Chiesa in genere – senza tener conto di queste conoscenze e limitandosi a fornire dei dati o sottolineare gli elementi di resistenza. Temo che la maggior parte di queste critiche provengono da studiosi che non ha mai guidato processi di cambiamento organizzativo e non ne comprende le dimensioni di fondo.
Brevemente cercherò di indicare alcuni elementi chiave di questi apporti teorici e di rileggerli alla luce del magistero attuale. Mi scuso in anticipo delle semplificazioni che dovrò operare, ma ritengo comunque utile aprire la riflessione a queste dimensioni. Mi si perdonerà anche il linguaggio che potrebbe sembrare in alcuni punti meno pastorale e più tecnico.

Guidare il cambiamento

La gestione del cambiamento all’interno di un’organizzazione rappresenta una delle sfide più difficili che un leader si trova a dover guidare. Statisticamente il 70% dei tentativi di cambiamento organizzativo fallisce e uno dei fattori determinanti è l’attivarsi inevitabile di forti resistenze interne all’organizzazione stessa. Tuttavia, quando un ente si trova ad agire in un ambiente non semplicemente complesso e incerto ma profondamente diverso dal passato (come papa Francesco ripete spesso non viviamo in un’epoca di cambiamento ma assistiamo ad un cambiamento d’epoca), non sono sufficienti dei piccoli aggiustamenti per la sopravvivenza.
Di fronte ai mutamenti della realtà, infatti, si può agire in tre diversi modi: in modo reattivo, cercando di reagire ad essi spesso attaccandosi alle proprie abitudini che, non essendo più riconosciute dal contesto, portano inevitabilmente alla morte e al non essere più generativi; in modo adattivo, con aggiustamenti che permettono di restare a galla e non affondare, ma anche questo porta gradualmente a perdere credibilità e forza; oppure in modo pro-attivo e creativo, uscendo dai vecchi paradigmi non più funzionali e generando nuovi modelli e stili.
Non è un caso che papa Francesco non si limiti a dire che l’azione della Chiesa deve assumere uno stile missionario. Distingue, infatti, tra due forme di missionarietà, elemento chiave per comprendere Evangelii gaudium: il cambiamento da assumere non è quello di una missionarietà programmatica ma di una missionarietà paradigmatica (Incontro con i vescovi responsabili del CELAM, Rio de Janeiro, domenica 28 luglio 2013): «Il “cambiamento delle strutture” (da caduche a nuove) non è frutto di uno studio sull’organizzazione dell’impianto funzionale ecclesiastico, da cui risulterebbe una riorganizzazione statica, bensì è conseguenza della dinamica della missione. Ciò che fa cadere le strutture caduche, ciò che porta a cambiare i cuori dei cristiani, è precisamente la missionarietà. Da qui l’importanza della missione paradigmatica».
Ci sta dicendo che, per operare un mutamento profondo ed efficace di un’organizzazione, in linea con le teorie sistemiche del cambiamento, non basta operare ai livelli più alti, struttura e processi, ma prima di tutti ai livelli più profondi: i modelli mentali, i pensieri che hanno generato e tengono in piedi le componenti più superficiali. Sono i pensieri che creano le strutture ma successivamente capita che queste tengano prigionieri gli essere umani che le hanno prodotte.
Ecco anche l’insistenza di papa Francesco, rispetto alla riforma della curia, nel dire: «È necessario ribadire con forza che la riforma non è fine a sé stessa, ma è un processo di crescita e soprattutto di conversione. La riforma della curia non si attua in nessun modo con il cambiamento delle persone – che senz’altro avviene e avverrà – ma con la conversione nelle persone. La riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini “rinnovati” e non semplicemente con “nuovi” uomini. Senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano” (Discorso di Natale alla curia romana, 22 dicembre 2016).
Un semplice cambiamento programmatico ci porterebbe al mettere in atto azioni reattive o adattive, rimanendo sempre dentro un paradigma, un linguaggio e uno stile non più comprensibile al mondo e non più efficace. Peggio ancora, si andrebbe ad appesantire la struttura e aumentare la complessità: alle tante azioni che già le parrocchie e le comunità compiono se ne aggiungono altre di carattere missionario.
Il cambiamento paradigmatico non ci chiede di fare cose nuove, ma di fare nuove le cose! Ci chiede anche di lasciare alcune prassi non più significative, di semplificare: «Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (EG 35). Perché questa è l’unica missione della Chiesa: annunciare a tutti il Vangelo in modo gratuito e disinteressato. Anche l’attenzione sui risultati (numeri, statistiche, adesioni), se interpretati dentro il vecchio paradigma, non è di nessuno aiuto e porta solo a sviluppare azioni reattive, una “pastorale di trincea”.
Questa è l’unica strada per un cambiamento reale e significativo ma ancora più di carattere generativo. Ciò che c’è in gioco, non è un semplice cambiamento funzionale, organizzativo, un modo di gestire la Chiesa. Ciò che è in gioco è un cambiamento pastorale, cioè un modo di essere Chiesa nel mondo. Solo così si può tornare ad essere non solo una realtà credente ma anche una realtà credibile (il tema della credibilità è al centro dell’ultima opera del teologo francese Theobald, citato anche da Salvarani, Urgences Pastorales).

Abitare la tensione

Veniamo al cuore della dimensione missionaria. Divenire “Chiesa in uscita” vuol dire attivare un dinamismo che è proprio della Chiesa. Quando essa perde questo suo dinamismo, mette in discussione la sua propria natura (Ad gentes 2). La criteriologia pastorale proposta da papa Francesco mi sembra quanto mai efficace. Si tratta dei binomi che lo stesso Salvarani propone al termine del suo articolo.
Vorrei precisare che quello che sta a cuore a papa Francesco nel proporre i binomi non è il singolo elemento che prevale sull’altro ma la tensione che si genera tra di essi. È la tensione l’elemento chiave. Facciamo un esempio: la realtà supera l’idea. Questo non vuol dire che l’idea non sia importante. La dimensione ideale è fondamentale per mettere in atto il superamento di una realtà che opprime o che è ingiusta. Ma solo se la realtà la supera, e cioè, se si dà più peso a questa dimensione l’idea acquista valore e diviene generativa e non si riduce ad un’ideologia. Attraverso questo disequilibrio l’idea si sana e si riconcilia con la realtà.
E questo vale per tutti gli altri tre elementi. È grazie all’unità che il conflitto diviene contributivo e non divisivo, è grazie al tutto (una visione sistemica) che la parte acquista dignità e valore benefico per tutti, è grazie al tempo che lo spazio diviene luogo ospitale e dono e non possesso.
Se nel binomio ci fosse equilibrio, cioè, se si desse pari valore alle due dimensioni, come tempo e spazio, si resterebbe immobili. È proprio il dare più peso ad una dimensione, senza trascurare l’altra ma proprio attraverso l’altra, che si genera tensione, movimento, cambiamento.
Permettere alla Chiesa di non restare immobile, è quindi accogliere la sfida di abitare tali tensioni, operando un cambiamento che deve passare dall’interno all’esterno, dai modelli mentali alle strutture.
E non dipende solo da papa Francesco, dipende dalla conversione (termine chiave del cambiamento delle strutture ecclesiastiche), che prima deve attuarsi in ognuno di coloro che operano nella Chiesa, a tutti i livelli (centralità della formazione), sapendo guardare oltre i propri schemi e riconnettendosi all’essenzialità del Vangelo, alla realtà, all’uomo.

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