Gli abusi nelle Chiese e la Chiesa italiana

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Fino a oggi la questione degli abusi e di violenze sessuali nella Chiesa italiana non ha ancora assunto un profilo sistemico. Non che non ci sia nulla, basterebbe tenere conto dei casi “sporadici” che vengono riportati dai media per rendersi conto che anche la Chiesa nostrana non è estranea a cattive gestioni, decisioni inopportune o improprie, meccanismi di rimozione e occultamento.

Ma appunto, la questione non è ancora diventata sistemica – nel senso di imporsi alla coscienza collettiva del paese (e anche delle comunità parrocchiali), da un lato, e di rappresentare un punto di non ritorno nel pensare la presenza pastorale del cattolicesimo sul nostro territorio, dall’altro.

Vale la pena di ricordare che i due processi sinodali maggiori in atto, in Australia e in Germania, sono stati avviati soprattutto a motivo della cesura radicale provocata dalla peccaminosa collusione dell’istituzione ecclesiale con quell’abisso magmatico che sono gli abusi e le violenze compiute al suo interno – con la conseguente, drammatica e giustificata, perdita di fiducia da parte della gente nei confronti della Chiesa e delle sue attività (anche quelle più benemerite).

Il fatto che in Italia non si sia (ancora) arrivati a questa situazione di rottura, a questo sbriciolamento della fiducia verso un’istituzione che vive di fede, non significa automaticamente che, quasi per miracolo, le istituzioni e le attività della Chiesa italiana non siano stati luoghi, spazi, tempi, di coltivazione e pratica di abusi e violenze nei confronti di minori, adulti vulnerabili, e altre persone.

Guardando a quanto fatto in altre Chiese, pur con tutti i limiti e i ritardi che ancora si devono registrare, la Chiesa italiana avrebbe avuto sia il tempo per attrezzarsi a dovere, sia la possibilità di attingere a pratiche già assodate altrove per anticipare l’eventuale esplosione mediatica della questione degli abusi qui da noi. Avrebbe, cioè, avuto l’opportunità, a differenza delle altre Chiese, non semplicemente di reagire davanti all’inevitabile, ma di accompagnare attivamente un processo di emersione, chiarificazione, denuncia, degli abusi e delle violenze avvenute al suo interno.

Sempre guardando alle altre esperienze, e ad altre Chiese cristiane come quella anglicana per esempio, bisogna dire che quella italiana è rimasta sostanzialmente immobile, senza una strategia, gestendo tuttalpiù i casi singoli senza però pensare in chiave sistemica – appunto. Magari perché immagina una improbabile eccezione virtuosa del clero e del personale impegnato nella pastorale – illusione che rischia di essere pagata a caro prezzo.

Eppure, basterebbe guardare appena oltre la soglia di casa per intuire che non si può rimanere in una stasi eterna sperando che non succeda niente di troppo clamoroso. È di questi giorni l’accusa rivolta al card. Marx, arcivescovo di Monaco, e al presidente della Conferenza episcopale tedesca e vescovo di Limburg , mons. Bätzing, di essere venuti meno a doveri di ufficio nella gestione di casi di abuso nella diocesi di Treviri (di cui Marx è stato vescovo dal 2002 al 2008 e Bätzing vicario generale prima di essere nominato vescovo di Limburg).

Entrambi hanno riconosciuto di aver compiuto degli errori, in particolare per riferimento a un caso preciso. Qualcosa di analogo ha riguardato mons. Stefan Heße, attualmente vescovo di Amburgo che ha rassegnato le sue dimissioni al papa il quale ha deciso di prendere del tempo concedendo a Heße un periodo sabbatico, per riferimento alla sua attività nella diocesi di Colonia prima come direttore del personale e poi come vicario generale.

Questo solo per ricordarci che c’è tutta un’ampia fetta di personale ecclesiastico, anche in Italia, che, ricoprendo o avendo ricoperto incarichi di responsabilità a livello diocesano, si trova a operare in un settore estremamente delicato per ciò che riguarda gli abusi, le violenze, e la loro gestione – più o meno adeguata.

Errori sono stati commessi e, pur con tutta l’accresciuta consapevolezza e sorveglianza di oggi, se ne potranno commettere ancora – e anche in caso di buona fede, non si può evitare il fatto di un comportamento inadeguato davanti a uno o più casi di abuso da parte di chi ha responsabilità nella Chiesa.

Questa intrinseca fragilità, che permea anche la migliore intenzione di una risposta adeguata da parte dell’istituzione ecclesiale agli abusi e alle violenze al suo interno, dovrebbe suonare come un campanello di allarme per la Chiesa italiana. Dovrebbe spingerla, appunto, a organizzarsi a dovere per tempo (visto che per tutta una serie di ragioni in Italia ne è rimasto ancora una briciola) – con le necessarie competenze e gli altrettanto necessari investimenti in termini di personale e finanziamenti. Ma questo è proprio ciò che non sta accadendo.

Ci stiamo (forse) avviando verso un sinodo della Chiesa italiana, senza avere idee molto chiare e senza averne una grande voglia, e la CEI continua a sentire l’esigenza di porsi come coscienza morale del paese – molte parole, forse troppe, sicuramente impegnative che rischiano però di ritorcersi verso la stessa Chiesa italiana se continuerà a fare dell’attendismo esasperato il suo unico programma pastorale per i tempi a venire.

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