Abusi: di chi è la colpa?

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Dopo il terribile dossier riguardante la Chiesa di Francia (cf. qui), è necessario approfondire il problema anche attraverso domande scomode e scottanti.

Da quanto è emerso dal dossier abusi della Chiesa francese, non si tratta di casi sporadici, ma di una enormità! Siamo di fronte ad abusi di massa: dal 1950 al 2020, 330 mila persone sono state vittime di casi di pedofilia nella Chiesa francese; 216 mila a opera del clero.

Ci sono dai 2.900 ai 3.200 preti coinvolti. Numeri che ci costringono a riflettere e ad agire affinché un fenomeno così terrificante venga combattuto fin nelle motivazioni più profonde.

In passato si è cercata una difesa affermando che il fenomeno toccava tutte le istituzioni scolastiche e sportive. Una lettura approfondita ha mostrato invece che il rischio per un bambino di essere vittima di atti di pedofilia era di 1,16 % nella Chiesa, contro lo 0,30 nelle strutture laiche.

Ma, per dire “mai più!”, bisogna prima rispondere alla domanda cruciale: “Di chi è la colpa?”.

Di solito, si chiude la questione accusatoria con un passaggio semplice semplice: la colpa è tutta di quei preti e di quei religiosi che si sono macchiati di un simile reato! Magari fosse così semplice la questione! Il problema è ben più vasto e va affrontato dalle radici.

Per carità, la prima cosa da fare rimane quella di individuare i colpevoli e impedire che i crimini possano ripetersi. Insieme, cercare le vittime e, dove è possibile, cercare di riparare. Per decenni, infatti, questi preti e religiosi non sono stati messi nell’impossibilità di nuocere ancora e hanno trovato spesso la complicità di colleghi e di vescovi che non facevano altro che spostare il problema.

Così arriva un’altra domanda che ci viene spontanea: “Ma come facevano quelle persone ad essere preti?”. Il loro problema infatti non è sorto quando erano avanti negli anni, ma ben prima, quando non avevano ancora ricevuto la consacrazione presbiterale.

Ricordo i tempi del mio Seminario negli anni ’60/’70, quando ancora non avevamo capito le dinamiche psicologiche che inducevano alcuni seminaristi a mostrare strane tendenze e, insieme, a comportarsi con atteggiamenti che noi sempliciotti consideravamo come “originali”. Ci facevamo carico di evidenziare il problema ai superiori.

La risposta che ricevavamo era semplice: “Tranquilli, niente di particolare! Il problema è stato analizzato e non manca la vocazione”. Per loro era solo un problema vocazionale!

Se un giovane seminarista si intratteneva in corrispondenza con una ragazza, veniva espulso per “mancanza di vocazione”. Al contrario, se un altro seminarista manifestava un totale disinteresse per la parte femminile del mondo, mostrava segni di vocazione! Così tutti costoro arrivavano tranquilli al sacramento senza problemi.

La questione veniva a galla dopo, nella vita quotidiana di parrocchia, quando le tendenze mai messe a fuoco riemergevano. La maggioranza di costoro si rifugiava in un bel pizzicotto dato a se stessi con l’intento di stoppare simili propensioni e di tenere per sé il tutto, per non essere costretti alla vergogna. Molti altri, però, non riuscivano a mettere a freno le proprie tendenze e lì cominciavano le tragedie.

Ricordo un caso, proprio in quegli anni di Seminario, quando avevamo evidenziato presso i superiori i problemi di un nostro compagno e le cose sono andate proprio come ho descritto sopra. È finito a fare il cappellano militare! Andato in pensione e ripiombato in parrocchia, la cosa è esplosa. Scandalo su scandalo! Ma la colpa era tutta sua o anche di chi non ha guardato al problema al tempo giusto?

Il problema si allarga ancora e arriva una ulteriore domanda: “Ma quei superiori del Seminario erano all’altezza per giudicare, per fare discernimento?”. Per carità, molti erano pieni di saggezza e di buon senso e agivano di conseguenza. Per fortuna!

Ma molti altri non potevano essere giudici imparziali, per un motivo molto semplice: vivevano lo stesso problema! E costoro non erano pochi, purtroppo!

I vescovi neanche si sognavano di consegnare il giudizio di idoneità al presbiterato e al sacerdozio alla professionalità di terzi, magari di donne.

I criteri per ammettere al sacramento un giovane erano: l’obbedienza, la pietà e soprattutto i voti scolastici. Di un giudizio complessivo sulla persona e sul suo equilibrio non c’era bisogno.

Ma le domande non sono tutte finite. C’è qualcosa di più grande, che sta alla radice e che, se non viene toccato, saremo costretti a vivere il fenomeno ancora per decenni. Non posso tacere, infatti, di fronte alle storture che sono sorte intorno alla questione del peccato. Essa trascina tutte le problematiche annesse: quella del rapporto con il nostro corpo, quella della sessualità vissuta nella verità e nella trasparenza e la questione femminile (mai toccata veramente, nonostante i proclami roboanti).

Sono convinto che solo quando riusciremo a mettere in gioco veramente le donne all’interno della Chiesa (non parlo del sacerdozio femminile), potremo avere aria nuova e aprire le finestre per togliere l’aria fetida che ci circonda!

Non basta chiedere perdono: bisogna agire! È arrivato il momento!

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Un commento

  1. Salvo Coco 12 ottobre 2021

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