Amoris lætitia: osservazioni teologiche

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L’esortazione postsinodale Amoris Lætitia di papa Francesco sull’amore nella famiglia, frutto del dibattito che si è svolto negli ultimi due sinodi, rappresenta un testo di straordinaria ricchezza sul piano teologico, spirituale e pastorale, e offre innumerevoli spunti di riflessione sia per chi vive la vocazione matrimoniale che per chi si occupa di pastorale della famiglia.

Come giustamente è stato detto, i temi affrontati in questo documento sono molto numerosi, e non si possono ridurre alla sola questione dell’ammissione ai sacramenti di persone conviventi al di fuori del matrimonio religioso. Si parla, infatti, della famiglia nella Scrittura, della sua situazione nelle società odierne, dell’amore matrimoniale, della sua fecondità, dell’educazione dei figli, e di molte altre questioni.

Tuttavia, se si legge l’esortazione con un’attenzione specifica alla teologia della Chiesa che ne emerge, si è colpiti da quanto il pontefice afferma dal n. 300 al n. 312, proprio a riguardo delle cosiddette situazioni “irregolari”, perché questo suo insegnamento potrebbe rappresentare un vero e proprio sviluppo della dottrina cattolica destinato ad avere ricadute molto rilevanti nella vita ecclesiale.

Per coglierne la portata occorre fare alcune premesse.

Come è assodato nella morale cristiana, e come è richiamato anche da papa Francesco al n. 302 dell’esortazione, il fatto che un credente abbia un atteggiamento oggettivamente e gravemente difforme dall’etica evangelica, anche in modo permanente e pubblico, non significa che sia soggettivamente colpevole, cioè che commetta un peccato davanti a Dio. Affinché ciò avvenga, occorre che l’interessato percepisca nella sua coscienza morale, dopo averla formata al meglio delle sue possibilità, che quell’atteggiamento è realmente contrario alla volontà di Dio, che veda la possibilità di abbandonarlo senza ledere un bene maggiore e, infine, che abbia le forze morali per compiere questo passo. In assenza di uno di questi aspetti, il suo atteggiamento, pur restando in sé peccaminoso, non costituisce una colpa davanti a Dio, e non impedisce la piena comunione con lui (cioè, lo stato di grazia).

La dottrina tradizionale

Nonostante questo, la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica ha sempre ritenuto che per ricevere i sacramenti non sia sufficiente essere in grazia di Dio, ma che sia parimenti necessario non vivere in condizioni che, sul piano oggettivo, siano gravemente e pubblicamente immorali, a prescindere dal fatto che siano vissute soggettivamente in modo non colpevole per le ragioni sopra indicate. Infatti i sacramenti sono donati alla Chiesa quale vertice dell’esperienza cristiana, e questo esige che chi li riceve sia non solo in comunione con Dio – ambito nel quale solo l’interessato ha gli elementi per giudicare se stesso – ma anche nella piena comunione ecclesiale. Ora, tale piena comunione viene compromessa da un comportamento gravemente e pubblicamente immorale, anche se vissuto soggettivamente in modo non colpevole, e dunque chi lo pratica non può accedere ai sacramenti.

Così, stante il chiaro insegnamento del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, se un cattolico divorziato e risposato civilmente o convivente che ha relazioni sessuali con il partner si rivolge ad un confessore per ottenere l’assoluzione dai propri peccati, questi, anche se non può giudicare in alcun modo la sua situazione soggettiva davanti a Dio, ed è anzi ben consapevole che potrebbe vivere la sua relazione affettiva senza colpa personale, deve comunque negargli l’assoluzione: la sua condizione, nella sua oggettività, impedisce la sua piena comunione con la Chiesa, e dunque l’accesso al sacramento della penitenza.

Questa impostazione, che è quella tradizionale, consente un rapido discernimento di chi possa accedere ai sacramenti, e lascia al lavoro pastorale l’arduo compito di accogliere le persone che si trovano in situazioni “irregolari”, nonché di favorire la loro integrazione nelle comunità cristiane, pur prescindendo dal momento sacramentale e da alcuni ministeri ecclesiali. Questa integrazione, ovviamente, risulta essere molto difficile, soprattutto per il fatto che da molti secoli nella Chiesa si è diffusa la convinzione profondamente errata che i sacramenti, compresa l’eucaristia, siano non il vertice della vita cristiana, ma il suo punto di partenza, il livello di base, e che dunque il fatto di non poterli ricevere significhi un’esclusione pratica dalla comunità cristiana.

Gli sviluppi

Muovendosi in una prospettiva teologica differente, papa Francesco nel n. 300 dell’esortazione afferma che i battezzati divorziati e risposati civilmente vivono situazioni molto diversificate tra loro, e che né un sinodo né un documento potrebbero offrire un quadro normativo capace di contemplarle tutte. Per questo, continua il pontefice, «è possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché “il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi».

Segue poi una nota molto importante, in cui si afferma: «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che, in una situazione particolare, non c’è colpa grave».

I numeri che seguono, fino al 312, vanno nella stessa direzione. Mi sembra evidente che questo passaggio segna uno sviluppo nella dottrina ecclesiale. Ora, infatti, l’accesso all’eucaristia è possibile anche in presenza di un comportamento oggettivamente e pubblicamente immorale, come la convivenza al di fuori del matrimonio religioso, a condizione che tale comportamento non sia frutto di una scelta soggettivamente peccaminosa. Qualora il discernimento sulla situazione concreta di una persona convivente o divorziata e risposata mostri che essa vive in questa situazione non a causa di una scelta soggettivamente peccaminosa, essa può ricevere i sacramenti.

La linea di papa Francesco, tuttavia, non è una vera e propria novità. Si potrebbe dire che egli si limita a “travasare” nella teologia della Chiesa e dei sacramenti il rinnovamento conciliare della morale, che ha rimesso al centro la coscienza personale rispetto all’oggettività delle norme etiche. Peraltro, egli sembra compiere questo “travaso” con naturalezza, quasi ritenendolo un fatto ovvio, dimostrandosi un vero figlio del Vaticano II che ha assimilato profondamente il suo insegnamento. Inoltre la prospettiva indicata dal pontefice è pienamente aderente a diverse prese di posizione di vari teologi, tra cui il sottoscritto (cf. Settimana n. 38 del 2014), che, nel contesto degli ultimi due sinodi, hanno cercato di accompagnare il dibattito ecclesiale con la propria riflessione.

Le criticità

Tuttavia, anche se l’insegnamento autorevole di Francesco mi risulta ovviamente molto gradito, mi pare che esso ponga alcune criticità sul piano teologico e pastorale che occorre esplicitare.

In primo luogo, affermare che è possibile l’accesso all’eucaristia a persone che soggettivamente non sono in una condizione di peccato grave, anche in presenza di comportamenti oggettivamente e pubblicamente immorali, a seguito di un opportuno discernimento significa ridefinire il soggetto di tale discernimento. Infatti, un confessore o una guida spirituale non possono in alcun modo conoscere la situazione soggettiva di una persona davanti a Dio e, se presumono di farlo, commettono peccato (si tratta del giudizio sulle intenzioni). Essi potranno solo aiutare quella persona a divenire consapevole delle sue scelte e delle motivazioni profonde che le hanno ispirate, cioè del giudizio della sua coscienza morale, verificare che questo discernimento sia realmente spirituale e avvenga secondo determinati tempi e modalità. Alla fine, però, il protagonista di questo discernimento non può essere il ministro della Chiesa, ma il diretto interessato, perché solo lui può accedere alla profondità della sua interiorità e valutare davanti a Dio le ragioni profonde delle sue scelte.

Mi pare sia questa la ragione per la quale il papa insiste molto sulla necessità che i pastori incontrino personalmente coloro che vivono in situazioni “irregolari”: non si tratta semplicemente di mostrare loro affetto e comprensione, ma di metterli in condizione di esplicitare quel giudizio della loro coscienza morale che solo loro possono conoscere e che consente di stabilire la loro effettiva condizione davanti a Dio. Insomma, il discernimento lo fanno le persone interessate, mentre i pastori diventano solo gli accompagnatori in tale processo.

Questo approccio rappresenta, per certi aspetti, un fatto nuovo per l’azione pastorale della Chiesa, e non ci si deve stupire se, in questo ambito, il papa sembri mettere la prassi davanti alla teoria, invitando tutti a mettersi in cammino e ad elaborare strada facendo le modalità concrete di tale accompagnamento.

Le ricadute pastorali

La linea teologica e pastorale indicata da papa Francesco nell’esortazione postsinodale Amoris lætitia, soprattutto nei numeri 300–312, è carica di conseguenze per la prassi pastorale della Chiesa cattolica. Come mostrato precedentemente, essa legittima l’accesso ai sacramenti da parte di persone che vivono in condizioni oggettivamente non evangeliche – nella fattispecie, che convivono al di fuori del matrimonio religioso –, a condizione che tale loro situazione non sia attualmente frutto di una scelta soggettivamente peccaminosa.

Tale condizione deve essere accertata da un discernimento articolato, nel quale però il protagonista sembra essere il diretto interessato: è lui, infatti, a dover indagare la sua coscienza morale e a esplicitare le motivazioni profonde delle sue decisioni al fine di consentire al ministro della Chiesa di valutare la sua responsabilità morale.

Tale orientamento apre molte possibilità sul piano dell’accoglienza di persone in situazioni problematiche, ma pone pure diverse problematiche. Vorrei metterne a fuoco una di particolare importanza, a seguito di alcune necessarie premesse teologiche.

La santità della Chiesa

Una dimensione fondamentale dell’azione pastorale della Chiesa è la tutela della sua santità, cioè del suo essere la comunità dei discepoli di Gesù che, in forza del dono del suo Spirito, possono vivere anticipatamente la logica del regno dei cieli e le sue radicali esigenze etiche. In effetti, ogni comunità cristiana è chiamata, da un lato, ad accogliere tutti coloro che, in qualche modo, vogliono accostarsi al Signore, anche se fortemente peccatori, ma, dall’altro, a tutelare la sua identità evangelica, facendo in modo che gli stili gravemente peccaminosi di qualcuno non incidano negativamente sul cammino spirituale degli altri credenti.

Tale tutela della santità ecclesiale, ovviamente, riguarda sia il contenuto dottrinale della fede che l’etica cristiana. Essa normalmente non è in conflitto con uno stile di accoglienza e di benevolenza verso persone in situazioni problematiche, ma in alcuni casi potrebbe esserlo. A quel punto, la tutela della santità della Chiesa risulta più importante della sua capacità di accoglienza. Per questo, ad esempio, Paolo nella lettera ai Galati non si dimostra affatto accogliente o tollerante verso coloro che svuotano il vangelo della grazia, e scomunica chi dovesse distorcere il suo vangelo (cf. Gal 1,6-9). Così il presbitero che scrive la prima lettera di Giovanni non invita affatto la comunità a ricercare i cosiddetti secessionisti, cioè un gruppo di credenti che se ne era andato per un grave disaccordo sul modo di intendere la persona di Gesù, ma piuttosto li etichetta come anticristi (cf. 1Gv 2,18-19). Sono innumerevoli gli esempi che si potrebbero portare, sia nel Nuovo Testamento che nella successiva storia della Chiesa.

Ora, l’orientamento tradizionale sulla non ammissione ai sacramenti dei conviventi al di fuori del matrimonio religioso consentiva di garantire molto più chiaramente la santità della comunità cristiana in rapporto all’insegnamento del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, seppure a scapito di uno stile di accoglienza nei confronti delle persone in situazioni “irregolari”. In altre parole, il fatto che persone in queste condizioni non si potessero accostare all’eucaristia era un segno molto chiaro per tutta la comunità cristiana che la loro situazione era oggettivamente contraria al Vangelo.

E le altre situazioni simili?

La linea di papa Francesco, pur essendo profondamente gradita a chi scrive, priva comunque la Chiesa di questa possibilità specifica di tutelare la sua santità in rapporto al matrimonio cristiano. Questo significa che potranno accedere all’eucaristia anche persone conviventi al di fuori del matrimonio religioso, perché, alla luce di un discernimento attento e “certificato” dal confessore o dalla guida spirituale, potranno affermare in coscienza che questa loro situazione non deriva da un’attuale colpa personale.

Questo significa che occorrerà compensare questa carenza, attraverso una catechesi molto più efficace sulla famiglia, perché resti chiaro per tutti il senso del matrimonio cristiano e il suo carattere indissolubile, già radicato nell’alleanza creaturale tra l’uomo e la donna. Si tratta, evidentemente, di una sfida pastorale non piccola.

Correlare la tutela della santità della Chiesa con la linea teologica e pastorale di papa Francesco consente poi di affrontare un’altra questione molto complessa. La fondazione teologica dell’esortazione postsinodale che legittima la ricezione dei sacramenti semplicemente in assenza di una grave colpa soggettiva, a prescindere da eventuali comportamenti oggettivamente peccaminosi come la convivenza al di fuori del matrimonio religioso, di per sé è applicabile anche al di fuori dall’ambito dell’etica famigliare e sessuale. In effetti, il documento pontificio non esplicita questo aspetto, ma i principi a cui il papa fa riferimento nei nn. 300–312 sono di natura generale, e non riguardano solo il caso dei conviventi o dei divorziati risposati.

Diventa, quindi, legittimo chiedersi quali categorie di persone, oltre ai conviventi al di fuori del matrimonio religioso, potrebbero accedere ai sacramenti pur trovandosi in condizioni di vita oggettivamente non evangeliche. Vengono in mente diverse situazioni, e non solo quelle che sono già inquadrate dall’attuale normativa canonica come incompatibili con l’accesso ai sacramenti.

Ad esempio, rimanendo nell’ambito di situazioni gravemente problematiche nell’ambito dell’etica sessuale cattolica, si potrebbe pensare ai conviventi omosessuali. Passando poi a situazioni di altra natura, molto più gravi sotto il profilo morale, si potrebbero menzionare quelle persone che praticano stabilmente e pubblicamente la prostituzione. Gli esempi potrebbero continuare. Ora, non si può escludere a priori che alcune persone che vivono in queste situazioni, dopo un discernimento spirituale, possano arrivare alla convinzione che le loro scelte nell’ambito affettivo e sessuale, pur oggettivamente contrarie all’etica evangelica, siano comunque frutto di una scelta soggettivamente non colpevole, ad esempio a causa di pulsioni non controllabili o di coercizioni esterne.

Esulando poi dall’ambito dell’etica sessuale, le cose si complicano ulteriormente. Anche nel mondo di chi delinque – rapinatori, assassini, mafiosi e camorristi, fondamentalisti violenti ecc. – vi potrebbero essere persone che vivono comportamenti fortemente contrari all’etica cristiana – e pure penalmente rilevanti – senza una responsabilità morale soggettiva. Questi comportamenti, infatti, potrebbero essere dovuti a gravi carenze educative, a pesanti disturbi di personalità, oppure a scelte sbagliate fatte nella proprio adolescenza, da cui però nel presente, a causa di una qualche forma di dipendenza, non si ha più la forza di prendere le distanze. Dunque ci si può chiedere: la linea di papa Francesco potrebbe essere applicata anche a persone che vivono in situazioni come quelle esemplificate? Esse potrebbero accedere ai sacramenti, pur restando nella loro condizione attuale, se, alla luce di un discernimento, divengono consapevoli di non portarli avanti in modo soggettivamente colpevole?

Sotto il giudizio della Parola

Non si può rispondere a questa domanda in modo ideologico, stabilendo cioè a priori che i peccati di natura sessuale non siano tali o quantomeno non siano gravi, a differenza di quelli di tipo sociale, e che dunque solo i primi possano essere compatibili con la partecipazione ai sacramenti. Questa visione risente di una deriva ideologica di tipo marxista, per la quale il male si identifica ultimamente con le sole dinamiche economiche oppressive dei più poveri. In realtà, la parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio è molto chiara, al pari di quella sull’uso delle ricchezze.

La risposta a questa complessa problematica sta nel correlare l’accoglienza eucaristica delle persone in situazioni problematiche ma soggettivamente non colpevoli con la menzionata esigenza, comunque prioritaria, di tutelare la santità della Chiesa. Così, se papa Francesco ha aperto l’accesso ai sacramenti alle persone conviventi al di fuori del matrimonio religioso alle condizioni indicate, questa linea teologica potrebbe non essere applicabile a chi vive in altre situazioni più problematiche sotto il profilo morale perché questo inciderebbe troppo negativamente sul compito costitutivo di ogni comunità cristiana di tutelare la propria identità evangelica.

In conclusione, la linea teologica e pastorale inaugurata da papa Francesco non può essere identificata semplicisticamente e in modo unilaterale con l’accoglienza e la misericordia, ma deve declinarsi sapientemente all’interno di una visione teologica organica nella quale la tutela della santità della Chiesa rappresenta un elemento imprescindibile. La strada da percorrere, dunque, sarà ancora una volta quella dell’evangelizzazione: solo una comunità che sta continuamente sotto il giudizio risanante della Parola può accogliere le persone in situazioni problematiche senza smarrire la sua vocazione alla santità cristiana.

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2 Commenti

  1. MAURO PARIS 13 settembre 2016
  2. don Giovanni Giavini 1 giugno 2016

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