“Aprile di sangue” per la Chiesa nel mondo

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Aprile è stato un mese tragico, di sangue, per la Chiesa, o, come ha scritto la rivista dei gesuiti America, un Black April – un aprile nero – per l’ondata di violenze che l’hanno caratterizzato contro comunità di cattolici e soprattutto per l’uccisione di vari sacerdoti in numerose parti del mondo. Il giorno 2 aprile, quattro membri di una famiglia cattolica sono stati uccisi nel sud del Pakistan; il giorno 8, nella Repubblica Democratica del Congo – dove la Chiesa appoggia pacifiche dimostrazioni di protesta contro il rifiuto del presidente Joseph Kabila di lasciare il potere –, un altro sacerdote, padre Etienne Sengiyumva, parroco di Kitchanga, è stato ucciso a Kyahemba, una circoscrizione della sua parrocchia, dopo aver celebrato la messa, un battesimo e un matrimonio. È il terzo in pochi mesi.

Nigeria

Purtroppo, sono continuati i massacri anche in Nigeria (la notizia è già stata pubblicata su Settimananews del 2 maggio 2018), soprattutto nel centro del paese. Come ha riferito l’Agenzia Fides il 25 aprile scorso, due sacerdoti, assieme ad almeno 19 parrocchiani, sono stati uccisi nella parrocchia di Sant’Ignazio di Ukpor-Mbalom nel villaggio di Mbalom, nella Gwer East Local Government Area nello Stato di Benue, che fa parte della cosiddetta Cintura di Mezzo (Middle Belt), la parte centrale della Nigeria che divide il nord, a preponderanza musulmana, dal sud in gran parte abitato da cristiani.

Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, l’attacco ha avuto luogo durante la messa quotidiana delle 5,30 del mattino, molto frequentata dai parrocchiani. La messa, a cui sarebbe seguita una cerimonia funebre, era appena iniziata e i fedeli stavano ancora affluendo, quando un gruppo armato, entrato all’improvviso, ha esploso numerosi colpi di arma da fuoco. La gente, presa dal panico, ha cercato di fuggire, ma 19 persone, tra cui don Joseph Gor e don Felix Tyolaha, che stavano celebrando la messa, sono stati uccisi a sangue freddo e molte altre persone sono rimaste ferite.

Dopo aver attaccato la chiesa, gli assalitori sono entrati nel villaggio e hanno razziato e raso al suolo più di 60 tra case e fienili. Gli abitanti sono fuggiti verso i villaggi vicini, sperando di trovare un rifugio sicuro.
«Confermiamo la morte di don Joseph Gor e don Felix Tyolaha, uccisi nell’attacco mortale da parte di pastori/jihadisti nel villaggio di Mbalom, nella parrocchia di Sant’Ignazio Ukpor-Mbalom», afferma un comunicato firmato da don Moses Iorapuu, direttore delle Comunicazioni sociali della diocesi di Makurdi. Don Iorapuu ha affermato che, anche in altri villaggi dell’area, sono stati commessi dei massacri, ma «la polizia sembra non sapere nulla degli attacchi che si sono verificati in altri villaggi dello stato di Benue».

Secondo la stampa nigeriana, almeno altre 35 persone sono rimaste uccise durante un attacco, sempre il 24 aprile, nel villaggio di Tse Umenger, nel Mbadwem Council Ward of Guma LGA, nello stato di Benue. Testimonianze locali affermano che il massacro è stato commesso da almeno 50 pastori fulani armati che, intorno alle 7 del mattino, hanno assalito il villaggio mettendolo a ferro e fuoco.

Di fronte a questi fatti sanguinosi che continuano purtroppo a ripetersi, i vescovi della Nigeria, in un duro comunicato – come riferisce ancora l’Agenzia Fides in un servizio del 25 aprile – hanno chiesto le dimissioni del presidente Muhammadu Buhari. «È giunto il momento – scrivono – che il Presidente scelga di farsi da parte con onore per salvare la nazione dal collasso totale». «Queste persone innocenti – aggiungono i vescovi – sono state uccise per mano di una banda scellerata e disumana; i terroristi hanno trasformato la Middle Belt e altre aree della Nigeria in un enorme cimitero».
«Il 3 gennaio scorso – ricordano ancora i vescovi – don Gor aveva twittato: “Viviamo nella paura. I fulani sono ancora qui nei pressi di Mbalom. Rifiutano di andarsene. Stanno ancora facendo pascolare i loro greggi. Noi non abbiamo armi per difenderci”». Ma, prosegue il comunicato, «le disperate richieste di aiuto e di sicurezza sono rimaste inascoltate da coloro che avrebbero dovuto accoglierle».

I due sacerdoti uccisi «avrebbero potuto fuggire, ma, fedeli alla loro vocazione, sono rimasti a servire il proprio popolo fino alla morte».
L’8 febbraio una delegazione di vescovi aveva reso visita al presidente per rilanciare l’allarme della Conferenza episcopale sulla sicurezza della nazione. «Da allora – sottolinea il comunicato – il bagno di sangue e la distruzione di case e di fattorie sono aumentati in intensità e in efferatezza».

Filippine

Un sacerdote cattolico filippino, p. Mark Anthony Yuaga Ventura, 37 anni, è stato ucciso il 30 aprile scorso, dopo aver celebrato la messa nella città di Gattaran nella provincia di Cagayan, nell’isola di Luzon, nel nord delle Filippine. Il sacerdote stava benedicendo i bambini che avevano partecipato alla santa messa e, mentre parlava con il coro dei cantori, un assassino, con un casco, giunto in motocicletta, gli si è avvicinato e gli ha sparato alla testa e al petto uccidendolo sul colpo. L’aggressore è poi uscito, dandosi alla fuga.

P. Ventura, ordinato sacerdote nel 2011, era conosciuto per il suo impegno contro l’industria mineraria e la sua attività fra i tribali della provincia di Cagayan. Dirigeva la stazione missionaria di San Isidro Labrador, situata nel vicino villaggio di Mabuno, ed era rettore del seminario maggiore di San Tommaso d’Aquino nella città di Aparri.

Saputa la notizia, i vescovi cattolici hanno emanato un comunicato, firmato dall’arcivescovo Romulo Valles, di Davao, presidente della Conferenza episcopale, per «condannare questo atto criminale» e per chiedere alle autorità di agire prontamente per assicurare alla giustizia chi l’aveva perpetrato.

L’assassinio del sacerdote – scrive in una dichiarazione il gruppo di attivisti Makabayan – «ha impresso un nuovo impulso all’epidemia di impunità e alla barbarie che dilaga nel paese». Anche il partito liberale di opposizione ha condannato l’uccisione e ha chiesto alle autorità di arrestare e consegnare alla giustizia gli assassini e di non limitarsi a trattare la morte del sacerdote come «un’altra morte qualsiasi su cui indagare».

Il comunicato aggiunge: «Speriamo che la morte di p. Ventura non sia un riflesso del carattere della nostra nazione alla luce delle recenti azioni del governo contro Patricia Fox». Patricia Fox era una missionaria che aveva lavorato negli ultimi 27 anni nelle comunità povere delle Filippine, ma era stata espulsa per aver partecipato ad alcune manifestazioni di protesta.

Il gruppo giovanile Anakbayan ha incolpato l’amministrazione del presidente Rodrigo Duterte dell’uccisione del sacerdote definendo il governo «fascista, tiranno, di stile mafioso». Nella dichiarazione si legge inoltre: «La sua campagna fascista ha trasformato le persone appartenenti alla religione cattolica in obiettivi legittimi di uccisioni, intimidazioni e vessazioni, perché parlano non solo contro la sanguinosa guerra alla droga ma anche contro le ingiustizie sociali e politiche perpetrate dal regime». I rapporti tra la Chiesa cattolica e il governo sono ora particolarmente burrascosi.

In risposta all’assassinio di p. Ventura, il card. Luis Antonio Tagle ha chiesto alle chiese dell’arcidiocesi di Manila di suonare le campane a lenti rintocchi alle 8,00 di ogni mattina, in segno di protesta contro l’ondata di uccisioni che avvengono nelle Filippine.

Secondo i dati di Human Rights Watch (un’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani), migliaia di persone ritenute coinvolte nella vendita e nel traffico di droga sono state uccise dalla polizia e dalle forze di sicurezza, da quando Duterte è stato eletto presidente nel 2016.

Il card. Tagle ha affermato che il suono delle campane «perseguiterà gli autori della violenza e delle uccisioni ricordando loro le vittime, affinché non le dimentichino mai».

Padre Ventura è il secondo sacerdote ucciso nel giro di quattro mesi nelle Filippine. Prima di lui, nel dicembre 2017, era stato assassinato p. Marcelito Paez, 72 anni, in un’imboscata nella città di Jaen, nella provincia di Ecija.

Messico

Il 26 aprile – secondo un rapporto delle autorità – è stato trovato il cadavere di un sacerdote che era stato rapito nella zona centrale del paese. Si chiamava Moises Fabila Reyes, di 83 anni. È stato il terzo sacerdote ucciso in una settimana. Da quando il presidente Enrique Peña Nieto è entrato in carica nel 2012, sono stati uccisi in Messico, oltre due dozzine di sacerdoti.

Il Catholic Multimedia Center ha scritto: «In pochi giorni, il Messico ha conosciuto la più grave crisi della pubblica sicurezza della sua storia moderna. Non sono solo i giovani ad essere scomparsi e uccisi; la dimensione di questa barbarie ha superato tutti i livelli della società e la Chiesa ha esperimentato il suo Aprile nero. I tre sacerdoti sono stati assassinati in circostanze violente, suscitando indignazione e preoccupazione tra i vescovi del paese».

Il padre Fabila Reyes era in vacanza nella città di Cuernavaca quando il 3 aprile è stato rapito. I suoi familiari avevano pagato un riscatto di 100.000 dollari, ma il padre probabilmente si è ammalato ed è morto.

Pochi giorni prima era stato trovato il cadavere di un altro sacerdote ucciso nella periferia di Guadalajara e di un altro ancora pugnalato a morte fuori Mexico City.

La Conferenza episcopale, in seguito a queste continue uccisioni di sacerdoti, ha emanato un comunicato in cui scrive: «È tempo di guardare con occhio severo alla nostra cultura e alla nostra società, per chiederci come abbiamo potuto perdere il rispetto per la vita, per tutto ciò che è sacro».

Repubblica Centroafricana

Il mese di maggio non è cominciato meglio. Proprio il primo giorno si è aperto con un attacco terroristico nella Repubblica Centroafricana, nella chiesa di Nostra Signora di Fatima a Bangui, provocando la morte di 24 persone, tra cui quella di mons. Albert Toungoumalé-Baba, e 170 feriti.

Serge Benda, coordinatore della gioventù dell’arcidiocesi, era presente alla messa quel giorno e ha affermato che l’attacco è avvenuto dopo la lettura del Vangelo. Ha spiegato che, dopo uno scontro con la polizia fuori della chiesa, cinque assalitori erano entrati e avevano aperto il fuoco con i kalasnikov sui fedeli e gettato anche due granate, una delle quali aveva ucciso mons. Albert Toungoumalé-Baba.

La gente, inferocita, ha cercato di portare il sacerdote ucciso verso la residenza del presidente per chiedere una risposta alle forze di sicurezza. Ma, prima di raggiungere il palazzo, il gruppo è stato disperso dalla polizia.

Il card. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, il 3 maggio ha esortato alla calma e a mettere fine alle vendette. «La violenza – ha detto – non è la soluzione dei nostri problemi». E ha aggiunto: «Dietro a questi avvenimenti, mi domando: Cosa sta succedendo? Ci sono delle manipolazioni, degli sfruttamenti? C’è una campagna per dividere il nostro paese? Esiste un’agenda segreta? Cerchiamo insieme delle risposte a questi interrogativi».

La Chiesa di Bangui ha fatto di tutto per far capire che la violenza di cui è preda la Repubblica Centrafricana dal 2012 è il risultato di tensioni politiche, non religiose, sperando così di evitare di mettere cristiani e musulmani gli uni contro gli altri.

In una dichiarazione sull’attacco, il cardinale ha invitato da andare avanti «stando uniti per dire no alla violenza, no alla barbarie, no all’autodistruzione». Ha poi aggiunto: «Questa è la ragione per cui faccio appello a tutti i gruppi politici, amministrativi e religiosi, senza distinzione, per condannare insieme ciò che è accaduto. Nello stesso tempo, dico a tutti i credenti che, nel momento della prova, dobbiamo confidare in Dio che ci ha donato la pace in Cristo. Mi rivolgo a tutti affinché evitino la collera, l’odio, la vendetta e la rappresaglia».

Questo è stato il secondo devastante attacco nella chiesa di Nostra Signora di Fatima. Uno simile era avvenuto ad opera delle milizie Seleka nel 2014 e aveva causato 18 morti.

Il papa, alla recita del Regina Coeli del 6 maggio, ha esortato i presenti a pregare per la Repubblica Centrafricana dicendo: «Invito a pregare per la popolazione della Repubblica Centrafricana, paese che ho avuto la gioia di visitare e che porto nel cuore, e dove nei giorni scorsi sono avvenute gravi violenze con numerosi morti e feriti, tra cui un sacerdote. Il Signore, per intercessione della Vergine Maria, aiuti tutti a dire no alla violenza e alla vendetta, per costruire insieme la pace».

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