Chiesa riconciliata in carcere

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Il titolo che si è dato il Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori pastorali nelle carceri[1] – “Chiesa riconciliata in carcere. L’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza” – era abbastanza spazioso da consentire ampie opzioni di manovra. Che sono state utilizzate.

La lectio con la quale sono stati avviati i lavori[2] e l’omelia del card. Francesco Montenegro durante la celebrazione eucaristica di chiusura hanno costituito le due sponde entro le quali è corso l’alveo del convegno, mettendo a tema entrambe i modelli di Chiesa e di ministero.

Un Chiesa riconciliata, conciliare, non conciliante

Il punto unificante e qualificante degli interventi e dei sette laboratori si può riscontrare nel carattere emblematico che assumono la presenza e il servizio della Chiesa in carcere: quale annuncio di salvezza nell’esperienza del male, sia colpevole sia innocente? come si rapporta la comunità dei credenti nei confronti di chi è pubblicamente giudicato colpevole? quale Chiesa è possibile in un mondo che isola, individualizza, priva della libertà? Che significati “laboriosi” assume in questo ambiente l’invito “ad uscire”? Una Chiesa che ha consapevolezza della propria origine dalla misericordia del Padre: irrimediabilmente colpevole, ma perdonata, che al giudicare preferisce tessere trame di riconciliazione. Una Chiesa “conciliare”, dove non ci sono ruoli ingessati né classi stagne nel dare e nel ricevere, nel perdonare e nell’essere perdonati. Una Chiesa riconciliata ma non conciliante nella denuncia e nella profezia. La “Chiesa di papa Francesco”, presentata da mons. Dario Edoardo Viganò, risponde a questo indirizzo.

Chiesa riconciliata in carcere

Chiesa riconciliata in carcere, Montesilvano (PE) 22-24 ottobre 2018.

Imputati

Dovremmo dubitare del nostro discepolato se non fossimo giudicati in qualche modo “colpevoli” del Vangelo di Gesù. In questi tempi nei quali va montando una cultura – non solo politica – che legittima l’egoismo, il fondamentalismo condannatorio, un uso vendicativo della “giustizia”, il discepolo di Gesù è imputato. Perché si rifiuta di accettare che l’aggettivo colpevole diventi sostantivo. Perché è politicamente ostinato nella critica a una giustizia che legittima la risposta al male con un altro male e persegue un modello nel quale al male si risponde con un progetto laborioso – per entrambe le parti – di bene.[3] Perché crede fermamente che solo la carità non avrà mai fine e in nome di questa respinge ogni sentenza di “fine pena mai”. Perché crede in un Dio che non butta mai via la chiave e che anche quando usa parole severe di condanna apre sempre un percorso di ravvedimento.

Il vangelo della misericordia è molto politico. E non è ingenuo. Saccentemente ingenua è invece la convinzione, tanto diffusa quanto ideologica, che l’unica risposta al male commesso sia la “giusta” retribuzione con un altro male. Mentre tutte le indagini sono a negare l’assunto. Ma disponiamoci in proposito a stare sul banco degli imputati, visti i marosi tra progetti di riforma della giustizia abortiti e quelli sottoscritti dal “contratto” giallo-verde.

Alibi

Non è di poco conto il processo di conversione richiesto ai modelli di annuncio e di Chiesa. Siamo stati per molto, troppo tempo tra i primi a scagliare pietre, salvo poi soccorrere il lapidato per curargli le ferite. Come in ogni tempo, ci sembra che il nostro sia funestato da un male debordante,[4] e che davvero i deboli, i poveri, gli indifesi siano sempre più minacciati, anzi perseguitati. Non possiamo restare sordi, ciechi e muti davanti alle forme ributtanti come a quelle “banali” del male che infierisce sui più esposti. Ma il male avrà incassato un punto in più se l’indignazione farà da alibi all’uso della violenza per combattere la violenza, del male per combattere il male.

Per tanto, troppo tempo un’imbarazzante teologia della soddisfazione ci ha chiesto di offrire dolore a un Padre che sarebbe stato appagato nella sua ira soltanto dal sangue del Figlio. E questa teologia ha costituito l’alibi più coriaceo alla legittimazione di una giustizia retributiva e afflittiva. Per la quale la pena – intesa come afflizione – conterrebbe in se stessa una forza salvifica.

La prima “uscita” alla quale è chiamata la Chiesa in carcere è la liberazione dalle gabbie teologiche e catechistiche che lasciano al “braccio secolare” la (presunta) soddisfazione da dare alla vittima con la sofferenza imposta al colpevole, riservando alla propria missione un’azione consolatoria che rinforza il modello.

Sono tante le implicazioni nell’azione “pastorale” in carcere (e fuori): i percorsi catechistici come i percorsi di reinserimento, la partecipazione a progetti di giustizia riparativa e mediazione penale come la cura delle relazioni interpersonali (fra i temi dei laboratori).

Complici

Un invito alla “complicità” è venuto dal card. Montenegro nell’omelia della celebrazione finale. Complicità non certo con il male né con i responsabili di reato, ma complici della misericordia divina. Anzi, della giustizia divina, che è alleata (intimamente complice) della radicale redimibilità di ogni persona. Farsi complici dei progetti di bene assunti. La complicità è più profonda della pur generosa assistenza o accompagnamento, perché implica comunione di destini. È grazie alla “complicità” di Cristo con il peccatore (ognuno di noi), non per un’azione estrinseca, che noi tutti siamo liberati e perciò salvati.


[1] Oltre duecento partecipanti, un terzo dei quali cappellani in carica. Un numero consistente di religiose e diaconi. Convocati a Montesilvano (PE) dall’ispettore capo don Raffaele Grimaldi.
[2] Ognuna delle tre giornate di lavoro è stata aperta da una lectio guidata da fra’ Sabatino Chialà, monaco della Comunità monastica di Bose a Ostuni.
[3] È una delle tesi ribadite al Convegno da Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella Facoltà di giurisprudenaza della Cattolica di Milano.
[4] La dura testimonianza di don Fortunato Di Noto sul fenomeno devastante della pedofilia ha raggelato per la constatazione della plasticità del demoniaco.

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Un commento

  1. Maria Laura Martinelli 7 novembre 2018

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