COMECE: osare la speranza di pace

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L’appello pubblicato al termine dell’assemblea autunnale della COMECE – dal titolo Un accorato appello alla pace in Ucraina e nell’Europa intera. «Dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79) (cf. SettimanaNews, qui) – riassume bene il lavoro svolto e lo stato d’animo condiviso dai vescovi degli episcopati dei Paesi dell’Unione Europea.

Con esso si è voluto dar voce alla speranza proprio in un momento di particolare difficoltà per gli avvenimenti in corso, che potrebbero preludere a ulteriori e incontrollabili allargamenti e intensificazioni del conflitto.

All’aggressore e all’aggredito

L’appello si dirige innanzitutto a chi ha scatenato la guerra, non identificato in un intero popolo ma individuato in un determinato soggetto politico.

Non si può invocare efficacemente la pace dissimulando la verità dei fatti. E la realtà dei fatti parla di un’aggressione, con un aggressore e una vittima, e di un attacco all’integrità territoriale di un Paese, l’Ucraina, che comporta una patente violazione del diritto internazionale seguito da una serie di crimini contro civili inermi che nulla hanno a che fare nemmeno con la già perversa logica della guerra guerreggiata.

L’appello si dirige anche all’aggredito, perché non vengano vanificati gli sforzi che da tante parti si vogliono intraprendere per arrivare immediatamente almeno a una tregua. Certo se di pace si potrà parlare, lo si potrà fare soltanto se essa risulterà una pace giusta.

Preghiera e passione per la pace

Accanto a tutti i tentativi che potranno essere messi in campo, il primo impegno che dobbiamo assumere come credenti deve essere quello della preghiera. E, insieme ad essa, l’incoraggiamento a un movimento di opinione pubblica che non si limiti a desiderare e a invocare pace, ma che la sostenga e la incoraggi in tutti i modi, con la passione di chi non teme solo per sé ma si lascia toccare dal dramma di una folla ormai incalcolabile di vittime innocenti raggiunte dalle ferite e dalle conseguenze della guerra, se non già colpite a morte.

È questo un modo imprescindibile di onorare la memoria e le radici che sono all’origine dell’Unione Europea, all’indomani di un conflitto mondiale che invocava pace per il presente e per il futuro attingendo alle risorse spirituali da cui era nata l’Europa, e anche di dare un futuro alle speranze che fin da allora hanno animato tutti quanti si adoperano per tenerla viva ogni giorno.

Il pensiero di un popolo martoriato non solo nei suoi soldati ma anche nei suoi cittadini inermi (come pure il pensiero di quelli che, sul fronte dell’aggressore, spesso sono anch’essi costretti alla violenza cieca della guerra) non può non toccare il cuore di quanti si sentono spettatori impotenti di questa tragedia.

Non possiamo dimenticarci di loro mentre cominciamo a lamentare gli effetti economici e sociali della guerra nei nostri Paesi, soggetti a un drastico ridimensionamento di approvvigionamento energetico e a un impoverimento generalizzato che colpisce in primo luogo le fasce più deboli della società.

Un confronto tra opposti atteggiamenti

Il momento richiede uno sforzo che vada almeno in due direzioni.

Il primo consiste nell’impegno a capire le radici e il senso di ciò che sta accadendo. Uno sguardo superficiale o ideologicamente partigiano ha solo l’effetto di continuare ad alimentare le dinamiche conflittuali del rapporto tra i due popoli coinvolti nella guerra. Capire è la cosa più necessaria per trovare parole e iniziative idonee a percorsi di pace, al livello dell’Unione Europea, come nello stesso ambito ecumenico.

Come suggerisce Klaus Welle, segretario generale uscente del parlamento europeo, bisogna – ed è il secondo sforzo – tenere conto della memoria che i popoli coinvolti hanno alle spalle e della mentalità che li caratterizza a partire dalla storia che li ha plasmati. Ciò che potrebbe sembrare una proposta oziosa e una perdita di tempo ha in realtà il pregio di raccogliere le preoccupazioni e gli interessi, le paure e le speranze non solo di chi ha subito un attacco ma anche di chi si è lanciato in un’avventura che per noi non può essere meno che insensata e crudele.

Sono due atteggiamenti opposti a confrontarsi in questo conflitto, una mentalità imperiale e una di tipo democratico, con tutte le implicazioni che esso comporta in ordine al rapporto tra i popoli e nei processi di fondo che li attraversano e intrecciano l’uno con l’altro. Non serve dare una valenza «metafisica» all’uno o all’altro atteggiamento; ciò di cui c’è bisogno è imparare ad andare gli uni verso gli altri, cercando di capire le ragioni altrui nel rispetto delle proprie.

E, proprio tenendo conto degli interlocutori in campo, bisogna cercare tutti gli spiragli e tutte le possibilità di mettere in circolo parole e gesti capaci di intessere contatti basati sulla fiducia e aprire possibili relazioni durature. Perciò bisogna valorizzare anche i percorsi più umili e più semplici, sostenuti da una fiducia incrollabile nell’efficacia della volontà e della ricerca di pace.

Attivare una diplomazia multilaterale

Insieme a una diplomazia multilaterale, c’è bisogno di sforzi creativi e di tracciare sentieri di cambiamento positivo.

Ciò che ha colpito nell’ascoltare Philip McDonagh, docente irlandese già impegnato in processi internazionali di dialogo e di pace a cominciare dal suo stesso Paese, è la fiducia nella possibilità di continuare a credere e a operare per la pace anche quando sembra agli occhi di tutti diventata un’impresa disperata.

Uno dei suggerimenti è quello di attivare «processi di consultazione a lungo termine», con un «nuovo stile di negoziazione» che preveda «la graduale definizione di nuovi criteri o punti di accordo che regolino la conduzione di relazioni internazionali», nonché di «misure miranti alla costruzione di fiducia» gli uni negli altri.

Egli propone come modello la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa di Helsinki negli anni settanta del secolo scorso, con un largo approccio alla costruzione della pace capace di comporre sicurezza, sviluppo e diritti umani.

La ricorrenza del 50° anniversario dell’Atto finale di Helsinki nel 2025 può inaugurare fin da ora un nuovo processo pan-europeo di grande significato, attraverso il coinvolgimento dei parlamenti, della società civile e delle Chiese, in uno stile di una compiuta diplomazia globale.

Custodire lo spirito delle origini dell’UE

I vescovi della COMECE hanno coscienza del ruolo che in questo momento sono chiamati a svolgere, dal momento che è in gioco, ancora una volta, il destino stesso dell’Unione.

Come ha detto il presidente, il card. Hollerich, «vediamo tutti con preoccupazione che il conflitto può intaccare la coesione dell’Unione Europea e la continuità del progetto europeo».

Ci sentiamo, senza fatua presunzione, di essere tra i custodi delle radici e dell’ispirazione delle origini, e come tali abbiamo la responsabilità non solo di ricordare quelle origini, ma di renderle vive attraverso una parola e una presenza che abbia la valenza di incidere nell’attuale momento drammatico.

Esso richiede, allo stesso tempo, ai Paesi membri di rimanere uniti e all’Unione Europea di esercitare un adeguato ruolo internazionale. Tanto maggiore sarà il protagonismo dell’Unione quanto più salda sarà la coesione tra i vari Paesi.

Proprio questa coesione sarà capace ancora di affrontare le inquietudini sociali che le conseguenze della guerra minacciano di sollevare.

Sia nell’andamento del conflitto sia nell’ordine delle nostre società va evitata a tutti i costi ogni forma di escalation e va fatto prevalere in tutti i modi il dialogo.

La sfida sarà anche quella di affrontare in spirito di solidarietà la carenza di mezzi quale si prospetta su diversi fronti. È la paura del futuro il più grande pericolo e, di conseguenza, «osare la speranza» è l’operazione più urgente da compiere.

Occorre una “visione”

A questo scopo c’è bisogno di visione. Proprio nel momento più critico osare una visione significa il coraggio di allargare i confini dell’Unione e ampliare le forme e le condizioni di dialogo a partire dai Paesi membri, estendendolo agli altri Paesi in un processo di rafforzamento di buone relazioni in cerchi sempre più vasti.

È questo il momento di guardare con coraggio e di intraprendere con creatività il cambiamento in corso, perseguendo con convinzione il processo di allargamento dell’Unione a nuovi Paesi e valutando attentamente i possibili benefici di una Convenzione che conduca alla revisione dei Trattati, su una base pienamente consensuale e preservando tutto quanto di buono è stato introdotto dal Trattato di Lisbona.

C’è un ulteriore tema che si profila in questa sfida che il momento presente lancia all’Europa, e cioè il tema della democrazia e della sua capacità di resistere alle minacce che la insidiano a partire dalle risorse ideali, spirituali e morali che la sostanziano; quelle risorse senza le quali la democrazia non può sussistere anche se essa non le può produrre ma solo presupporre, come dice Ernst-Wolfgang Böckenförde.

Qui entrano in gioco quanti hanno la capacità e la volontà di tenere vive e rafforzare quelle risorse. Tra queste in prima fila le Chiese, testimoni di quel capitale sociale che sorregge la democrazia europea e che solo può assicurarle un futuro.

C’è bisogno in questo momento – insieme – di un «dialogo razionale», come lo chiama papa Francesco, e di ricostruire le basi umanistiche su cui si fonda, nel pluralismo e nel dialogo, l’Unione Europea. Sembrerebbe che le urgenze indotte dalla guerra non consentano di attardarsi su questioni di lungo periodo, mentre è proprio questo il tempo in cui curare le une senza trascurare le altre.

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