Cristianesimo ed Europa, pace e Vangelo

di:

san benedetto

Le radici del Vangelo non sono europee. Esso è scritto in lingua greca da autori ebrei, che hanno vissuto gli eventi e la sequela del Nazareno. Esso è rivolto primariamente a piccole comunità (inizialmente minoranze giudaiche o pagane di lingua greca) che hanno la necessità di fissare in modo scritto la storia di Colui in cui hanno iniziato a credere tramite una testimonianza orale.

Anche le radici del Cristianesimo non sono europee. Se con il termine intendiamo il riconoscimento (esterno) sociale di un gruppo che professa la sua religione nell’ebreo Gesù detto il Cristo, gli Atti degli Apostoli ci ricordano che non in Europa ma «ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (cf. At 11,26).

L’Europa e la «voce della Chiesa»

Leggendo la pagina del Corriere della sera del 30 gennaio 2023, «La Chiesa che sta perdendo l’Europa», vorrei confrontarmi con la prospettiva di E. Galli Della Loggia, il quale vede la proposta «di una pace senza se e senza ma» portata avanti dalla «Santa Sede e dal Vaticano» troppo irenistica in un’Europa che non sembra più ascoltare la voce della Chiesa (ma forse nemmeno quella del buon senso…). L’autore dell’articolo si chiede in maniera inquietante se questo non sia il segno del declino dell’Europa (con la sua «insignificanza» a livello mondiale…) e anche del cristianesimo europeo (in un’Europa sempre più scristianizzata).

Dietro la critica (il messaggio del papa è evidentemente, generalmente, non ascoltato, perché in senso evangelico è alquanto scomodo!), vedo una lettura troppo umanista: sembrano volersi rovesciare le radici cristiane dell’Europa in delle presunte radici europee del cristianesimo, come se le problematiche che la Chiesa sta attraversando fossero da imputare ad una sua fondazione prettamente umana (all’interno di un precedente grembo culturale umano europeo?) e che, come ogni cosa umana che inizia, anche il cristianesimo, dipendente in maniera quasi viscerale dall’Europa, almeno lì, avrebbe fatto il suo tempo.

Secondo gli Atti degli Apostoli, uno dei motivi (paradossali) della diffusione del vangelo/cristianesimo è la sua «impopolarità in patria»: «Quelli che erano stati dispersi [in Israele] a causa della persecuzione scoppiata a motivo di Stefano (martire) erano arrivati fino alla Fenicia, a Cipro e ad Antiochia». I discepoli dispersi erano in terra straniera e per paura, «non proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei» (At 11,19). Ma alcuni fra essi, cominciarono a parlare di Gesù anche ai Greci (pagani), annunciando loro che «Gesù è il Signore». Non erano dunque preoccupati che altri popoli osservassero la Legge di Mosè, entrassero cioè anche a far parte di una particolare cultura (che era la loro!), ma piuttosto si affannavano e testimoniavano (ove necessario con la vita) che «Gesù è il Signore», cioè anche essi, come il Maestro, si sono messi ad annunciare quel regno che «non è di questo mondo». Una grande moltitudine − continua il testo – credette e si convertì al Signore.

Ma c’è anche il rischio di grandi insuccessi come Paolo ad Atene (At 17) in cui, all’annuncio della risurrezione, si produce un generale dissenso e scetticismo. Alcuni però credono.

Una Chiesa senza audacia

Leggo anche la pagina del Foglio del 28 gennaio 2023, «La Chiesa non ha più l’audacia di sfidare il relativismo dominante», di Robert Sarah. Qui vedo l’opportunità di una sana autocritica, di fronte ad affermazioni (rivolte evidentemente ai credenti) del tipo: «Un onesto esame di coscienza dovrebbe portarci a riconoscere che la stessa nostra religione è parzialmente responsabile della sua marginalizzazione».

Religione (e non direttamente fede!), perché con religere s’intende il modo in cui rispondiamo a un Altro che ci chiama ad essere significativi nel mondo per il Suo Nome attraverso il credere (qui sta la fede!) in Lui. «Parzialmente responsabile» denota poi due parti che «inceppano» la trasmissione della fede (impedendo la paradosis evangelica): primo la fatica dell’annuncio (da parte della Chiesa che, purtroppo, a volte viene meno al suo mandato missionario) e la fatica della ricezione (dei non credenti, che purtroppo, a volte, vogliono rimanere tali).

Sarah, (ma anche Galli della Loggia), attribuisce tale marginalità e responsabilità agli scandali che si producono all’interno della Chiesa (pedofilia, amministrazioni finanziarie cattive, esasperazioni burocratiche ecc.). In particolare, sul tema Europa e pace, possiamo applicare quanto segue: «Se [all’interno della Chiesa], scontrandosi inevitabilmente gli uni contro gli altri, iniziano a odiarsi e a insultarsi volgarmente, offrendo uno spettacolo di odio, risentimento, menzogna, rifiuto, disprezzo e di reciproche umiliazioni, come potrebbero ricondurre il mondo a Dio e proporre il Vangelo come stile di vita e libertà, così che il Verbo di Dio possa costituire una diga, “il rifugio dell’uomo davanti all’onda di piena del male che cresce nel mondo”, secondo l’espressione di papa Francesco?».

Beati gli operatori di pace

Il tesoro che la Chiesa è chiamata a custodire, in definitiva, non è un’alleanza culturale (né con l’Europa, né con il mondo). Anzi, essa non tanto custodisce ma è custodita da ciò che è chiamata a diffondere, non solo in Europa, ma in tutto il mondo: la Parola del Vangelo. Tale Parola è al di sopra di tutti, è franca non conoscendo bandiera, e così può permettersi di «rimproverare» senza guardare in faccia a nessuno, ma, allo stesso tempo, con l’intento di custodire e tenere uniti: la Chiesa di fronte alla sua mancanza di credibilità per gli scandali, e la conseguente mancanza di mordente di quell’annuncio di pace «senza se e senza ma» mancandone la visibilità ecclesiale.

L’Europa che non crede che quell’annuncio di pace è in realtà un’«utopia possibile», non fondata sull’irenismo (o l’incoerenza) umana di un gruppo auto-fondatosi, ma su una parola divina, che sussiste «scandalosamente» nell’esemplarità e nell’esiguità di un resto marginale. Essa non è una Buona Novella perché viene magicamente a risolvere i problemi di cui siamo e rimaniamo responsabili, ma perché ci dona una speranza più grande di quella che è possibile trovare sulla terra, in ogni suo ordinamento politico, giuridico, sociale, persino ecclesiale.

Credo ci sia bisogno di un generale riconoscimento di non adempiere/inverare in noi come singoli, come Chiesa e come società quella vocazione, primariamente cristiana di santità, ma anche fortemente umana di impegno etico che interroga ogni relazione internazionale, «poveramente» annunciata/richiesta nelle parole di Vita/Verità contenute nella Buona Novella, che trovano il loro apice nella beatitudine degli operatori di pace che dovranno «esultare e rallegrarsi» quando saranno perseguitati e altro a causa del nome che portano (o a cui magari hanno iniziato ad ispirarsi)!

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