CTI: sulla libertà religiosa

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Breve introduzione all’ultimo documento della Commissione teologica internazionale sulla libertà religiosa. Il testo merita una lettura attenta e la generazione di un sano dibattito e scambio di idee, sia per quanto riguarda la forza strutturale della proposta sia per ciò che concerne alcune criticità sistemiche presenti nell’articolazione di un’antropologia politica a partire dal pensiero della fede. Il desiderio è quello di costruire insieme il profilo più alto di un’effettiva convivenza democratica fra i molti, dove il riconoscimento di tutti non significhi la neutralizzazione del patrimonio motivazionale che ciascuno può apportare per la buona riuscita di questa impresa. Il rischio è che la Chiesa cattolica sia più fragile di quello che il documento immagina, non avendo, nel suo complesso, tra le mani quelle sensibilità umanistiche che sono necessarie per maneggiare con la dovuta cura evangelica una figura così delicata come quella di un’antropologia politica.

Ormai si tratta di un’evidenza non confutabile: il papato di Francesco ha virtuosamente riattivato la costruttività progettuale delle competenze teologiche in seno alle istituzioni vaticane. I lavori e i documenti della Commissione teologica internazionale in questi ultimi sei anni ne sono il luogo di una verifica effettiva.

Riattivare un buon pensiero teologico

Il ritmo delle tematiche considerate, fino all’ultima sulla questione della libertà religiosa, lascia intuire una regia discreta che ha di mira un preciso cammino teologico di cui la Chiesa cattolica odierna ha bisogno. Nel momento in cui essa lo attua, si propone allo stesso tempo come voce significativa per una configurazione della socialità che sia all’altezza della qualità umanistica che possiamo attenderci da essa.

L’ultimo documento della CTI «La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee» si concepisce esattamente secondo le coordinate maggiori di questa prospettiva. E non lasciamoci fuorviare dalla «scolasticità» conciliare del titolo, perché quello che questo documento mette in campo è una vera e propria antropologia politica pensata a partire dall’intelligenza teologica del Vangelo cristiano.

Si mira in alto, dunque; e si entra nel dibattito contemporaneo con il chiaro intento di alzarne notevolmente il profilo (in una stagione in cui si fa fatica a non immiserirlo per il solo fatto di prendere parola). L’impresa è ambiziosa, e va lodata proprio in questo suo intento.

Un’antropologia politica

Ogni volta che si alza la posta della qualità dialogica della circolazione delle (buone) idee ci si espone, inevitabilmente, ai rischi insiti in questo azzardo. Il testo ne è consapevole, e attende con lieta disponibilità analisi critiche che mirino all’incremento della qualità umana del nostro vivere insieme. Se invece vogliamo rimanere impantanati nelle schermaglie ideologiche di schieramenti di parte oramai superati dalla condizione effettiva in cui versa l’umano che è comune, allora mancheremmo completamente la disponibile apertura al confronto che permea l’antropologia politica abbozzata in queste pagine.

Certo, anch’esse non prive di ambivalenze che, ci auguriamo, un serio dibattito teologico e culturale potrà aiutare a illuminare a dovere, in prima battuta, e a sciogliere poi grazie alla schiettezza di ogni pensiero a cui sta a cuore la buona e riuscita destinazione dell’umano.

Perché questo testo, anche nei passaggi più esposti a una plausibile critica, merita di ricevere adeguata considerazione accendendo una discussione che metta in circolo una feconda competizione delle idee in vista di immaginare la migliore architettura possibile dell’umana convivenza fra i molti.

Per iniziare il dibattito…

Due brevi annotazioni finali. L’articolazione del rapporto fra forma statuale, pratica della religione, libertà di espressione pubblica e quadro giuridico, è più variegato, complesso, e forse anche maggiormente ospitale di buone relazioni di quanto non si possa evincere dalla generalizzazione (necessaria in testi di questo genere) su cui fa sponda ripetutamente il documento della CTI.

Dato il tema, la sua portata nella condizione politica attuale, e la pretesa di disegnare le coordinate di fondo di un’antropologia politica a partire dal pensiero della fede e capace della tradizione più alta delle pratiche democratiche, l’uscita solo in italiano (per il momento) del documento rischia di essere un limite che mortifica le sue buone intenzioni. Data la qualità e la pretesa intrinseca all’abbozzo di questa antropologia politica, che la Chiesa di Francesco non teme di esporre al dibattito delle idee, la qualità delle traduzioni in altre lingue sarà più decisiva di quanto non si possa pensare a prima vista.

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