Eritrea: confiscati gli ospedali cattolici

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Il governo dell’Eritrea ha intimato alla Chiesa cattolica di consegnare allo Stato tutti i suoi centri sanitari, firmando un documento per il passaggio di proprietà. Lo scrive Paolo M. Alfieri, sabato 15 giugno 2019, in un servizio all’Agenzia Fides. Di fronte al rifiuto, il governo ha chiuso tutti i centri sanitari della Chiesa, sgomberando il personale.

«Sembra di essere tornati al 1982, quando il regime del terrore di Menghistu Hailemariam confiscava molti beni della Chiesa cattolica, compresi conventi, scuole, centri medici, con l’uso della forza bruta – sottolinea padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo, presidente dell’Agenzia Habeshia –. Anche l’attuale regime si è presentato nei conventi di suore dove si trovavano molti di questi centri medici, ha messo i sigilli, buttando fuori il personale e i malati, terrorizzando religiosi e religiose che cercavano di difendere il loro servizio al popolo».

Una legge del 1995, mai entrata in vigore, prevedeva che tutte le strutture sociali (scuole, centri medici) fossero gestiti dall’autorità pubblica. Poi, tra il 2017 e il 2018, sono state chiuse otto cliniche cattoliche. Ad essere colpiti sono i più poveri, come gli afar, popolazione nomade della Dancalia. Lo scorso anno sono stati privati dell’unico centro medico della regione gestito con coraggio e determinazione da alcune suore orsoline.

Gli osservatori interpretano la decisione di chiudere le strutture mediche come una sorta di ritorsione del regime di Isaias Afewerki contro la Chiesa cattolica. Nell’aprile scorso, i vescovi della regione, al seguito dell’accordo di pace firmato con l’Etiopia, avevano chiesto «un processo di riconciliazione nazionale che garantisse giustizia sociale» per tutti, dopo anni di rigida autarchia. Queste parole non sono però state ben accolte dai vertici del regime.

La Chiesa cattolica gestisce in Eritrea circa 40 tra ospedali e centri sanitari, tutti a servizio della popolazione, senza alcuna distinzione di etnia o religione, che forniscono cure quasi sempre gratuite. «Nel manifestare la nostra profonda amarezza per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi in questi giorni, dichiariamo che non consegneremo di nostra volontà e disponibilità le nostre istituzioni e quanto fa parte della loro dotazione – hanno scritto i vescovi locali –. Privare la Chiesa di queste e simili istituzioni vuol dire intaccare la sua stessa esistenza, ed esporre alla persecuzione i suoi servitori, i religiosi, le religiose, i laici».

Un’intervista al signor Hecking, rappresentante di “Missio”

Non è la prima volta che in Eritrea la Chiesa e lo Stato collidono. La nazionalizzazione degli ospedali e delle cliniche cattolici fa parte di uno scontro storico tra la piccola minoranza cattolica e il regime, la cui fondazione risale al 1993. La Chiesa si è sempre ritenuta portavoce critica del popolo in questo Stato unipartitico comunista. E non cesserà di esserlo nonostante i reiterati tentativi di intimidazione.

Ma come capire il significato e le ragioni che ci sono dietro?

Lo spiega l’incaricato di Missio per l’Africa orientale, Hans-Peter Hecking, in questa intervista del 1° luglio scorso raccolta da Claudia Zeisel per katholisch.de

confiscava molti beni della Chiesa cattolica

Chiesa in Eritrea (Foto: © robnaw/stock.adobe.com)

– Signor Hecking, fino a che punto la confisca degli ospedali cattolici è una vendetta del governo eritreo per la recente lettera pastorale dei vescovi cattolici del Paese in cui nuovamente si sono espressi criticamente sulla politica del Paese?

Può darsi che la lettera pastorale che i vescovi hanno scritto per la festa di Pasqua abbia fatto traboccare il vaso. Bisogna tuttavia tener presente che i tentativi dello Stato per limitare le attività della Chiesa nel Paese sono cominciati fin dalla sua fondazione. Fin dall’indipendenza dell’Eritrea, nel 1993, si è cercato di tenere al guinzaglio la Chiesa cattolica come anche tutte le comunità religiose riconosciute – ortodosse , musulmane e luterane – in relazione alle loro attività sociali. Nel 1995 fu emanato un apposito decreto e la Chiesa cattolica protestò fin dall’inizio. Anche ora essa ha reagito immediatamente e, dopo la recente confisca degli ospedali, ha scritto una lettera alla ministra della sanità.

Fin dalla prima frase, i vescovi accennano al decreto del 1995 e sottolineano che già allora avevano detto chiaramente che la Chiesa cattolica eritrea ha una missione globale e intende svolgerla oltre all’attività spirituale impegnandosi anche per il benessere, le attività sociali, la costruzione e lo sviluppo del Paese.

– La diffidenza dello Stato verso la Chiesa cattolica ha delle ragioni storiche? In fin dei conti, l’Etiopia che ha esercitato per lungo tempo il suo influsso sull’Eritrea, è un Paese che ha profonde radici cristiane. L’Eritrea vuole prendere le distanze per evitare un possibile influsso esterno?

La Chiesa cattolica in Eritrea, come anche in Etiopia, costituisce una piccolissima minoranza. In Eritrea ci sono circa 120.000 cattolici, suddivisi in quattro diocesi, come noi le chiameremmo. No, la Chiesa cattolica, pur essendo una piccola minoranza – e qui occorre sottolineare il coraggio dei quattro vescovi eritrei – è stata vista nel Paese come una forza critica che ha saputo manifestare apertamente il suo dissenso. Per esempio, nelle lettere pastorali regolarmente emanate – l’ultima, come appena detto, quella per la festa di Pasqua –, e io potrei ricordare almeno dieci o dodici altre lettere degli anni precedenti. In esse la Chiesa cattolica, in quanto portavoce del popolo, esprime una critica aperta sulle condizioni del Paese.

– Non è la prima volta che il regime eritreo confisca gli ospedali della Chiesa – alcuni sono ancora chiusi a tutt’oggi. La recente azione dello Stato è stata particolarmente violenta?

È interessante notare che la Chiesa cattolica, nella sua presa di posizione, si è riferita al periodo etiopico sotto il regime del Derg e ha posto le recenti confische nel contesto della etiopizzazione di allora. In quel tempo, anche le strutture della Chiesa furono nazionalizzate. A quel periodo guardano ancora oggi e dicono: “Guarda caso, a nazionalizzare le chiese era stato un dittatore straniero. Tuttavia, allora, c’era ancora la speranza della liberazione. Cosa succede ora? In uno Stato di diritto una cosa del genere non può avvenire”.

– Ma l’Eritrea non è uno Stato di diritto; non esiste nemmeno una Costituzione.

È interessante notare come i vescovi qui esprimano chiaramente, sia pur tra le righe, la loro critica: in uno stato costituzionale, fatti del genere come quelli avvenuti ora col governo sono impossibili. I vescovi in tutte le loro lettere – anche nell’ultima – hanno espresso chiaramente le loro critiche affermando che in Eritrea non ci sono condizioni costituzionali di diritto. Non esiste nel Paese alcuna divisione dei poteri. Non c’è un parlamento in funzione, nessun potere giudiziario, legislativo o esecutivo. Tutto è sottoposto ai dettami del partito unico – con a capo Isayas Afewerki.

– Con la confisca degli ospedali della Chiesa, i medici sono stati mandati a casa e i pazienti hanno dovuto lasciare i loro letti. Queste persone adesso hanno uno strumento giuridico per difendersi?

Questa possibilità praticamente non esiste. Dove non c’è alcuna struttura statale di diritto, cosa vuole che possano fare? Possono solo protestare apertamente come fanno i vescovi.

– Dall’esterno, l’inviata speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, Daniela Kravetz, ha parlato di persecuzione dei cristiani. Lei sottoscriverebbe questa dichiarazione?

Io sarei un po’ cauto, perché il governo da anni ha usato simili misure sia contro i cristiani sia anche contro le altre comunità religiose. Anche i musulmani negli anni scorsi sono stati di continuo oggetto di repressioni. In parole povere, non si tratta qui solo di persecuzione dei cristiani ma anche di persecuzione e di oppressione dell’intero popolo eritreo.

– Quanti prigionieri politici ci sono a suo parere in Eritrea?

Si sa che in Etiopia con il nuovo primo ministro Abiy Ahmed sono stati rilasciati dei prigionieri politici. Non ho notizie di misure analoghe in Eritrea. Il numero dei prigionieri politici è di decine di migliaia. E sono tenuti in condizioni disumane. Negli anni addietro, per esempio, ci sono state notizie di torture, segnalate dalle testimonianze documentate di rifugiati. Questo è un sistema brutale. Esteriormente c’era molta speranza per l’apertura delle frontiere con l’Etiopia. Ma all’interno, in Eritrea, non è cambiato niente.

– C’è il rischio che in Eritrea vengano introdotte misure ancora più restrittive per la paura che dall’esterno alcune forze liberali possano disturbare il sistema?

Negli ultimi anni le misure restrittive non era possibile superarle. Non saprei come si possa pensare ancora ad un aumento. Da anni non è cambiato semplicemente niente. Lo si vede anche dalle iniziative più recenti contro la Chiesa cattolica. Con questo genere di comunismo fossilizzato, le misure della dittatura continuano, si cerca di tenere tutto sotto controllo.

– Anche in Etiopia ci sono tensioni tra gruppi etnici. In quale misura l’accordo di pace è diventato realmente effettivo nei due paesi?

Basta semplicemente osservare. L’Etiopia è un Paese enorme con cento milioni di abitanti, mentre l’Eritrea è piccola e ha appena cinque milioni di abitanti. In Eritrea ci sono 9 etnie diverse, in Etiopia 80. Tutte le regioni del Paese sono segnate dai confini etnici. L’obiettivo è di fare dell’Etiopia una nazione con tutte le difficoltà che ne derivano. In Etiopia ci sono molti nazionalismi legati ai diversi gruppi etnici.

– Un grosso problema, come hanno affermato anche i vescovi dell’Eritrea, è costituito dalla fuga di centinaia di migliaia di persone dal Paese. Con l’apertura della frontiera, i flussi dei fuggitivi sono aumentati?

L’Etiopia ha sempre accolto la maggior parte dei profughi eritrei. Con il trattato di pace è stato ripreso lo scambio commerciale tra i due paesi; gli eritrei oltrepassano il confine per fare gli acquisti per sé e per le loro famiglie. Ma alcuni colgono l’occasione per emigrare in Etiopia. Non per niente i vescovi parlano nella loro ultima lettera di un “esodo di massa”.

– Cosa significa ora tutto ciò per il processo di riconciliazione tra i due paesi, se la situazione in Eritrea non migliora e la gente continua a soffrire e a fuggire?

I vescovi, nella loro lettera, salutano con favore le iniziative di pace fra l’Eritrea e l’Etiopia, ma ricordano che, nonostante ciò, molti eritrei vivono in esilio, sono in carcere o sono caduti nelle mani di coloro che propiziano la fuga. Conosciamo storie di atrocità contro i profughi eritrei nel Sinai o che hanno trovato la morte o la rovina sulla rotta del Mediterraneo. I vescovi propongono una commissione per la verità e la riconciliazione, in cui le varie forze sociali possano entrare in dialogo. Questo dialogo, nel desiderio della Chiesa, dovrebbe essere trasparente e assecondato dai media – una chiara richiesta questa anche della libertà di stampa nel Paese. Chiedono che il linguaggio della violenza e della vendetta ceda il posto a quello della pace.

– Se lo stato reagisce a queste richieste con la confisca delle istituzioni della Chiesa, sembra che, da parte sua, non ci sia nessuna disponibilità al dialogo.

La Chiesa, da anni, cerca di mettere il dito sulle ferite. E non smetterà di farlo. Al contrario, da parte dello Stato, c’è poca volontà di cambiare qualcosa nelle condizioni politiche interne, come creare uno stato di diritto, assicurare la partecipazione della società civile o garantire i diritti umani e civili. C’è ancora molta strada da fare e la Chiesa si sforza affinché questo cammino rimanga pacifico nel tempo.

– Cosa succede tra la gente? Con l’accordo di pace e l’apertura delle frontiere è avvenuto un movimento verso l’Etiopia?

La pressione che il regime esercita sulla popolazione è tuttora pesante. Nel Paese non esiste alcuna opposizione, quella in esilio è divisa in se stessa. Perciò è difficile dire se qui qualcosa si muoverà.

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